Scrivere di viaggio non è impresa semplice, poiché la stessa definizione, andare da un luogo ad altro luogo, può essere messa in discussione. Come afferma Pino Fasano, infatti, il viaggio è lontananza nello spazio e nel tempo: non solo distanza (dal proprio, dal noto, dal familiare), ma anche durata (cfr. Fasano, 1999). Per questa sua qualità, dunque, per i cambiamenti che comporta (l’essere altrove e la possibilità di essere altro) e per i pericoli più o meno temibili che sottintende, il viaggio ben si presta a diventare metafora di vita o espressione del proprio tempo. Per Enrico Magrelli, la stessa nozione di viaggio per la sua ambiguità “dilata i confini che separano lo spazio e la finzione, e li costringe, in qualche modo, ad avvicinarsi, a confondersi, a perdersi uno nell’altro” consentendo “allo spazio di farsi testo e al testo di raccontare lo spazio” (Magrelli, in Simonelli e Taggi, 1987).
Viaggi di luce
Il cinema, per il suo essere essenzialmente organizzazione di immagini nel tempo, grazie alle possibilità offerte dal montaggio e agli espedienti mutuati da altre forme di narrazione, si è rivelato sin dai suoi albori un medium adatto a descrivere tutte le sfumature del viaggio.
Se non ci si attiene strettamente ai paradigmi imposti dai generi, infatti, si può affermare che il cinema di viaggio è nato quando è nato il cinema. È sempre Magrelli ad affermare che “una possibile storia del cinema on the road comincia anche con la strada (ferrata) lungo la quale il treno dei Lumière, entrando in stazione, chiude un primo tragitto” (ibidem). Ma se il treno dei fratelli Lumière immortala solo l’ultima parte del viaggio, lasciando il resto all’immaginazione del neonato spettatore, non si può dire altrettanto di alcune opere di George Méliès, come Voyage dans la Lune (1902) e Voyage à travers l’impossible (1904), nelle quali l’artista, ispirandosi alle mirabolanti avventure immaginate e scritte pochi decenni prima da autori come Jules Verne (De la Terre à la Lune, 1865) e Herbert G. Wells (The First Men in the Moon, 1901), riporta fedelmente tutte le fasi del viaggio, dalla progettazione e la preparazione di mezzi di trasporto decisamente sgangherati, all’incontro con popoli e creature fantastiche ma all’epoca incredibilmente realistiche.
In questo senso, l’opera più sorprendente di Méliès è forse Le Raid Paris-Monte Carlo en deux heures (1905), film che vede il re del Belgio Leopoldo II partire in automobile dalla capitale francese alla volta della città affacciata sul Mediterraneo. Sebbene non abbandoni la sua vena ironica e visionaria, in questo film Méliès sintetizza nei pochi minuti imposti dalla pellicola una durata e una distanza, mettendo in scena, di fatto, un vero e proprio road movie.
Un fotogramma di Le Raid Paris-Monte Carlo en deux heures (1905) di George Méliès.
Collegare queste preziosissime sperimentazioni con il genere cinematografico nato circa sessant’anni dopo risulterebbe certamente macchinoso, ma nonostante ciò non è poi così azzardato affermare che già i pionieri del cinema avevano intuito la possibilità di tradurre visivamente ciò che, sino a quel momento, era solo stato o scritto o dipinto. E d’altro canto, il cinema dei pionieri e quello americano degli anni Sessanta e Settanta hanno come comune denominatore il continuo riferimento alla letteratura: quella fantastica e fantascientifica nel primo caso, quella della beat generation nel secondo, con opere iconiche come Easy Rider (1969) o Vanishing Point (1971).
Se dunque sin dai primordi del cinema la meta era l’altrove, metaforico, fittizio o reale, questa tendenza cambia a partire dagli anni Ottanta. Come nota Gianni Canova, molti viaggi del cinema di quegli anni “si configurano come percorsi nel tempo più che nello spazio”, poiché il cinema stesso “sembra aver scoperto la finitezza del mondo, la limitata estensibilità” (Canova in Simonelli e Taggi, 1987). La meta, dunque, pare dissolversi, e il viaggio cinematografico diventa deriva e si allontana dalla mitologia on the road della generazione ribelle.
Da sinistra: Don Rawitsch, Adam Huminsky, Paul Dillenberger, The Oregon Trail (1971-1974)
e Incredible Technologies, Harley Davidson: The Road to Sturgis (1989).
Viaggi di pixel
Sebbene non esista un genere videoludico ben codificato come nel caso del cinema, anche per ciò che riguarda il videogame gli albori di quello che può chiamarsi “videogioco di viaggio” vanno ricercati all’inizio della Storia del medium. Nel 1971, infatti, Don Rawitsch, Bill Heinemann e Paul Dillenberger sviluppano The Oregon Trail, prodotto dal MECC (Minnesota Educational Computing Consortium) tre anni dopo. Concepito come gioco educativo per studenti, Oregon Trail, avventura testuale ante litteram, cala il giocatore nei panni di un componente di una famiglia di coloni che segue la pista dell’Oregon dal Missouri all’Oregon Country. Il fruitore, dunque, può decidere quali oggetti portare con sé, parlare con gli abitanti di luoghi ignoti e far fronte a tutti i pericoli del viaggio, compresa la morte per dissenteria.
