Il testo che segue proviene dal volume Guida alla Letteratura di fantascienza a cura di Carlo Bordoni, pubblicato da Odoya e riprodotto per gentile concessione dell’editore. Si tratta del capitolo intitolato Utopia e distopia, qui integrato da una bibliografia dei testi citati. Il libro pubblicato nel 2013 sarà ristampato quest’anno (ndr).
di fantascienza
pp. 665, € 26,00
Nella storia della cultura occidentale sono molti i casi di rappresentazione di una società futura, perfetta e ideale. Basti pensare alla Repubblica di Platone o alla stessa Utopia (1516) di Thomas More, che ha dato origine al termine utopia (dal greco eu-topia, “buon luogo, o ou-topia, “nessun luogo”), entrato nell’uso comune per indicare un fatto o un’idea irrealizzabile o altamente improbabile.
La rappresentazione di un futuro distorto o pessimista è, invece, più recente: si definisce come utopia negativa o “distopia”, termine coniato da John Stuart Mill nel 1868.
La violenza e l’autoritarismo dei regimi totalitari, assieme allo sgomento dell’individuo inserito nell’ingranaggio di una società sempre più industrializzata e burocratizzata, creano sfiducia nel futuro, fanno crollare la fede positivista nella scienza, non più sostituita da altra fede, se non da quella politica, che però va nel senso della massificazione e non certo verso l’esaltazione delle libertà individuali. Nel secolo in cui vengono alla ribalta le masse e, di conseguenza, una cultura di massa, la prospettiva che si offre allo scrittore non può che essere presaga di un appiattimento delle differenze sociali, di un oscuramento dei valori tradizionali, della limitazione delle libertà personali.
I romanzi distopici, sin dai primi timidi tentativi di Émile Souvestre (Le Monde tel qu’il sera, 1846), H.C. Marriott Watson (Erchomenon, or the Republic of Materialism, 1879) e Walter Besant (The Inner House, 1888), sono un grido d’orrore per un futuro intravisto non più a misura d’uomo. Il primo romanzo di H.G. Wells, La macchina del tempo (The Time Machine, 1895, ma ne esiste una versione del 1888), in cui trapela la sua simpatia politica per la società fabiana inglese, gli permette di sviluppare la teoria dell’evoluzione darwinista.
In un futuro abitato da due classi sociali antagoniste, che hanno acutizzato le loro caratteristiche – fisiche e comportamentali, esistono una classe dirigente (gli Eloi) e una subalterna (i Morlocks), abbrutita dalle condizioni inumane di lavoro e sfruttamento, che cova desideri di rivolta contro i padroni.
Noi (My, 1921), del russo Evgenij Ivanovič Zamjatin, è il primo ro-manzo a sviluppare l’idea di una società futura che schiaccia l’uomo, già presente in larga misura in Il tallone di ferro (The Iron Heel, 1908) di Jack London. In Noi l’uomo è ridotto a un numero, la sua esistenza è pianificata e regolata al secondo. Vive da solo in case di cristallo, all’interno di metropoli di cristallo, avvolto da un’esaltante ossessione per le scienze esatte e le raffigurazioni geometriche.
Il potere assoluto è rappresentato dalla figura gigantesca del Benefattore, una sorta di anticipatore del Grande Fratello di Orwell, che entra in scena soprattutto per debellare i ribelli del sistema, nel corso di grandi rituali di massa. Zamjatin, a differenza di London, critica principalmente il regime sovietico per la scarsa considerazione in cui è tenuto l’individuo, per la collettivizzazione del lavoro, per la pianificazione burocratica e per le rigide indicazioni sulla funzione della famiglia. Noi è infatti popolato di singles: la famiglia è solo un ricordo, e ai figli pensa lo Stato. I momenti d’amore sono dispensati dall’alto con regolarità e rigidità. Ribellarsi significa fare l’amore in luoghi e in tempi non consentiti, o addirittura decidere di avere un figlio, come fa la protagonista femminile.
Ma il mondo sognante di Noi non è abbastanza razionale: il Benefattore e i suoi guardiani vogliono anche il controllo delle menti, sopprimendo la fantasia.
