“Non vendicarsi avvelena l’animo quanto vendicarsi, se non di più. È lecito non vendicarsi?” (Cioran, 2001). Che l’interrogativo sorto dalla riflessione del filosofo rumeno resti irrisolto o meno, è fuor di dubbio che tante espressioni dell’arte, a cominciare dalla letteratura, dal teatro e dal cinema, sarebbero prive di parecchi capolavori se non avessero affrontato il tema della vendetta. Tra esse figura La cena delle beffe del pratese Sam Benelli, ispirata alle novelle di Anton Francesco Grazzini, di oltre tre secoli e mezzo avanti. Scritto nel 1909, questo dramma in quattro atti ebbe un adattamento per il grande schermo con una sceneggiatura firmata dallo stesso autore, da Renato Castellani e da Alessandro Blasetti. Venne diretto da quest’ultimo a Cinecittà e distribuito nel 1942.
Siamo nella Firenze medìcea. Giannetto Malespini è oggetto, fin dalla fanciullezza, dell’arroganza e della crudeltà dei fratelli Chiaramantesi, Neri e Gabriello. Con la complicità di un uomo fidato di Lorenzo il Magnifico, il Tornaquinci, organizza una cena nella sontuosa dimora di questi, meditando una fine burla per vendicare l’ultimo torto subito, per lui quasi fatale, in particolare nei riguardi di Neri, il più terribile dei due, che gli ha portato via l’amata Ginevra.
Il regista, lo scrittore e il regime
Quando il film viene realizzato, Blasetti è poco più che quarantenne e il proprio contributo alla settima arte non è soltanto dietro la macchina da presa: energicamente aveva collaborato alla nascita, già nel 1932, di una scuola statale di cinema che precedette il successivo e ben più solido Centro sperimentale di cinematografia, e si era opposto alla creazione di un’industria cinematografica di Stato che avrebbe sfornato opere di propaganda (cfr. Brunetta, 2001). L’adesione al fascismo, soprattutto professionalmente parlando, fu, tuttavia, più che evidente, come testimoniò Sole, il debutto alla regia nel 1929: quasi del tutto perduto (ne restano una decina di minuti), ebbe come sfondo la bonifica delle paludi pontine (caposaldo della retorica legata agli interventi pubblici del fascismo) e incassò il plauso del Capo del Governo.
Successivamente, altra eloquente testimonianza di allineamento al regime fu Vecchia guardia, pellicola che, ricorda una didascalia all’inizio, “vuole esaltare tutto lo squadrismo d’Italia e far rivivere momenti che nessuno vuole dimenticare”. Il film, però, uscì in un periodo poco opportuno per raccogliere nuovamente i favori di Mussolini: in quel 1935, in cui l’Italia mobilitava l’esercito nell’Africa Orientale per dare maggior consistenza alle pretese coloniali, la dittatura era ormai in una nuova fase e il dittatore spostava oltre la penisola quella visibile violenza con cui aveva preso il potere negli anni Venti, la stessa che non voleva rammentare agli italiani che frequentavano le sale cinematografiche. Anche Sam Benelli, del resto, fu animato da una confusa condotta in fatto di politica: passò da un’audace dichiarazione di sé come anticipatore del fascismo al firmare, dopo l’omicidio di Giacomo Matteotti, il manifesto crociano degli intellettuali antifascisti, per riavvicinarsi al duce partendo per la guerra di Etiopia (volontario, come lo fu per la Grande Guerra, dalla quale tornò decorato), finendo per fuggire in Svizzera durante il secondo conflitto mondiale, a seguito del definitivo allontanamento dal regime (cfr. Marotti, 1966).
Il distacco dalla militanza politica, indotto da un intreccio di circostanze, personali e produttive, maturò pure in Blasetti, allettato dagli spazi di libertà all’estro creativo concessi dall’approdo ai generi storico, epico, fantastico: già con La corona di ferro del 1941, il regista dichiarò di aver voluto, con una favola, esprimere la propria “avversione alla violenza, alla conquista, all’eroismo sterile” (Blasetti, 1956), affermazione posteriore alla guerra alla quale Giampiero Brunetta, alla cui opera monumentale sul cinema italiano quest’articolo è largamente debitore, concesse assai credito.
