Rileggere L’immaginazione sociologica di Charles Wright Mills a quasi sessant’anni dalla sua uscita produce uno stato d’animo ambivalente. Il furore critico che aveva animato questo volume, producendo un buon consenso, in particolare in Italia, preserva ancora il suo valore, sia come rappresentazione delle scienze sociali nel secondo Dopoguerra sia come riflessione metodologica all’interno della tradizione sociologica. In particolare, a funzionare nel testo di Mills è ancora la critica feroce a due tendenze sociologiche del suo tempo, che egli definisce “la grande teorizzazione”, il cui rappresentante principale è Talcott Parsons, e “l’empirismo astratto”, modus rappresentato plasticamente dai lavori di Paul Lazarsfeld.
Se collochiamo questa analisi ambiziosa e il modo frontale in cui è stata condotta nel proprio tempo, si comprende perfettamente il merito di questo lavoro, la sua capacità storica di rottura e la conseguente apertura di una sensibilità nuova nella ricerca sociale. Allo stesso tempo, leggendo L’immaginazione sociologica si ha l’impressione di un’assenza, una sensazione di incompiutezza che pagina dopo pagina si dispiega in modo piuttosto chiaro: il grande assente è un linguaggio realmente nuovo e autenticamente immaginale, capace di esprimere la più feconda delle relazioni, quella tra biografia e storia.
È questo limite che appare in maniera più evidente rispetto al passato, quando il sociologismo di Mills era celato dalla portata innovativa delle sue idee. Lo si evince in citazioni come questa: “voglio rendere chiari la natura e gli usi delle scienze sociali odierne e dare un rapido quadro della loro situazione presente negli Stati Uniti” (Mills, 2018). Una dichiarazione d’intenti, basata sull’idea di sistematizzare e fare chiarezza, che invece di cristallizzare le potenzialità dell’immaginazione sociologica ripiega nell’“ethos burocratico”, che lo stesso Mills intendeva svelare e contestare. Siamo quindi al cospetto di un’opera che mantiene una forte proposta critica e teoretica ma che, allo stesso tempo, convive con la difficoltà di spogliarsi delle costruzioni e costrizioni “ambientali” che dominavano la sociologia degli anni Cinquanta del Novecento. Il sociologo americano illumina la necessità di una strada alternativa ma non riesce pienamente a immaginare una scrittura, quindi un metodo, che sappia confrontarsi con la portata poderosa del suo obiettivo.
Eppure, in alcuni passaggi del testo, Mills folgora il lettore con un’idea di straordinaria potenza teorica: “L’immaginazione sociologica ci permette di afferrare biografia e storia e il loro mutuo rapporto nell’ambito della società”, paventando quindi una sorta di facoltà di “abbracciare con la mente le trasformazioni più impersonali e remote e le reazioni più intime della persona umana e di fissarne il rapporto reciproco” (Mills 2018).
Lo studioso americano coglieva la necessità di mettere al centro della propria riflessione una prospettica storica, che non fosse appiattita sul presente – com’era a suo avviso il caso delle analisi empiriche – con un ineffabile obiettivo “pratico”:
“senza l’uso della storia e senza un senso storico delle questioni psicologiche, lo studioso di scienze sociali non può formulare adeguatamente quelle tipologie di problemi che dovrebbero oggi essere i punti di orientamento dei suoi studi”.
Inoltre – e questo appare l’approdo concettuale più significativo dell’opera – il sociologo americano focalizzava la sua attenzione sulla relazione tra l’io dell’attore sociale e le sue esperienze pubbliche e storiche. Solamente esplorando questa tensione costante tra l’io e il mondo e tra il presente individuale e la storia, si sarebbero create le basi per una nuova immaginazione sociologica.
Un manifesto metodologico di rara potenza ancora privo, però, di una forma espressiva e rappresentativa adeguate. Quella che solamente qualche anno più tardi, nel 1964, sarà teorizzata, ad esempio, da Marshall McLuhan in Understandig media (apparso in Italia con il titolo Gli strumenti del comunicare) con l’idea di “configurazione”. È l’avvento del cinema e successivamente quello dei media elettronici – quindi di linguaggi nuovi – a favorire secondo McLuhan la transizione dalle “connessioni lineari” alle “configurazioni”. Sono i mezzi di comunicazione moderni, i loro funzionamenti e il loro studio a suggerire l’idea che solo l’occhio e la mente del fruitore possono creare delle configurazioni di significato non più governate dalla causalità ma dalla simultaneità, una transizione che rende visibile un presente intrecciato col passato e un io nutrito dal mondo.
Gli studiosi che come Charles Wright Mills o Marshall McLuhan hanno contestato apertamente o attraverso una prassi teorica originale le sociologie dominanti hanno finito spesso per costituire un corpus eterogeneo e inutilizzabile, prestandosi a essere percepiti, nel migliore dei casi, come il riferimento intellettuale di qualche pensiero eterodosso o, molto più spesso, per essere dimenticati.
La nuova edizione di un libro come L’immaginazione sociologica, con la sua critica dettagliata e ficcante all’empirismo, che sfocia nell’astrazione, e alle teorizzazioni sistemiche, che divengono monoliti inutilizzabili, può indicarci una strada nuova sintetizzata dalle parole del suo autore:
“Quanto più le immagini della natura umana diventano problematiche, tanto più si sente il bisogno di osservare con maggiore attenzione, e al tempo stesso con più vivace uso dell’immaginazione”.
- Marshall McLuhan, Gli strumenti del comunicare, il Saggiatore, Milano, 2016.