È lo stesso genere di felicità raggiunta impedendo all’uomo di pensare che si ritrova ne Il mondo nuovo (Brave New World, 1932) di Aldous Huxley o nel più celebre 1984 (id., 1949) di George Orwell. Anche Huxley prevede un mondo irreggimentato e diviso in caste chiuse, dove lavoratori si nasce, in cui la droga ha lo scopo di fornire una felicità artificiale e impedire qualsiasi tentativo di ribellione. Non c’è speranza al di fuori del sistema, e chi si ribella è destinato a morire o a reintegrarsi senza speranza, come i personaggi di Orwell.
La visione di quest’ultimo è senza dubbio la più pessimista, quella che, meglio di ogni altra, dimostra di aver perduto ogni fiducia nell’uomo e nella macchina, oltre che nella società stessa, persino in quella comunista.
Orwell aveva già sfoderato la sua sferzante satira nei confronti del sistema sovietico ne La fattoria degli animali (Animal Farm, 1945), in cui i maiali si sostituiscono all’uomo nell’esercizio di un potere assoluto all’interno del consorzio bestiale; ma la lotta personale di Orwell contro il comunismo non poteva limitarsi a una metafora farsesca. 1984 è la cupa rappresentazione di un prossimo futuro e di una Londra sovietizzata e decadente, di un sistema sociale insulso e tragicamente ridicolo. A partire dall’attività principale del ministero della Verità, che è la sistematica costruzione della menzogna e la sua divulgazione.
Il lavoro dello stesso protagonista, Winston Smith, consiste nel riscrivere continuamente vecchi articoli del Times, adeguandoli alle realtà economiche e alle necessità politiche del momento.
La gigantesca macchina del partito coinvolge buona parte della popolazione in una ripetitiva attività propagandistica e di controllo politico, che appaiono come le uniche occupazioni
di rilievo in una comunità che non produce
beni di consumo, ma solo informazioni e per di più false.
Gli abitanti del mondo infelice di Orwell che non fanno parte dell’élite del partito costituiscono il prolet, vivono in anonime periferie, abbrutiti dalla birra e dal lavoro, si raccolgono in maleodoranti locali: per essi il futuro non è dissimile dal presente. Il futuro è ancora una volta un grosso problema per l’intellettuale borghese, minacciato nei suoi
privilegi e nei valori più cari. A differenza di Zamjatin e di Huxley, in cui l’amore è programmato ma promiscuo (alla legittimità del rapporto coniugale si sostituisce una legittimità di Stato), Orwell bandisce decisamente il sesso dal suo grigio futuro: un’altra repressione per i tristi abitanti di 1984, costretti a vivere l’amore come colpa o a sublimarlo.
Gli orrori di Orwell sono la presenza ossessiva del teleschermo, capace di vedere oltre che di essere visto, l’occhio vigile del Grande Fratello e la costrizione a usare un linguaggio sempre più povero, attraverso il quale diviene difficile formulare pensieri complessi o descrivere concezioni astratte, come quella di libertà. Il futuro può diventare un incubo anche per ragioni diverse dai totalitarismi e dalla meccanizzazione. Per Frederik Pohl e Cyril M. Kornbluth è la pubblicità, invadente e pervasiva, a dominare il mondo in quella satira garbata che è I mercanti dello spazio (The Space Merchants, 1952), che inaugura il filone della social science fiction, assieme a Robert Sheckley, che nel racconto La settima vittima (The Seventh Victim, 1953), ipotizza un futuro in cui l’omicidio è istituzionalizzato attraverso un gioco mortale che impegna preda e cacciatore. Dal racconto di Sheckley è stato tratto il film italiano La decima vittima (1965), diretto da Elio Petri. Il futuro governato da giochi assurdi e feroci mostra il suo risvolto distopico fin dal primo romanzo di Philip K. Dick, Lotteria dello spazio (Solar Lottery, 1955), in cui il nome del governatore del sistema solare viene estratto a sorte e chiunque può attentare alla sua vita, per arrivare fino agli juveniles di Stephen King, firmati con lo pseudonimo di Richard Bachman.
