Nel fitto sottobosco dell’editoria italiana, popolato talvolta da erbacce infestanti e talvolta da rovi spinosi e da fiorellini smagriti che durano soltanto un giorno o due, ci sono anche delle piante che crescono lentamente, e che lentamente provano a cercare rigoglio nel loro giusto spazio. È il caso delle piccole edizioni romane Caravan, in piedi dal 2010, che, di certo senza l’ingordigia di chi rincorre a testa bassa l’obiettivo di un catalogo pingue, negli ultimi tempi stanno portando all’attenzione del lettore italiano una piccolissima parte di quanto contemporaneamente sta avvenendo nell’esteso e forse sconfinato panorama delle giovani lettere latinoamericane. Tra gli autori finora pubblicati da Caravan una menzione speciale va senza dubbio a Mariana Enriquez, scrittrice quarantatreenne di Buenos Aires e anima apparentemente inquieta, di cui la casa romana ha portato alle stampe Quando parlavamo con i morti (2013), un libricino di poco più di cento pagine al cui interno è possibile trovare tre racconti assai meritevoli che tentano da una parte, e con ottimi risultati, di recuperare la vocazione fantastica della letteratura argentina, e dall’altra di approfondire quel senso di mondano perturbante che trova ancora albergo sotto l’ombra purtroppo lunghissima dei colonnelli e delle loro dittature del passato più recente.
In conformità delle intenzioni generali del programma di Caravan, i tre racconti di Mariana Enriquez (su tutti quello che dà il titolo alla breve raccolta, in cui alcune amiche adolescenti cercano di scoprire, evocando i morti tramite una tavola ouija, quale destino sia toccato realmente in sorte ai propri cari desaparecidos) si situano in quel luogo sfumato costituito dall’incontro tra le generazioni, là dove le madri e i padri e i figli e le figlie cercano di guardarsi negli occhi per capire cosa ne è stato del “prima” e, possibilmente ma senza troppa intenzione, cosa ne sarà del “poi”. Proprio in questo stesso luogo fatto di margini e di raffronti spesso dolorosi si sviluppano anche altre due storie date di recente alle stampe dalla casa editrice romana: Passeremo per il deserto, del cileno non ancora trentenne Diego Zúñiga (2012), lungo racconto (ri)costruito per frammenti di una storia familiare segnata come tutte, nel suo Paese, dall’esperienza terribile del potere di Augusto Pinochet; e Scritto sulla tua terra (2014) di Mauro Libertella, in cui il giovanissimo figliolo di un grande scrittore argentino poco conosciuto qui da noi (Héctor Libertella) cerca di fare i conti con la morte del padre e con le sue proprie velleità di appartenere allo stesso mondo del genitore trapassato.
Tale tema di passaggio, se così ci è concesso chiamarlo, appartiene, seppure in misura di certo minore, anche all’ultimo volume pubblicato nella collana Bagaglio a mano di Caravan (cui appartengono tutti i testi finora citati). Si tratta di La straordinaria tristezza del leopardo delle nevi, romanzo grosso modo poliziesco del brasiliano Joca Reiners Terron, classe 1968. Qui, anche se il confronto tra i padri e i figli è relegato soltanto a una delle diverse storie che si intrecciano diventando infine una sola trama, resta vivo il senso di irreparabile scollamento tra le generazioni di cui si è finora parlato. Ci troviamo a San Paolo, in una città cupa e violenta in cui le anime, ormai solinghe per costituzione, col favore di una costante notte unanime si prodigano per quanto possibile al fine di inseguire ognuna il proprio ristoro, medicamento di una solitudine apparentemente inestinguibile che con testardaggine cerca di trascinare chiunque all’interno del proprio mondo parcellizzato. Ci troviamo in una città in cui tutto lascia immaginare che la convivenza, l’adesione al consorzio umano, sia soltanto una beffa messa a mascheramento di una terribile evidenza: ognuno è solo.
