Leggere Juan Carlos Onetti richiede muscoli, tempra, allenamento costante nel corpo a corpo con un’opera letteraria quasi sfibrante. Fatica e piacere vanno a braccetto, pagina dopo pagina. Onetti impone una doppia sfida al lettore, per far sì che questi riesca a fargli aprire la guardia: leggere ogni storia indipendentemente dal resto della sua opera, oppure in relazione alle altre. Duplice confronto ineludibile quando si affronta il suo opus magnum, i romanzi e i racconti appartenenti al ciclo di Santa María, l’immaginaria città inventata dallo scrittore uruguaiano, posta a metà strada tra Montevideo e Buenos Aires. Sono storie leggibili come vicende a sé stanti, nelle quali immergersi in profondità per scandagliarle fino all’impossibile, ma non solo. La parte e il tutto sono sempre in perenne instabile equilibrio nell’opera di Onetti, perché a questo livello di complessità, il ciclo sanmariano ne aggiunge un secondo, invitando di continuo il lettore a muoversi dentro e fuori la singola vicenda, avanti e indietro nel tempo, tra personaggi che spariscono e poi ricompaiono in altri momenti di una narrazione che include sistematicamente, programmaticamente, vuoti e pieni, rimandi e allusioni, concordanze e assenze. Una scrittura che prevede il silenzio, le pause, come quella musicale; pentagrammi dove finanche l’indeterminazione non è aleatoria. Onetti non lascia che nulla prenda vita o sparisca per caso. Il suo compatriota Mario Benedetti ne intuì anni fa il titanico ordito:
“Si ha l’impressione che in passato, un bel giorno (o anno incompleto, o semplice periodo), l’autore abbia concepito non solo l’idea di una Santa María niente affatto speciale e semi-inventata, ma anche l’intera storia di quel mondo incistato, con i suoi abitanti e il corrispondente flusso di aneddoti, Si ha l’impressione che solo dopo aver creato, distribuito, messo in relazione e schedato quell’universo personale, Onetti abbia potuto iniziare con calma a scrivere la sua saga. Solo a partire da un’organizzazione e un ordine quasi maniacali, è possibile ammettere l’incredibile capacità del narratore nel far sì che i suoi romanzi si intreccino, si integrino e perfino si giustifichino reciprocamente” (Benedetti, in Onetti, 2012).
Talvolta, si è detto, Onetti tace e laddove dovrebbero esserci parole, frasi, costrutti, compaiono soltanto le loro ombre. Cosicché leggerlo richiede in qualche modo delle istruzioni per non smarrirsi oltre misura. Vale anche nel caso di Per una tomba senza nome, romanzo breve scritto nel 1959 (tutte le date si riferiscono all’anno della prima pubblicazione, non all’edizione italiana), ma successivo negli eventi che narra ai due grandi romanzi del ciclo, Raccattacadaveri (1964) e Il cantiere (1961); tre finzioni che si sviluppano temporalmente in ordine inverso alla data di stesura. Il romanzo dunque può essere letto in autonomia dal resto del ciclo, come avverte Antonio Pascale nella prefazione
“questi salti narrativi, gli spin-off, i sequel (e i prequel) e così via, anche se hanno dato vita a parecchi schemi critici di lettura, possono non interessare il lettore: ogni romanzo può essere letto come capitolo a sé stante”.
