Le rivoluzioni sono eventi polarizzanti: producono estimatori e detrattori, non lasciano nessuno indifferente. Se diamo uno sguardo agli scaffali dell’editoria contemporanea dedicati alle due principali rivoluzioni moderne, quella francese e quella russa, noteremo che i detrattori sembrano avere oggi la meglio, perlomeno in Italia. È la distanza dagli eventi, certamente, a consentire un maggiore spirito critico attraverso il quale rifuggire dalle agiografie; ma è anche, forse, lo spirito del tempo, che rispetto agli anni più “rivoluzionari” del secondo Novecento (quelli dei lunghi anni Settanta) vive la sua esperienza termidoriana.
Sulla rivoluzione russa, dunque, è possibile imbattersi nel duro atto d’accusa del tradimento del bolscevismo di Victor Serge (Da Lenin a Stalin. Cronaca di una rivoluzione tradita) e nel ponderoso volume dello storico inglese Orlando Figes, La tragedia di un popolo, pluripremiata ricostruzione della “lunga” rivoluzione russa (1891-1924) come tragedia “tanto per il popolo russo nel suo insieme quanto per i singoli individui” (Figes, 2016). Sul fronte della Rivoluzione francese, che non può godere quest’anno di un anniversario tanto importante come quello del 1917, non può mancare sugli scaffali la classica ricostruzione critica di Pierre Gaxotte, giornalista dell’Action française, la cui prima edizione risale agli anni Venti, ma è costantemente riproposta da Mondadori, che a breve ripubblicherà anche Cittadini dello storico britannico Simon Schama, controversa rilettura revisionista della Rivoluzione, e il più recente studio dell’americano Jonathan Israel La rivoluzione francese, che ha scatenato tra gli studiosi francesi e anglosassoni un vivace (per non dire violento) dibattito, a causa della peculiare tesi revisionista di Israel sul valore intellettuale dei girondini rispetto a quello dispotico e terroristico dei giacobini.
In questo senso, la pubblicazione degli Annali della Rivoluzione francese di Antoine Rivarol da parte dell’editore Aragno, tradotti e curati da Massimo Carloni, rappresenta un salto di qualità. Pur nel timore che si tratti di un unicum nell’editoria italiana, l’opera di Rivarol dimostra l’attenzione nel recuperare la voce di chi fece la storia in tempo reale, come titola un recente libro dello storico italiano Daniele Di Bartolomeo, ossia raccontata dai suoi protagonisti (cfr. Di Bartolomeo, 2016).
Dalla presa del Palazzo d’Inverno a quella della Bastiglia
Sul versante della Rivoluzione russa, forse anche per la maggiore vicinanza storica, la riproposizione dei testi dei protagonisti non è mai mancata nell’editoria nostrana; non così sul versante della Rivoluzione francese, con qualche sporadica eccezione per i discorsi di Robespierre. Certo, gli scritti dei protagonisti della Rivoluzione sono quasi sempre aridi, macchinosi, infarciti di riferimenti classici che oggi non fanno parte del nostro bagaglio culturale; ma è vero anche che la pubblicistica sotto la Rivoluzione francese conobbe una vivacità inedita, con l’uscita di centinaia di giornali, periodici e pamphlet di cui in Italia si conosce ben poco, nonostante il ruolo determinante che spesso ebbero (si pensi all’Ami du Peuple di Jean-Paul Marat o al Vieux Cordelier di Camille Desmoulins). Lo stile di Rivarol è ben diverso, e questa diversità si può ascrivere forse proprio al suo essere stato un controrivoluzionario, o perlomeno una voce critica della Rivoluzione nei suoi primi anni, quelli raccontati nel Journal politique national dal luglio 1789 al novembre 1790 di cui questi Annali ripropongono una selezione quasi completa, sicuramente la più rappresentativa, degli articoli da lui firmati.
Annali, è la proposta del titolo scelto da Massimo Carloni, cioranista ed esperto di letteratura francese, ricordando che Edmund Burke paragonò lo stile di Rivarol a quello di Tacito. E in effetti, come spesso avveniva nei giornali dell’epoca, i résumés bisettimanali che Rivarol pubblica sul Journal hanno poco a che vedere con i resoconti giornalistici contemporanei. “Raro crogiolo di generi e di stili, al tempo stesso documento storico e trattato di filosofia politica, pamphlet e mémoire”, scrive nella prefazione Carloni “il Journal coniuga magnificamente il pittoresco all’eloquenza, il tono brillante alla profondità dell’analisi”.
Le donne di Parigi marciano su Versailles nelle giornate del 5-6 ottobre 1789 in un’illustrazione dell’epoca.