Soli sono gli innumerevoli tossici di crack che, come una cornice, popolano le strade di San Paolo dando vita a intermittenti costellazioni notturne di carta stagnola e di accendini; solo è il poliziotto che si prende cura del padre annichilito da un’irreversibile degenerazione dovuta alla demenza che ha trascinato con sé il passato, le ragioni e i segreti del vecchio, precipitandolo in un vuoto coscienziale dal quale è impossibile risalire; sola è l’infermiera, braccio terreno di dio o del demonio, che si prende cura di una “creatura” malata e profondamente malinconica, un’infima rappresentante del genere umano che, colpita da un morbo violento e totale, è diventata putrida e repellente allo sguardo altrui, sola a sua volta, più di tutti gli altri, cacciata dall’accampamento degli uomini come accade ai lebbrosi del Levitico, e dunque maggiormente prossima all’universo delle bestie, unica ideale compagnia del suo mondo nascosto, privo della luce solare; solo è il tassista che si prende cura dei suoi tre rottweiler, bestie assetate di sangue e nere come l’oscurità più profonda che, spronate dal padrone, percorrono le strade cittadine alla ricerca di prede sempre più grandi, sempre più difficili da sconfiggere: ratti, barboni e compositi gruppi di visitatori di uno zoo: il Nocturama, luogo semifantastico in cui la “creatura”, accompagnata dalla sua infermiera e da un’accolita di gente vigliacca e casuale, s’arrischia in una gita protetta dalle tenebre che seguono il vespro per riuscire a vedere prima di morire il leopardo delle nevi, essere vivo ma rubricabile negli spazi del mito, membro isolato della sua specie morente costretto nella cattività di una gabbia e di un’irrimediabile solitudine.
In tutti i casi, in quello degli uomini e in quello degli animali, siamo di fronte a personaggi che non possono far altro che vivere nell’ombra, girando attorno a una storia che li unisce costruendosi a poco a poco in una coerente molteplicità romanzesca che tuttavia lascia ognuno di loro come parte ben distinta del racconto, perché se quello degli uomini e delle bestie è un destino comune, la sua dimensione condivisa sta forse proprio nell’inderogabile assenza di comunione che li caratterizza come fondamento, o che ancor meglio li caratterizza in quanto specie soprattutto dal momento in cui il progetto della modernità, rappresentato nel nostro caso dall’umbratile ambiente urbano di San Paolo, ha dimostrato la sua più profonda inadeguatezza. A suffragio di questa conclusione c’è anche un’altra vicenda cui si fa richiamo nel libro come parametro, come cifra cui confrontare quanto mano a mano va accadendo nello svolgersi della narrazione. Si tratta di una storia di uomini e animali che soccombono alla violenza, lasciando il passo alla modernità nel suo farsi conclusivo: la vicenda dei Comanche e dei bisonti delle praterie nordamericane, costretti alla resa definitiva dall’ingordigia di chi sperava di poter dominare sullo spazio e su tutto ciò che lo spazio contiene, senza pagare alcuna conseguenza.
“Dopo la guerra contro i bianchi, la nazione comanche fu confinata in una riserva in Oklahoma. Contro la loro volontà, da nomadi [i Comanche] divennero stanziali e iniziarono a seminare, benché disprezzassero l’agricoltura e l’inerzia. Tuttavia gli indiani continuarono a sognare le praterie texane dove cacciavano i bisonti in sella ai loro mustang […]. A quel punto si affermò un leader, Quanah Parker […]. Accecato dalla libertà, Quanah Parker approvò concessioni, concluse negoziati, si sottomise all’uomo bianco, molto astuto, abbastanza saggio, tutto per riuscire a tornare alla prateria […]. Così i Comanche guidati da Quanah Parker attraversarono gli Stati Uniti d’America verso il Texas in lunghe giornate di marcia fino alla regione in cui erano nati […]. Una volta arrivati, i Comanche trovarono un’immensa pianura ricoperta di ossa di bisonti sbiancate dal sole. Non c’era più nessun animale a galoppare sull’orizzonte”.
Tutto lascia presagire che, secondo Terron, stessa sorte debba toccare a ogni singolo uomo. Una sorte di solitudine e di straordinaria tristezza, come quella del leopardo delle nevi, il quale da parte sua ha un’arma risolutiva che sembra non essere data agli uomini, almeno non ancora. Sì, parliamo proprio dell’estinzione.
- Mariana Enriquez, Quando parlavamo con i morti, Caravan, Roma, 2013.
- Mauro Libertella, Scritto sulla tua terra, Caravan, Roma, 2014.
- Diego Zúñiga, Passeremo per il deserto, Caravan, Roma, 2012.