Tuttavia, perdersi tra le vie di Santa María è facile, cosicché qualche cenno intorno alla sua creazione potrà risultare di qualche utilità. La fondazione del ciclo di Santa María e della stessa città risale al romanzo La vita breve (1950), anche se in un racconto dell’anno precedente, La casa sulla sabbia, già compare la fantomatica città. Il quadro si completa con una dozzina di racconti e altri due romanzi, spuria conclusione del ciclo: Lasciamo che parli il vento (1979) e il tardo romanzo Quando ormai nulla più importa (1993) dove il nome della città si tramuta in Santamaría. Un’altra manciata di racconti e quattro romanzi completano l’opera di Onetti: l’esordio Il pozzo (1939), Tierra de nadie (1941, mai tradotto in italiano), Per questa notte (1943) e Gli addii (1954). Va dato merito all’editore Sur per aver ripreso a pubblicare Onetti in Italia, ritraducendo o revisionando le precedenti edizioni. Un’operazione editoriale tuttora in corso, ci si augura. Tornando a Per una tomba senza nome, riproposto nella traduzione di Dario Puccini (uscita per gli Editori Riuniti nel 1982) rivista da Giulia Zavagna, la cronologia riportata sopra fornisce al lettore una prima blanda sensazione di orientamento: siamo nel bel mezzo del ciclo sanmariano. I fatti che vi si narrano risultano come sempre poca cosa e i personaggi presenti sono un numero esiguo. Al dottor Díaz Grey, morfinomane e narratore onnisciente, tocca anche in questo caso il compito di esporre gli avvenimenti, che vedono protagonisti il giovane Jorge Malabia (apparso già in Raccattacadaveri) e un grosso capro con il quale si presenta al funerale di Rita, la servetta della pazza Julita, cognata di Jorge, moglie e in seguito vedova di suo fratello, come si racconta sempre in Raccattacadaveri. Intorno al capro ruota la storia degli espedienti con cui Rita si procurava denaro per sé e i suoi amanti, Ambrosio e poi lo stesso Jorge, vicende che quest’ultimo riferisce a Grey, al quale in seguito si contrapporrà un altro rapporto altrettanto veritiero, e dunque falso, fatto dall’amico di Jorge, Tito, anch’egli già comparso in Raccattacadaveri. Come si è detto, il lettore potrebbe ignorare tutti i fili invisibili che legano questa storia alle altre che si svolgono a Santa María. Avrebbe già di che smarrirsi alla ricerca di una verità che non esiste. È difficile però resistere alla tentazione di avventurarsi tra le viuzze, nei bar, nelle case, nella città creata da Onetti, mondo immaginario teatro di una commedia umana dove non c’è né speranza né bellezza e vi albergano cinismo e malinconia.
Le strade immaginarie che portano a Santa María
A Santa María, dove il tempo non trascorre, ma si è sempre all’imbrunire oppure albeggia, un pugno di antieroi animato da passioni tristi sembra muoversi come in un sogno lucido. Santa María è davvero ai confini della realtà, anzi è un’altra realtà, una Second Life analogica.
Tutto inizia in un caldissimo settembre, a Buenos Aires, sul finire degli anni Quaranta. È qui che Juan María Brausen, un impiegato in un’agenzia di pubblicità da cui verrà licenziato, mentre sua moglie subisce l’asportazione di un seno, fantastica delle storie ambientate in un luogo immaginario, un soggetto cinematografico. Sulle prime si sdoppia in un personaggio, Arce, un duro che ha una relazione violenta con una prostituta, poi duplicando in personaggi anche il suo ristretto giro di amici, infine materializzando la città immaginaria di Santa María, dove prenderanno definitivamente vita i suoi abitanti. Sono le vicende de La vita breve, romanzo che costituisce uno dei primi tentativi in cui uno scrittore si propone di fondare un mondo, impresa che Onetti ammirò in William Faulkner, creatore delle storie ambientate nell’immaginaria contea di Yoknapatawpha; un modello che influenzò anche l’invenzione della Macondo di Gabriel Garcia Marquez e la Comala di Juan Rulfo e che ancora oggi funge da riferimento per scenari come quello disegnato da Marylinne Robinson, l’autrice della trilogia ambientata nell’immaginaria cittadina di Gilead nello Iowa. Se l’influenza di Faulkner è evidente e riconosciuta dallo stesso Onetti, il concepimento di una realtà da far scivolare nel cosiddetto mondo reale, trova un precedente significativo in alcuni racconti di Jorge Luis Borges, come annota acutamente Mario Vargas Llosa in un saggio, di cui un estratto è posto a mo’ di prefazione dell’edizione einaudiana de La vita breve.
“Per esempio, Tlön, Uqbar, Orbis Tertius racconta la cospirazione di un gruppo di eruditi per inventare un mondo e introdurlo segretamente nella realtà, come Brausen e Santa María, e Le rovine circolari parla di una scoperta di un mago, intento a creare un personaggio da inserire di nascosto nel modo reale, dove la realtà che lui credeva oggettiva è anche una finzione, il sogno di un altro mago-creatore come lui”
(Vargas Llosa, in Onetti, 2010).