Complottisti d’altri tempi
Rivarol scrive già con un occhio alla posterità, a cui cerca di spiegare cause immediate e remote della Rivoluzione che egli si trova a vivere in tempo reale. Cade, come quasi tutti gli scrittori controrivoluzionari dell’epoca, nella logica complottista quando cerca di spiegare le vicende che porteranno ai drammatici avvenimenti della marcia su Versailles dell’ottobre 1789 come il risultato di una cospirazione del duca d’Orléans. Era, questa, una convinzione condivisa negli ambienti legittimisti dell’epoca: l’erede al trono della linea collaterale a quella dei Borbone avrebbe giocato un ruolo importante nelle prime fasi della Rivoluzione, conquistandosi “sul campo” il soprannome di Philippe Égalité, cosa che tuttavia non gli impedì di finire sul patibolo sotto il Terrore. Rivarol, profetico, ne anticipa il destino: “Il partito d’Orléans, secondo l’espressione orientale d’un poeta ebreo, seminò venti e raccolse tempeste”. È al duca Filippo che Rivarol attribuisce la responsabilità di aver spinto troppo oltre una rivoluzione che aveva il diritto di compiersi, per rovesciare le vecchie istituzioni e riformare una monarchia esausta, ma che è sfuggita al controllo nel momento in cui ci si è messi a rimestare nel torbido.
Qui emerge tutta l’anima del Rivarol scrittore controrivoluzionario. Anticipando la lettura di Hippolyte Taine, Rivarol teme e disprezza la folla, la canaille, per usare l’espressione di Taine e in seguito di Gaxotte. Non a caso il grosso dei suoi résumés raccolti in questi Annali si concentra sulle giornate del 5-6 ottobre 1789, evento iconico della Rivoluzione per il ruolo determinante che vi ebbero le folle parigine: la marcia su Versailles, l’irruzione nel palazzo, il tentativo di uccidere Maria Antonietta nel suo stesso letto costringono Luigi XVI ad accettare di lasciare per sempre il palazzo dei suoi avi, il simbolo dell’ancien régime, per risiedere a Parigi ostaggio della Rivoluzione. Rivarol indulge in vivide descrizioni degli esponenti di quella folla di popolani. Ecco quel che scrive, per esempio, alla notizia della decisione del re di partire per Parigi:
“Le due milizie della capitale e di Versailles non cessarono per alcune ore di fornirsi prove vicendevoli di felicità, offensive per il re e la famiglia reale. Quella specie di mostro dalla lunga barba e dal berretto a punta, di cui abbiamo già fatto un ritratto, passeggiava con ostentazione sulla piazza, mostrando il viso e le braccia imbrattati dal sangue delle guardie del corpo, e lamentandosi che lo si fosse fatto venire a Versailles per tagliare solo due teste. Ma nulla eguagliò il delirio disumano delle pescivendole: tre di loro si sedettero sul cadavere d’una guardia del corpo, a cui mangiarono il cavallo smembrato e preparato dalle loro compagne: i Parigini danzavano attorno a quell’insolito festino. Di fronte agli impeti, alle movenze, alle urla inarticolate e barbare, Luigi XVI, che le osservava dalla sua finestra, poteva credersi il re dei cannibali e degli antropofagi del nuovo mondo”.
Gaxotte ne recupererà la lezione centotrent’anni dopo, nella sua descrizione di quegli eventi: “Alcune guardie del corpo vengono ferite, altre trucidate, i loro cadaveri fatti a pezzi e trascinati nel fango. Le donne li calpestano; c’è qualcuno che raccoglie grumi di sangue e se li sfrega sulle braccia e sul viso. Si grida: «Vogliamo il cuore della regina!», «Vogliamo tagliarle la testa, strapparle il cuore, friggerle il fegato, fare nastri con le sue budella, e farla finita!»” (Gaxotte, 1989). Di registro radicalmente opposto Jules Michelet, che nella sua Storia della Rivoluzione francese (1847-1853), tutta impregnata di romanticismo e impegnata nella difesa a oltranza della bontà innata del popolo, traccerà un elogio delle popolane di Parigi, le “pescivendole” di Rivarol (che tali, in effetti, erano per la maggior parte): “La rivoluzione del 6 ottobre, necessaria, naturale e legittima quant’altra mai, del tutto spontanea, imprevista, veramente popolare, appartiene soprattutto alle donne, come quella del 14 luglio agli uomini. Gli uomini hanno preso la Bastiglia, le donne hanno preso il Re” (Michelet, 1959)
Apertura degli Stati Generali, Versailles, 5 maggio 1789 (opera di Auguste Couder).