Una parata di stelle dell’epoca
La messa in scena per il grande schermo del lavoro di Benelli era una conferma dell’interesse di Blasetti nei confronti del teatro, nutrito dalla cura per gli elementi figurativi e scenografici della rappresentazione e dalla volontà di fissare, per scongiurare l’azione distruttrice del tempo, certe performance, come accaduto con Ettore Petrolini in Nerone del 1930 e con Raffaele Viviani ne La tavola dei poveri del 1932 (Germani, 1975). C’è da dire che, per l’adattamento cinematografico de La cena delle beffe, furono coinvolti alcuni grandi nomi di quell’epoca. La parte di Giannetto venne affidata a Osvaldo Valenti, sebbene solitamente antagonista nelle collaborazioni col regista, e, come spesso succedeva, doppiato (qui da Sandro Ruffini). Neri Chiaramantesi, una figura che nel dramma di Benelli può definirsi senza dubbio un comprimario, ebbe il volto di Amedeo Nazzari, che, favorito da una corporatura che accentuava l’indole prepotente del personaggio, lo aveva già interpretato a teatro.
Ginevra fu Clara Calamai, che legherà la partecipazione al clamore suscitato dalla sequenza in cui è inquadrato il suo seno nudo e alla conseguente disputa su chi spettasse, nella storia del cinema italiano, il primato per tale trasgressione, una contesa (in parte ricostruita ne “I nudi di Blasetti“, un breve contenuto speciale inserito nella nuova edizione Ripley’s Home Video) nota quanto quel “e chi non beve con me, peste lo colga!”, proferito da Nazzari, altro elemento che colpì la curiosità popolare che accompagnò il successo della pellicola. Nonostante Blasetti avesse destinato loro impegni di rilievo nella propria filmografia, a Luisa Ferida ed Elisa Cegani toccarono ruoli minori, quelli, rispettivamente, di Fiammetta e Laldòmide, donne in passato ingannate da Neri, mentre la mite e innamorata Lisabetta fu una giovanissima Valentina Cortese, l’attrice che avrà forse miglior sorte in carriera, tra i citati, dopo la fine della guerra.
La Calamai, che nel 1943 sarà la Giovanna di Ossessione (lungometraggio accreditato trai primi titoli del neorealismo), diraderà le apparizioni a partire dagli anni Sessanta. Nazzari, che vivrà la fortunata stagione dei melodrammi di Raffaello Matarazzo in coppia con Yvonne Sanson e farà il verso al fenomeno stesso del divismo impersonando Alberto Lazzari nel felliniano Le notti di Cabiria (1957), avrà l’occasione di recitare la parte di Neri anche in una registrazione per la televisione nel 1965, per quello che una volta era il Programma Nazionale: con lui ci saranno Giancarlo Sbragia (Giannetto), Liliana Orfei (Ginevra) e anche un Orazio Orlando, nei panni di Gabriello, che il regista Guglielmo Morandi aveva già diretto nel 1964 ne La paura numero uno di e con Eduardo De Filippo.
Osvaldo Valenti, invece, il dopoguerra non lo vedrà mai: a causa dell’adesione alla Repubblica Sociale Italiana e, soprattutto, all’arruolamento nella Xª Flottiglia MAS e alla frequentazione col famigerato Pietro Koch, venne fucilato nell’aprile del 1945 dai partigiani, insieme alla Ferida, sua compagna e incinta.
Nel 2008 la loro relazione e la controversa fine furono al centro di Sanguepazzo di Marco Tullio Giordana, attraverso “una ricostruzione basata da un lato su varie fonti e sull’uso di materiale di repertorio conservato all’Istituto Luce [,] dall’altro sul libero lavoro di fantasia degli sceneggiatori [, e in cui] realtà storica e finzione cinematografica si intrecciano, con attenzione ai concetti di «verità» e «giustizia»” (Oliviero, Paparcone, 2017).
Tra storia e narrazione fantastica
Nel 1935, l’anno di Vecchia guardia, avvenne l’incendio che compromise gli stabilimenti della Cines e accelerò la nascita di Cinecittà: nel complesso di studi cinematografici della capitale, videro la luce due fortunate pellicole di Blasetti che precedettero La cena delle beffe, ossia Un’avventura di Salvator Rosa e il già citato La corona di ferro, anch’esse storie a cui soggiaceva lo stesso sentimento nella figura dell’eroe. Nel primo, l’artista napoletano del Seicento, interpretato da Gino Cervi, compare come un Don Diego de la Vega che assume le mentite spoglie di Formica, vendicatore dei soprusi inflitti ai più deboli nel Regno di Napoli, da poco orfano del rivoltoso Masaniello. Nell’ambiguità del doppio ruolo di fidato amico del conte Lamberto D’Arco (Valenti) e oppositore dei loschi interessi di questi, soccorre i contadini delle terre di Torniano, assetate per favorire l’approvvigionamento ai giochi d’acqua delle fontane della duchessa Isabella (Rina Morelli), contadini sollevati dalla focosa Lucrezia (Luisa Ferida).