Le due storie citate fanno parte della raccolta Finzioni, precedente alla stesura del romanzo onettiano e conosciute dallo scrittore uruguaiano. I due, è noto non si amavano, ma questa è un’altra storia. Sulle possibili ascendenze dell’argentino su Onetti, invece, tutto si fa più chiaro ricorrendo proprio a Borges, ma ritoccandone una sua celebre affermazione:
“non ci sono anticipatori, ma solo dei grandi che creano, a ritroso, i loro predecessori”.
Il tempo, inoltre, ha sempre l’aria di insistere sul proprio giudizio, ribadendo nel corso degli anni il valore di scrittori dall’immaginazione sconfinata e dall’ambizione sfrenata, demiurghi onnipotenti in virtù di una ostinazione che ne ha mantenuto integra la volontà di potenza. D’altronde, autori immortali si diventa scrivendo testi irragionevoli, incuranti delle proporzioni e dei fini, in scrupolosa adorazione della perfezione. Simili artefici di finzioni sono stati, guarda caso, Pierre Menard l’autore del Don Chisciotte del XX secolo e Brausen. L’ineffabile Pierre Renard, immaginato da Borges in Finzioni, ricopia, perseverante, una parola dietro l’altra, il testo cervantesco, fedele al dettato che egli stesso si è dato: insufflare nuova vita alle pagine del castigliano. Il cavaliere errante Don Chisciotte, forse un antenato di Brausen, che ritorna in Borges, che ritroviamo in Onetti, secondo Mario Vargas Llosa, seguendo un’ipotesi di biblioteca universale. Lui, Brausen, creata Santa María, esce di scena, o meglio, in seguito a una transustanziazione, riappare in forma di statua, omaggio al dio-creatore, posta nella piazza vecchia della città, Piazza Brausen o Piazza del Fondatore, come viene chiamata in punti diversi del ciclo. Se ne parla nei racconti Storia del cavaliere della rosa e della vergine venuta da Lilliput (1956), Jacob e l’altro (1961), per esempio, ma anche nei romanzi. Tracce, indizi, direzioni da seguire, piste da battere.
Un imperscrutabile agire divino
Un sospetto: Brausen non è solo un dio-creatore, ma anche un distruttore. La sua città e le storie che la attraversano, compongono un ciclo che ha buchi ovunque, come l’emmenthal che forse mangiano i cittadini della colonia svizzera adiacente a Santa María. Bisogna immaginare di avere di fronte la pianta di una città, riuscire a intravederla non più di un attimo ed ecco che una mano invisibile, quella di Brausen/Onetti ne strappa delle parti e le lascia ricadere alcuni pezzi di fronte a voi. Volteggiano appena ed eccoli adagiati sul pavimento. Ora non c’è più l’intera mappa, non si può più seguire la complessa trama delle strade polverose, la disposizione dei quartieri, gli incroci, le palazzine malandate delle periferie, i giardini, i confini sporchi della città. I brandelli sopravvissuti alla distruzione sono però accurati, minuziosi, risultano essere dettagliatissime istantanee della città e dell’umanità che la abita. Assecondando l’ipotesi di Benedetti, l’intera mappa doveva possedere un’infinita precisione, ma noi possiamo osservarne solo una parte. È questa la condizione del lettore posto di fronte al ciclo sanmariano. Un pugno di romanzi e una manciata di racconti dai quali entrano ed escono una serie di personaggi, tutti in qualche modo votati all’insuccesso, rassegnati, inclini al suicidio, immersi in una realtà fatta di imbrunire stentorei e albe livide; una rappresentazione narrata spostandosi sempre avanti e indietro nel tempo, ricorrendo alla prima persona, anche purale, oppure narrata in terza persona, una ridda di voci che si accavallano e talvolta non sappiamo a chi appartiene quella voce, se non si tratti magari di un’eco. A volte, quella voce ricorre al noi, si è detto, rivendicando un ruolo di testimone collettivo delle vicende, vestendo i panni dell’autorevolezza. Come nell’esemplare incipit di Per una tomba senza nome, affidato alla voce del disincantato dottor Grey:
“Tutti noi, i notabili, noi che ci fregiamo del diritto di giocare a poker al Club Progresso e di tracciare le nostre sigle con pigra vanità in calce ai conti di bevande e pranzi al Plaza. Tutti noi sappiamo com’è un funerale a Santa María. Alcuni di noi, al momento opportuno, sono stati i migliori amici della famiglia; e ci è stato offerto il privilegio di vedere la faccenda fin dal principio e, per di più, il privilegio di iniziarla”.