Per capire la differenza di toni e di analisi, bisogna comprendere chi era Rivarol. Sedicente conte, era in realtà di origini modeste, figlio di un ufficiale di origini piemontesi che per mantenere la famiglia gestiva una locanda in Linguadoca. Riuscì tuttavia a conquistare i salotti dell’aristocrazia parigina con i suoi modi squisiti e un’innata maestria nell’arte della conversazione; dopo aver conquistato qualche successo letterario, tra cui una traduzione in francese della Divina commedia, con lo scoppio della Rivoluzione francese si fece giornalista, prima di decidere, alla vigilia della caduta della monarchia nell’estate del 1792, di emigrare come buona parte dell’aristocrazia francese legittimista.
Professione reporter controrivoluzionario
Nel suo peregrinare in esilio divenne l’idolo dei controrivoluzionari, corteggiato dal pretendente al trono Luigi XVIII, accolto con tutti gli onori da Burke. Ma non diede seguito ai loro inviti di riprendere in mano la penna per combattere con le parole la sua guerra contro i rivoluzionari. Rivarol non era animato dallo spirito oltranzista di personaggi come Joseph de Maistre o l’abate Barruel. Più vicino, forse, a Chateaubriand, fu un controrivoluzionario riottoso, che avrebbe forse seguito gli sforzi del Terzo Stato se esso non avesse “rimestato il fondo della Nazione” per perseguire le ambizioni dei suoi esponenti, tradendo il mandato di riformare la monarchia.
Jacques Godechot, tra i primi ad aver studiato gli esponenti del movimento controrivoluzionario francese, lo liquida molto freddamente: “Nel complesso, [il suo] pensiero non sembra molto profondo e contrasta con la celebrità del suo autore, la cui fama supera l’effettivo merito” (Godechot, 1988). Ma è ingeneroso: Rivarol ha le idee abbastanza chiare sulla Rivoluzione, appartiene a quel gruppo dei cosiddetti monarchiens che nell’estate 1789 tentano di far adottare in Francia una monarchia costituzionale sul modello inglese. Nei suoi scritti chiede che l’Assemblea nazionale accordi al re un veto assoluto sulle leggi e adotti una costituzione che preveda il bicameralismo, con una camera dei pari espressione dell’aristocrazia. Sono le stesse istanze di Jean-Joseph Mounier, influente presidente dell’Assemblea nazionale nei giorni della marcia su Versailles, che sarà il principale sconfitto di quegli avvenimenti, al punto da convincersi a prendere anch’egli poco dopo la strada dell’emigrazione. Fu ingenuo, Rivarol, perché non comprese la novità della Rivoluzione. Come molti scrittori del periodo, egli cercò di interpretarla guardando verso il passato, paragonandola alla rivoluzione inglese del secolo precedente e auspicando che ne evitasse le derive.
Scrive Daniele Di Bartolomeo: “Rivarol non resiste alla tentazione di accusare gli altri attori della scena rivoluzionaria di apprestarsi a ripetere gli errori e gli orrori commessi in passato dagli inglesi. Ai suoi occhi, infatti, l’Assemblea Costituente è una riedizione del Lungo Parlamento e La Fayette, comandante della neonata Guardia Nazionale, un pericoloso emulo di Cromwell” (Di Bartolomeo, 2014). Le cose andranno diversamente, anche se qualcuno ha letto nelle parole di Rivarol la previsione dell’ascesa di Bonaparte.
Oggi Rivarol è anche il nome di un settimanale francese di estrema destra, più radicale dello stesso Front National, rimasto legato a tesi antisemite e antidemocratiche. Il pensiero di questo intellettuale dallo stile classicheggiante, splendidamente reso dalla traduzione di Carloni, è stato probabilmente troppo travisato negli anni: riproporre oggi in Italia questi Annali può servire a ridar voce ai “vinti” delle Rivoluzione, ma anche in generale a incoraggiare la ripubblicazione di quegli autori che vissero e fecero la storia in tempo reale, per meglio riuscire a penetrare la fucina delle rivoluzioni.
- Daniele Di Bartolomeo, Nelle vesti di Clio. L’uso politico della storia nella Rivoluzione francese (1787-1799), Viella, Roma, 2014.
- Daniele Di Bartolomeo, Una storia in tempo reale. La Rivoluzione francese raccontata dai suoi protagonisti (1789-1796), Aracne, Canteramo, 2016.
- Orlando Figes, La tragedia di un popolo, Mondadori, Milano, 2016.
- Pierre Gaxotte, La rivoluzione francese, Mondadori, Milano, 1989.
- Jacques Godechot, La controrivoluzione. Dottrina e azione (1789-1804), Mursia, Milano, 1988.
- Jonathan Israel La rivoluzione francese. Una storia intellettuale dai Diritti dell’uomo a Robespierre, Einaudi, Torino, 2016.
- Jules Michelet, Storia della Rivoluzione francese, 4 voll., Edizioni per il Club del Libro, Milano, 1959.
- Victor Serge, Da Lenin a Stalin. Cronaca di una rivoluzione tradita, Bollati Boringhieri, Torino, 2017.