La corona di ferro segnò il debutto di Blasetti nella categoria del fantastico, legato al potere del sacro oggetto (“la più potente e venerata reliquia della vera fede”), al cui passaggio la giustizia vince sul male. Stavolta Cervi è il cattivo di turno, Sedemondo, che ha fatto uccidere il fratello, Licinio (Massimo Girotti), re di Kindaor, mentre questi sta stipulando la pace con Artace, per mettere fine a una lunga guerra.
Sulla strada verso il regno, di cui ha usurpato il trono a Licinio, Sedemondo incontra una vecchia nella foresta (Lina Morelli), che gli predice il trionfo della corona di ferro, che assurge a ingrediente indispensabile affinché si compia l’ineluttabile destino. Allo scopo di impedire il verificarsi della profezia, il fratricida tenta di separare per sempre la propria figlia Elsa (Elisa Cegani) dal figlio di Licinio, Arminio (sempre Girotti). Quest’ultimo, che in un duello ha sconfitto il re dei tartari, Eriberto (ancora Valenti, sfidato già in Un’avventura di Salvator Rosa), incontra la figlia di Artace, Tundra (ancora la Ferida nelle vesti di una vendicatrice dei vinti), che vive nascosta sui monti con il suo popolo messo in fuga un tempo da Sedemondo.
Gli elementi comuni della struttura narrativa dei lavori blasettiani in costume realizzati a Cinecittà, in realtà, furono anticipati da quell’Ettore Fieramosca del 1938, liberamente ispirato all’omonimo romanzo di Massimo D’Azeglio, girato negli stabilimenti della Titanus e che soffrì, però, dell’impronta militante del regista, giacché si trattava di una delle pellicole in cui “l’attenzione ai motivi nazionalistici è diretta e scoperta” (Brunetta, 2001).
Il protagonista Cervi duella con l’eterno avversario Valenti (nelle vesti di Guy de la Motte), per lavare l’onta dell’offesa francese alle genti d’armi italiane nella celebre contesa del 1502, in un crescendo segnato dalla volontà di rivalsa per torti a sé quanto agli altri: sebbene inizialmente furioso per la morte dell’inseparabile cavallo, ucciso da un sodale della duchessa Giovanna (Elisa Cegani), il soldato di ventura di Capua ne diventa poi paladino innamorato, salvandola dalle nefaste conseguenze del tradimento di Graiano d’Asti (Mario Ferrari), passato dalla parte dei transalpini.
Carnalità accecante: La cena delle beffe
Un po’ per la vicinanza nel tempo tra la disfida di Barletta e gli anni della Signoria di Lorenzo, un po’ per quelli atteggiamenti guasconi dei cavalieri che richiamano la spavalderia delle brigate fiorentine, l’Ettore Fieramosca e La cena delle beffe sembrano avvolti nella stessa atmosfera ma, rispetto a tutti e tre i precedenti film ricordati, il piano messo in atto da Giannetto Malespini si distingue per essere concepito per appagare solo se stesso: nella sua vicenda non ci sono popoli sottomessi che attendono un liberatore dalle sofferenze, né egli assolve alla funzione di ristabilire l’ordine scardinato dall’uccisione del proprio padre, un regnante, come accade ai tormentati ed esitanti Oreste e Amleto, al centro di complicate peripezie familiari nelle quali il sangue versato esige che se ne sparga dell’altro, tutte matrici della genesi di parecchi film apprezzati (cfr. Balló, Pérez, 1999).
Se, nei lavori menzionati, l’amore alimenta l’intrigo con una buona dose di sentimentalismo tradizionale, quest’ultimo, ne La cena delle beffe, è sostituito dal desiderio carnale inteso come una forza anch’essa ferocemente devastatrice, per quanto sia diffusa un’interpretazione in chiave omosessuale del legame tra i due contendenti, come testimonia il cenno di Sergio Toffetti ne La cena delle ambiguità e l’ampia analisi di Adriano Aprà ne Una tragedia sessuale, due preziosi contributi presenti nel booklet della Ripley. L’autore, nel testo, lo sottolinea attraverso il consiglio del fidato Fazio che avverte il padrone che “l’amore per la donna ogni altro amore disperde, sia pur sacro, sia pur bello! È come il succo e l’alito di mille sorte di vini; è fiore velenoso che secca ogni altro fiore nel giardino del tuo cuore; è la piaga dolorosa che tanto dole, ch’ogni altra tua doglia si spenge e tace; ed ubriaca il padre perché uccida il figliuolo” (Benelli, 1989). La bramosia di rivincita di Giannetto è, inoltre, evidenziata da una sorta di personificazione che conferisce all’agognato intento: “un’altra donna ho tolto per amarla assai più bella e più lusingatrice… Si chiama essa Vendetta. Io la saprei dipingere cotanto l’ho sognata e posseduta in sogno” (Benelli, 1989), egli confessa, riguardo alla perdita di Ginevra.