Eppure la creazione di cui è artefice Brausen è sulle prime una seconda scelta, l’idea era un’altra. Tutto inizia come in un film, si è detto, cominciando dalla sceneggiatura. Tutto doveva essere un film, ma qualcosa non ha funzionato, dando modo a Santa María di trasformarsi da set di finzione in città reale. Nondimeno la domanda rimane ancora senza risposta: che film sarebbe stato quello di Brausen? Quale opera cinematografica può in qualche modo aver idealmente reso sullo schermo la visionaria inconsistenza di questa città che non esiste, ma che è così reale, viva, avvolta in una luce livida, dove tra volute di fumo si innalza a turno una voce per raccontare meschinità e ossessioni di un pugno di anime morte? La scrittura di Onetti riporta sempre dei punti di vista apparentemente esatti, ma discutibili, come il punto di vista di una macchina da presa e la costruzione di certe scene, gli stacchi, i primi piani, sembrano colare direttamente da uno storyboard. Anche in Per una tomba senza nome, dove la ripresa del funerale è affidata al dottor Grey che procede così:
“Non arrivarono da sopra, dalla strada dei funerali come tutti noi la conosciamo. Vennero da sinistra e si presentarono di sorpresa, diventando lentamente sempre più grandi sulla striscia di terra assolata; quei tre o quattro che erano, dopo aver compiuto un vasto giro, pur di rifiutare l’itinerario funebre che tutti credevamo inevitabile, pur di sopprimere la città. Un cammino infinitamente più lungo, scomodo, complicato, tra baracche e miseri poderi, ostacolato da cunette, galline e vacche addormentate”.
[…]
Il guardiano del cimitero tiene appeso al braccio un inutile bastone. È uscito sulla strada e ha guardato da tutti i lati. Io continuavo a fumare seduto su una pietra; i due tipi in camicia ancora tacevano appoggiati, le mani ciondolanti, appese alla cintura, alle tasche dei pantaloni. Così era”.
[…]
“Frattanto mi si stava avvicinando il viso del cocchiere un po’ curvo sull’alto sedile del carro funebre, la sua espressione di vessata pazienza. Questo, questo era il funerale”.
Tra presa diretta e voce fuori campo la regia di Grey ci porta direttamente dentro la scena, che ha la densità di un’allucinazione e lo svolgimento che pare uno spericolato piano sequenza. Tutte le vicende che riguardano Santa María rilucono di questa luce livida e possiedono (o sono possedute?) questo spettrale effetto di realtà. Il filmico insito nella scrittura onettiana però non è sufficiente a condurci in una dimensione cinematografica affine; occorre altro, ripensare a un’altra legge dell’universo sanmariano, sempre in relazione al vedere: la città di Diaz Grey, di Larsen detto Raccattacadaveri, di Jorge Malabia è un panopticon a sud dei tropici, dove tutti osservano tutti, cosicché tutti sanno di tutti, tutti sono contro tutti e tutti sono soli. Non ci sono vere pareti a riparare degli sguardi, dalle considerazioni e dalla miseria dell’animo altrui. Come in Dogville (2003), la città immaginaria di Lars von Trier, dove sono messe a nudo le relazioni tra i suoi abitanti senza che letteralmente alcun ostacolo si frapponga tra spettatori e spettacolo, con l’intreccio tra voci degli attori e voce fuori campo. Forse Santa María non è finita in un rogo, come racconta Lasciamo che parli il vento, ma si è spostata sulle Montagne Rocciose, dove il dottor Grey, ovvero Brausen, cioè Onetti, tra un funerale un caprone, immagina altri fallimenti, o come direbbe Samuel Beckett, immagina come fallire ancora e fallire meglio.
- Mario Benedetti, Juan Carlos Onetti e l’avventura dell’uomo, in Juan Carlos Onetti, Gli addii, Sur, Roma, 2012.
- Jorge Luis Borges, Finzioni, Adelphi, Milano, 2014.
- Mario Vargas Llosa, In viaggio verso la finzione, in Juan Carlos Onetti, La vita breve, Einaudi, Torino, 2010.
- Lars von Trier, Dogville, Medusa Video, 2012 (home video).