Una meccanica simile è anche alla base di Syrian Journey (BBC, 2015), serious game giocabile on-line nel quale il giocatore si trova a percorrere strade e prendere decisioni basate su esperienze reali vissute dai migranti in fuga dalla guerra. E poiché il sito del gioco propone numerosi video, immagini e interviste, più che un viaggio nella Storia Syrian Journey è un viaggio nelle storie di chi ha, suo malgrado, viaggiato.
Motori a trazione digitale
Grazie alle possibilità offerta dall’interattività il videogame è un medium audiovisivo potenzialmente in grado di ri-mediare il viaggio con modalità generalmente diverse da quelle utilizzate da cinema e letteratura: raccontandolo sotto forma di ipertesto, come si è visto, o simulandolo.
Le serie Flight Simulator (Microsoft), Euro Truck Simulator (SCS Software) o Train Simulator (Microsoft) sono esempi perfetti di viaggio simulato. In questi casi, però, la ri-mediazione non comporta una profonda reinterpretazione, poiché l’intento degli sviluppatori è quello di riproporre tutti gli aspetti “tecnici” del viaggio nel modo più realistico possibile (al punto che è possibile giocarli utilizzando piani di volo e mappe reali), tanto da risultare ostici persino al fruitore abituale di videogame.
Lontano dalla verosimiglianza dei simulatori, perché riadattato secondo i canoni del videogame per così dire tradizionale, è il viaggio simulato in Harley Davidson: The Road to Sturgis (Mindscape, 1989), nel quale il fruitore ha dieci giorni di tempo per raggiungere Sturgis, la cittadina del South Dakota che da settantotto anni ospita il più famoso raduno di appassionati e possessori di Harley Davidson. Nonostante non manchino elementi tipici del gioco arcade, in The Road to Sturgis la frenesia delle sale giochi si perde in un viaggio che, con relativamente pochi pixel, rievoca i panorami americani e i momenti tipici della mitologia del viaggio in motocicletta: la sosta nell’area di servizio, il posto di blocco, la possibilità di dare un passaggio a un’avvenente autostoppista.
Un approccio più sperimentale, che si attiene alle convenzioni del medium solo per poterle sovvertire, è invece quello di Desert Bus (video sopra, ndr), mini-gioco contenuto nella raccolta Penn and Teller’s Smoke and Mirror (Absolute Entertainment), sviluppata inizialmente per la console Sega CD a metà anni Novanta ma mai ufficialmente rilasciata. Il viaggio, in questo caso, è volutamente noioso: il giocatore dovrà percorrere, alla guida di un autobus vuoto, la strada (rigorosamente dritta e totalmente priva di traffico) che da Tucson porta a Las Vegas, il tutto in otto ore, senza la possibilità di mettere in pausa o di distrarsi, perché il veicolo, lentamente ma inesorabilmente, tende a uscire fuori strada. Desert Bus è la risposta alla controversia che riguarda gli effetti negativi del videogame sui bambini, come spiega Raymond J. Teller: “La strada tra Las Vegas e Phoenix è lunga. È una cosa noiosa che va avanti ripetutamente, e il tuo compito è semplicemente quello di rimanere cosciente. […] Non abbiamo barato sul tempo, così le persone […] possono farsi un’idea del valore e dell’utilità di un gioco che riflette la realtà” (in Parkin, 2013).
- Steven Cohan e Ina Rae Hark (a cura di), The Road Movie Book, New York, Routledge, 1997.
- Gianni Canova, Derive e ritorni, in Giorgio Simonelli e Paolo Taggi (a cura di), L’altrove perduto: il viaggio nel cinema e nei mass media, Roma, Gremese Editore, 1987.
- Pino Fasano, Letteratura e viaggio, Roma, Laterza, 1999.
- Enrico Magrelli, Ad ovest di nessun Est, in Giorgio Simonelli e Paolo Taggi (a cura di), L’altrove perduto: il viaggio nel cinema e nei mass media, Roma, Gremese Editore, 1987.
- Devin Orgeron, Road Movies. From Muybridge and Méliès to Lynch and Kiarostami, New York, Palgrave Macmillan, 2008.
- Simon Parkin, Desert Bus: The Very Worst Video Game Ever Created, Newyorker.com, 9 luglio 2013.
- Geoges Méliès, Le Raid Paris-Monte Carlo en deux heures, Star Film, 1904.
- Dennis Hopper, Easy Rider, Universal Pictures Italia, 2002 (home video).
- Don Rawitsch, Bill Heinemann, Paul Dillenberger, The Oregon Trail, MECC, 1971-1974 (videogame).
- Syrian Journey, BBC, 2015 (videogame).
- Incredible Technologies, Harley Davidson: The Road to Sturgis, Mindscape, 1989 (videogame).
- Absolute Entertainment, Desert Bus, inedito, 1995 (videogame).