La polisemia teorico-epistemologica della categoria del fantastico è, a ben vedere, il corrispettivo critico della sospensione prodotta nel lettore dal racconto di finzione, che Cvetan Todorov teorizzava nel 1970 come specifico dell’invenzione fantastica in letteratura.
Genere narrativo o categoria estetica, modo letterario o dimensione antropologica? Maria Elena Cialente affronta coraggiosamente quest’ambiguità nell’apertura del suo saggio sul fantastico italiano novecentesco, radicando anzi, proprio in questo, l’intramontato fascino e la perdurante efficacia del fantastico come grimaldello ermeneutico.
Di questa fortuna critica e di questa polisemia sono testimonianza le numerose operazioni di antologizzazione che hanno scandito gli anni dal 1980 a oggi, a partire dai Racconti neri della scapigliatura curati da Gilberto Finzi (1980, Mondadori), dai Racconti fantastici dell’Ottocento scelti da Calvino (Mondadori, 1983) e da Notturno italiano di Enrico Ghidetti e Leonardo Lattarulo (1984, Editori Riuniti), via via fino ai Racconti neri e fantastici dell’Ottocento italiano curati da Riccardo Reim (2002, Newton Compton) e al Fantastico italiano allestito da Costanza Melani (2009, Rizzoli).
Raccolte che hanno proposto repêchages nei filoni ottocenteschi neri e scapigliati, o sistematizzazioni delle declinazioni assurde e speculative novecentesche, mentre nel 1996 Remo Ceserani (Il fantastico, Il Mulino, 1986) faceva il punto teorico, dando nuovo impulso agli studi accademici.
Oggi, il primo, ampio capitolo della monografia di Cialente è dedicato a ripercorre i dibattiti, non solo in campo letterario, sullo statuto del fantastico e su ciò che ne distingue le declinazioni ottocentesca e novecentesca. L’autrice affronta il tema all’incrocio multidisciplinare tra scienze del linguaggio, filosofia, psicoanalisi e antropologia, ricomprendendo nella sua trattazione una vasta produzione, che dai riferimenti ormai classici (per esempio Roger Caillois e i citati Ceserani e Todorov), si spinge ad autori i cui legami col fantastico sono meno noti, recuperati con pertinenza, in un percorso che legge lo sviluppo di questo modo narrativo alla luce dei processi settecenteschi di costruzione dei saperi (per esempio David Hume), dei legami con il perturbante (da Sigmund Freud a Remo Bodei), col grottesco (Michail Bachtin), con le riflessioni contemporanee sull’alterità (Julia Kristeva) e l’inconscio (Jacques Lacan), per fare solo alcuni esempi.
Questa ricostruzione dei capisaldi critico-teorici legittima in modo convincente l’impiego della categoria del fantastico come
“letteratura della trasgressione, della morte e del desiderio” che “ama porsi nella condizione straziante di vedere cose invisibili … di registrare le cavità delle assenze e il dolore incolmabile della separazione”.
Un fantastico che opera non semplicemente come sfuggente immagine del rimosso, ma come inquietante messa in pericolo dei confini “tra unità concettuali che si strutturano secondo rapporti oppositivi: vita/morte, dentro/fuori, reale/irreale, bene/male”, desiderio/repulsione: una messa in crisi dei paradigmi gnoseologici ordinari. È seguendo questa direttrice di interrogazione ontologica che giungiamo al fantastico novecentesco, in cui l’alterità perturbante che ha segnato il genere nel secolo decimonono cede il passo all’“alterità come assenza” e al “vuoto come forma peculiare di turbamento”, inclinando verso forme squisitamente speculative di invenzione, verso giochi virtuosistici e parodici, e verso un coinvolgimento del lettore di natura più intellettuale che emotiva. Un fantastico mentale, aperto al magico e all’onirico.
La prima sezione dell’ampio studio di Cialente si chiude con un capitolo dedicato alla ricostruzione storica delle genealogie letterarie e critiche italiane, che contestualizza esempi noti e meno noti, da Aldo Palazzeschi e Giovanni Papini a Giorgio Vigolo e Gabriele Romagnoli, non mancando di ricordare, per le opere via via citate, i principali contributi critici che ne hanno segnato la ricezione, attraverso un lavoro di scavo bibliografico estremamente ampio.
La pluridisciplinare strumentazione critica messa a punto, nella seconda parte del libro si misura con la lettura dei testi attraverso tre capitoli, tre percorsi tematico-metodologici dedicati alla tematizzazione del nulla e dell’assenza; del desiderio e della Sehnsucht; della morte e del viaggio nell’oltremondo. Si tratta in ultima analisi di tre sfaccettature dello stesso sfuggente vuoto, “non essendo altro il desiderio se non la registrazione di una mancanza” e rappresentando il “discorso sulla morte” la possibilità di “condurre il pensiero su sentieri estremi che si affacciano sul nulla”, su una “condizione inesperibile” che i dispositivi linguistici e narrativi del fantastico sanno riportare ad un piano evenemenziale.
I sentieri di lettura incrociano numerosi testi e autori, tra i quali primeggiano, per ricorsività e/o pregnanza opere di Italo Calvino, Dino Buzzati e Giorgio Manganelli, accanto a Massimo Bontempelli, Tommaso Landolfi, Anna Maria Ortese e Alberto Savinio. Non mancano voci italiane più lontane dal cuore del canone letterario nazionale, come quelle di Paola Capriolo, Maurizio Cometto, Guido Morselli, Giorgio Vigolo.
Rinunciando a riassumere l’estrema ricchezza di queste disamine critiche, riserviamo un’ultima notazione al significato dello studio di Cialente nel panorama critico ed editoriale corrente. Questo lavoro monografico esce per i tipi di un editore – Solfanelli – da tempo impegnato nella valorizzazione letteraria e critica dei generi non mimetici, e segue di poco la pubblicazione del monumentale Il fantastico italiano. Bilancio critico e bibliografia commentata (dal 1980 a oggi), firmato da Stefano Lazzarin, Felice Italo Beneduce, Eleonora Conti, Fabrizio Foni, Rita Fresu e Claudia Zudini (2016, Le Monnier).
Diversi tra loro per natura e scopi, l’organico e personale percorso di Cialente e l’esaustiva ricognizione critico-bibliografica portata a termine da sei studiosi, ci sembrano entrambi confermare la posizione del fantastico nel cuore delle questioni che caratterizzano il vissuto dell’uomo contemporaneo: sismografo di inquietudini, figura di un io che nell’alterità trova il doloroso fondamento della sua esistenza e del suo tentativo di conoscere la realtà.