La lunga marcia (The Long Walk, 1979) vede una gioventù senza prospettive accettare una competizione logorante, in vista di un premio favoloso; chi si ferma è ucciso sul campo. L’uomo in fuga (The Running Man, 1982), da cui è stato tratto il film L’implacabile di Paul Michael Glaser (1987), è una storia che ricorda La settima vittima di Sheckley: il protagonista accetta di farsi preda in una spettacolare caccia all’uomo seguita dalla televisione.
Nel dopoguerra la visione del futuro sembra incupirsi maggiormente e l’oppressione dell’individuo da parte di un sistema totalitario si ramifica lungo percorsi diversi, descrivendo ogni possibilità e dunque esprimendo ogni timore nascosto.
Nel romanzo di Ray Bradbury Fahrenheit 451 (1953), titolo relativo alla temperatura a cui brucia la carta, è vietato possedere e leggere libri, dai quali proviene la conoscenza che il totalitarismo orwelliano aborrisce. I nuovi tutori dell’ordine sono pompieri specializzati nell’appiccare roghi di libri, una particolarità che richiama gli analoghi riti nazisti.
La letteratura come qualità essenzialmente umana, così negata nel suo supporto cartaceo, viene recuperata e trasmessa attraverso il ricordo: ogni uomo e ogni donna imparano a memoria un libro e si fanno testimoni viventi del suo contenuto. Un ritorno all’oralità delle origini che, in anni di digitalizzazione e comunicazione in rete, assume un’eco sinistra.
Il russo Ivan Efremov, con La nebulosa di Andromeda (Tumannost’ Andromedy, 1957), in contraddizione col pessimismo di Zamjatin ma in qualche modo coerentemente all’idea progressista del tempo, dipinge un futuro radioso dell’umanità grazie ai progressi della scienza.
Una visione ottimista che pervade l’opera socialisticheggiante di Mack Reynolds Le comuni del 2000 (Commune 2000 A.D., 1974), che il successivo After Utopia (1977) comincia a mettere in dubbio.
L’argomento de Il Signore delle Mosche (Lord of the Flies, 1954), di William Golding, è affascinante: un gruppo di ragazzi cerca di sopravvivere su un’isola deserta dopo un naufragio, ma l’autore lo tratta con un esasperato senso di catastrofe che lo fa includere tra i romanzi distopici, in cui si prefigura una società disumanizzata e violenta. Poco importa se gli avvenimenti immaginati da Golding si situino nel futuro o nel passato (qui è la Seconda guerra mondiale): ciò che prevale è la precarietà delle conquiste civili, la facilità con la quale l’individuo può tornare alla condizione di barbarie. Il messaggio che l’autore trasmette contraddice la positività di ogni ritorno allo stato di natura, propugnato dall’idea illuminista di Rousseau e reso immortale dall’epopea di Robinson Crusoe (id., 1719) di Daniel Defoe e dei suoi epigoni.
L’ipotesi non è attuabile neppure nel caso in cui, invece di uomini maturi, si tratti di ragazzi, di personalità giovani, non ancora contaminate dalla civiltà. Eppure sarà proprio questa estrema libertà che sconfina nell’arbitrio, questa ingenuità che si lascia travolgere dall’urgenza del soddisfacimento dei bisogni primari a scatenare la violenza e la libido, dimostrando che i ragazzi non sono migliori degli uomini.
È già una prova generale del “dopobomba”, la minaccia atomica che incombe all’indomani di Hiroshima e Nagasaki e che influirà su molte parte della narrativa distopica e di molta produzione cinematografica popolare successiva.
L’ipotesi di un’estinzione del genere umano per effetto di una guerra atomica è una minaccia fortemente avvertita. Il pianeta delle scimmie (La Planète des singes, 1963) di Pierre Boulle, da cui il film omonimo di Franklin J. Shaffner (1968), vari sequel e serie televisive, ipotizza un mondo in cui la specie umana è regredita allo stato bestiale ed è dominato dai primati. Qualcosa del genere accadeva in Gorilla Sapiens (Genus Homo, 1944) di Lyon Sprague de Camp e Peter Schuyler Miller, immagine di una terra post-atomica popolata di scimmie evolute, dove i pochi uomini superstiti sono materiale da zoo. Con Un’arancia ad orologeria (A Clockwork Orange, 1962), Anthony Burgess prospetta un futuro violento, in cui regna sovrana l’insicurezza sociale. La liberazione degli istinti bestiali e la libido incontrollata mettono in crisi la civiltà e lasciano presagire un mondo aggressivo, dove prevale la legge del più forte e l’individuo è costretto a chiudersi fra quattro mura. Esempio calzante della società degli anni Sessanta, consumista e massificata, in cui già s’intravede la solitudine dell’individuo globale.