Se “la celia è come un gorgo che travolge chi scherza con il fiume” (Benelli, 1989), quanto alla spirale scatenata da Giannetto, quello spietato vortice provocato da rivalsa e passione attanaglia quasi tutti i personaggi: ne sono preda, oltre a lui, lo stesso Neri, rabbioso per le conseguenze dell’inganno e per il tradimento di Ginevra; Gabriello, adirato per le sofferenze patite dal fratello, ma allo stesso tempo travolto dalla voglia di avere Ginevra; il Trinca (Lauro Gazzolo), anziano cui Neri aveva sottratto una giovane compagna; Fiammetta (Luisa Ferida), la più collerica delle donne sedotte e abbandonate da Neri.
La cena delle beffe non presenta figure storiche reali e note (quella del Magnifico aleggia, rappresentato dalla sua armatura, solo come garante delle intenzioni di Giannetto), ma la pellicola rientra pienamente nel genere, e, in quanto tale, adempie ai compiti della storia monumentale nietzschiana, poiché
“un film storico può rievocare momenti perfettamente analogici con quelli che viviamo, o comunque che abbiano con essi un riferimento tanto evidente da farci abolire i secoli trascorsi… e da queste analogie e da questi riferimenti, possono scendere moniti, incitamenti, cognizioni che valgano a esercitare e rinforzare la coscienza popolare di oggi” (Blasetti, 1939).
Che la motivazione sia stata proferita nel tentativo di accreditare lo status quo del ventennio oppure che per “oggi” egli intendesse un generico presente non è dato sapere. Ciò che invece si sa è che Blasetti fu tra coloro che non aderirono ai progetti di realizzazione di film militari approvati dal Comitato per il cinema di guerra e politico, costituito nel 1941: non è il solo a guardare altrove per scelte nuove, maturando la frattura dal consenso a una dittatura che diventerà manifesta nel luglio del 1943, l’anno dopo l’uscita del suo film (Brunetta, 2001).
Il “regista con gli stivali” assurgerà, nel secondo dopoguerra, a icona del proprio mestiere, tant’è che a lui si rivolgeranno due maestri, Luchino Visconti e Dino Risi, di due stagioni del cinema italiano, rispettivamente il neorealismo (di cui fu precursore) e la commedia all’italiana, per interpretare il ruolo di se stesso in due pellicole memorabili, Bellissima (1952) e Una giornata difficile (1961).
- Jordi Balló, Xavier Pérez, Miti del cinema. Semi immortali, Ipermedium, Napoli, 1999.
- Sem Benelli, La cena delle beffe, Mondadori, Milano, 1989.
- Gian Piero Brunetta, Storia del cinema italiano. Il cinema del regime 1929-1945, Vol. II, Editori Riuniti, Roma, 2001.
- Emil M. Cioran, Quaderni 1957-1972, Adelphi, Milano, 2001.
- Sergio Grmek Germani, Blasetti dal periodo fascista al neorealismo, in Lino Micciché (a cura di), Il neorealismo cinematografico italiano. Atti del convegno della X mostra internazionale del nuovo cinema, Marsilio, Venezia, 1975.
- Ferruccio Marotti, Sem Benelli, in Dizionario Biografico degli Italiani, Treccani, Vol. 8, 1966.
- Marco Oliviero, Anna Paparcone, Marco Tullio Giordana. Una poetica civile in forma di cinema, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2017.
- Alessandro Blasetti, Ettore Fieramosca, A&R Productions, 2018 (home video).
- Alessandro Blasetti, La corona di ferro, Terminal Video, 2020 (home video).
- Alessandro Blasetti, Un’avventura di Salvator Rosa, Terminal Video, 2011 (home video).
- Alessandro Blasetti, Vecchia guardia, Terminal Video, 2013 (home video).
- Marco Tullio Giordana, Sanguepazzo, Eagle Pictures, 2009 (home video).