Negli anni Settanta emergono i toni anarchici di Ursula Le Guin con I reietti dell’altro pianeta (The Dispossessed: An ambiguous Utopia, 1974), potente metafora della Guerra Fredda, e Triton (Trouble on Triton. An Ambiguous Heterotopia, 1976) di Samuel R. Delany, mondo alieno dove il potere ufficiale è solo virtuale e non esistono leggi. Le Guin lascia intendere che il socialismo sia possibile solo in condizioni estreme, dove le persone sono obbligate a collaborare per non perire; Delany risponde con un futuro utopico dove tutti possano vivere liberamente secondo le proprie pulsioni.
Utopie e distopie si alternano dagli anni Settanta in poi, a seguito dell’emergere di movimenti libertari e in particolare del femminismo, che trova terreno fertile in una generazione di scrittrici entrate in un campo, quello della fantascienza, tradizionalmente maschile. Suzy McKee Charnas (Walk to the End of the World, 1974), Joanna Russ (The Female Man [id.], 1975), Merge Piercy (Sul filo del tempo [Woman on the Edge of Time], 1976) e Angela Carter (La passione della nuova Eva [The Passion of the New Eve], 1977) criticano il presente attraverso la metafora del futuro, mentre Nicola Griffith prevede un mondo senza uomini in Ammonite (id., 1993).
Tuttavia l’utopia resta un riferimento affascinante, che riemerge in molta produzione del dopoguerra, a partire da La città e le stelle (The City and the Stars, 1956) di Arthur C. Clarke, di cui esiste una precedente versione dal titolo Against the Fall of Night (1948). Sempre di Clarke, Terra imperiale (Imperial Earth, 1975), ambientato nel cinquecentesimo anniversario della dichiarazione d’indipendenza americana. John C. Wright dipinge un futuro positivo in L’età dell’oro (The Golden Age, 2002), Phoenix (The Phoenix Exultant, 2003) e La luce del millennio (The Golden Transcendence, 2004), in cui la tecnologia ha permesso di superare i limiti della mortalità umana.
L’utopia di una società apparentemente equilibrata e serena, senza differenze razziali e di linguaggio, fa di Questo giorno perfetto (This Perfect Day, 1970) di Ira Levin l’ideale della globalizzazione. Ma è una realtà che si dimostra invece distopica, quando si scopre che gli abitanti sono drogati, come ne Il mondo nuovo di Huxley, per mantenerli sedati e arrendevoli. L’uniformità è di rigore, e tutti i gruppi etnici sono fusi in un’unica razza chiamata Famiglia; si cibano di totalcakes e bevono coke, indossando gli stessi abiti. Il sistema è gestito da un computer centrale, programmato per mantenere e regolare ogni singolo essere umano.
La “normalizzazione”, ovvero il timore di perdere la propria identità d’individuo, è alla base di The Giver – Il donatore (The Giver, 1993) di Lois Lowry. In un mondo senza differenze, senza colori, senza piaceri, il giovane Jonas riceve il dono della memoria e scopre il potere della conoscenza.
In Divergent (id., 2011) di Veronica Roth, la società è divisa in fazioni, e chi possiede più di una qualità rappresenta una pericolosa anomalia.
Nella satira distopica di Monade 116 (The World Inside, 1971) di Robert Silverberg, piccole comunità sono costrette a vivere all’interno di gigantesche costruzioni e si dedicano a un sesso sfrenato. Tema ripreso da J.G. Ballard in Condominium (High Rise, 1975), in cui la convivenza forzata all’interno di uno stesso stabile scatena l’aggressività e riporta alle condizioni tribali l’uomo.
Il timore di un’estinzione della razza umana è alla base di molti romanzi. Ma non sempre è conseguenza di guerre devastanti o di epidemie: può anche essere causata da una drastica diminuzione delle nascite, idea che sta alla base de I figli degli uomini (The Children of Men, 1992) di P.D. James, da cui il film omonimo di Alfonso Cuarón (2006), in cui l’infertilità minaccia la specie umana.
Ne Il racconto dell’ancella (The Handmaid’s Tale, 1985), Margaret Atwood propone un mondo desolato in via d’estinzione, dove le guerre nucleari hanno causato la sterilità. Nella società del futuro, costretta a recuperare i valori del passato per sopravvivere e a riqualificare il tasso delle nascite come speranza estrema (quasi contraddicendo molta letteratura distopica, a cominciare da Philip K. Dick e Harry Harrison, in cui la minaccia maggiore proviene invece dalla sovrappopolazione), la funzione della donna è forzatamente ricondotta al solo ruolo di madre.
Un ruolo passivo e strumentale che appare giustificabile dall’emergenza, ma che consente il riproporsi di una società patriarcale dispotica e assoluta, il cui unico scopo è quello di riprodursi.
Più di frequente la narrativa distopica racconta di un mondo assai prossimo al nostro, al punto da essere confuso con il presente, quasi un mondo parallelo, dove certe opzioni si sono rivelate temibili o certe scelte, in sé giudicate favorevoli o neutre, hanno avuto esiti devastanti.
In questi romanzi, come del resto in L’ultimo degli uomini (Oryx and Crake, 2003), sempre di Margaret Atwood, il motivo che scatena il disastro è in genere causato da un presupposto positivo: anche le più orribili distopie sono derivate da quella che, in apparenza, è una giusta causa.
In genere una lucida teleologia, che ricerca la felicità degli uomini, la liberazione dalla fatica e dal dolore, l’allungamento della vita media, la cura delle malattie, l’energia a buon mercato, la produzione di alimenti più abbondanti, il controllo sociale, il contenimento dell’aggressività umana.
Anche il romanzo della Atwood non sfugge a questa regola, e coglie appieno una delle questioni più sentite nel nostro tempo, quella della manipolazione genetica. Sia per modificare lo sviluppo dei prodotti agricoli (ogm), sia per migliorare il dna animale o umano. Oppure entrambi, visto che, attraverso la catena alimentare, ogni variazione genetica dei prodotti naturali è destinata a influire sull’uomo. Tant’è che nella manipolazione progettata da Crake, il protagonista in assenza del romanzo e responsabile principale dell’estinzione del genere umano, tutto passa attraverso il cibo.
L’alimentazione è lo strumento principe di ogni modificazione interiore, il tramite subdolo attraverso il quale matura il cambiamento dall’interno, deriva la mutazione dalle conseguenze letali.
Il ricorso al cibo, oltre che simbolico, è il segno di un cambiamento nelle tradizionali modalità utilizzate in letteratura, normalmente di natura esterna.
Si pensi all’intruglio chimico del dottor Jekyll di Stevenson o all’elettricità di Frankenstein, ma anche in seguito, per effetto delle contaminazioni radioattive o virali prodotte da una scienza il cui controllo è sfuggito all’uomo.
L’ultimo degli uomini ha un seguito in L’anno del diluvio (The Year of the Flood, 2009), in cui la Atwood sviluppa la storia di un picco- lo gruppo di sopravvissuti alla catastrofe globale, i God’s Gardeners.
Le opere più recenti, rivolte a un pubblico più giovane, insistono sulla tematica del gioco e risentono dell’influenza di videogame e giochi di ruolo, come Hunger Games (The Hunger Games, 2008) di Suzanne Collins, da cui è stato tratto il film omonimo di Gary Ross (2012), e i sequel Hunger Games – La ragazza di fuoco (Catching Fire, 2009), da cui il film di Francis Lawrence (2013), e Hunger Games – Il canto della rivolta (Mo- ckingjay, 2010).
C’è da domandarsi, in fondo, se la narrativa distopica, con i suoi presagi apocalittici, abbia contribuito al formarsi di una coscienza critica; se abbia inciso, in qualche misura, nelle scelte dell’uomo. Si potrà tuttavia riconoscere che l’incisività e l’impatto psicologico del Grande Fratello di Orwell hanno sensibilizzato e quasi vaccinato l’opinione pubblica quanto al controllo occulto della vita privata dei cittadini da parte del sistema.
LETTURE
–– Margaret Atwood, Il racconto dell’ancella, Ponte alle Grazie, Milano, 2017.
–– Margaret Atwood, L’ultimo degli uomini, Ponte alle Grazie, Milano, 2003.
–– Margaret Atwood, L’anno del diluvio, Ponte alle Grazie, Milano, 2010.
–– Richard Bachman (Stephen King), La lunga Marcia, Sperling & Kupfer, Milano, 2013.
–– Richard Bachman, (Stephen King), L’uomo in fuga, Sperling & Kupfer, Milano, 2013.
–– J.G. Ballard, Il condominio, Feltrinelli, Milano, 2014.
–– Walter Besant, The Inner House, Arrowsmith, Bristol, 1888.
–– Pierre Boulle, Il pianeta delle scimmie, Mondadori, Milano, 2016.
–– Ray Bradbury, Fahrenheit 451, Mondadori, Milano, 2016.
–– Anthony Burgess, Un’arancia ad orologeria, Einaudi, Torino, 2014.
–– Angela Carter, La passione della nuova Eva, Feltrinelli, Milano, 1984.
–– Arthur C. Clarke, La città e le stelle, Mondadori, Milano, 2004.
–– Arthur C. Clarke, Terra imperiale in Massimi della Fantascienza n. 13, Mondadori, Milano, 1987.
–– Suzanne Collins, Hunger Games. La trilogia, Mondadori, Milano, 2015.
–– Lyon Sprague de Camp e Peter Schuyler Miller, Gorilla Sapiens, Mondadori, Milano, 1979.
–– Samuel R. Delany, Triton, Editrice Nord, Milano, 1995.
–– Philip K. Dick, Lotteria dello spazio, Fanucci, Roma, 2017.
–– Ivan Efremov, La nebulosa di Andromeda, Feltrinelli, Milano, 1960.
–– William Golding, Il Signore delle Mosche, Mondadori, Milano, 2016.
–– Nicola Griffith, Ammonite, Elara, Bologna, 2007.
–– Aldous Huxley, Il mondo nuovo, Mondadori, Milano, 2016.
–– P.D. James, I figli degli uomini P.D. James, Mondadori, Milano, 1999.
–– Ursula Le Guin, I reietti dell’altro pianeta, Mondadori, Milano, 2014.
–– Ira Levin, Questo giorno perfetto, Garzanti, Milano, 1975.
–– Jack London, Il tallone di ferro, Feltrinelli, Milano, 2014.
–– Lois Lowry, The Giver – Il donatore, Giunti, Milano, 2014.
–– Suzy McKee Charnas, Walk to the End of the World, The Women’s Press Ltd, 1989.
–– George Orwell, 1984, Mondadori, Milano, 2016.
–– George Orwell, La fattoria degli animali, Mondadori, Milano, 2016.
–– Frederik Pohl, Cyril M. Kornbluth, I mercanti dello spazio, Mondadori, Milano, 2004.
–– Mack Reynolds, Le comuni del 2000, Mondadori, Milano, 1981.
–– Mack Reynolds, After Utopia, Wildside Press, 2017.
–– Veronica Roth, Divergent, De Agostini, Novara, 2016.
–– Joanna Russ, The Female Man, Editrice Nord, Milano, 1989.
–– Robert Sheckley, La settima vittima, Nottetempo, Milano, 2012.
–– Robert Silverberg, Monade 116, Fanucci, Roma, 1994.
–– Émile Souvestre, Le Monde tel qu’il sera, W. Coquebert ND, Parigi, 1846.
–– H.C. Marriott Watson, Erchomenon, or the Republic of Materialism, Sampson Low, Marston, Searle and Rivington, Londra, 1879.
–– H.G. Wells, La macchina del tempo, Fanucci, Roma, 2017.
–– John C. Wright, L’età dell’oro, Editrice Nord, Milano, 2007.
–– John C. Wright, Phoenix, Editrice Nord, Milano, 2008.
–– John C. Wright, La luce del millennio, Editrice Nord, Milano, 2009.
–– Evgenij Ivanovič Zamjatin, Noi, Mondadori, Milano, 2018.