A volte, quello che succede e a cui si assiste non pare vero, recita un verso della Tammuriata nera. Può capitare, per esempio, di veder scivolare un personaggio di finzione nella nostra realtà, facendovi una capatina e pure di più. Non è un passaggio frequente, beninteso, ma accade. Avviene in letteratura, si ricorderà il delizioso Icaro involato di Raymond Queneau, e anche sul grande schermo negli intrecci sentimentali de La rosa purpurea del Cairo di Woody Allen. Ancor più raramente può verificarsi il contrario: si transita dal nostro piano reale a uno finzionale, come in La vita breve di Juan Carlos Onetti.
Tradotto da Enrico Cicogna e pubblicato per la prima volta in Italia nel 1970 da Feltrinelli, il romanzo è stato ritradotto da Gina Maneri per le edizioni Sur e pubblicato assieme a Il cantiere, un altro romanzo appartenente al medesimo cosiddetto ciclo sanmariano.
A dire il vero, l’editore romano già aveva provveduto per tutto lo scorso decennio a pubblicare una serie di riedizioni riguardanti Onetti con aggiornamenti delle traduzioni storiche; ora però alza il tiro dando vita a una collana a sé stante dedicata al grande scrittore di Montevideo. Un progetto editoriale che prevede nuove traduzioni, una veste grafica personalizzata e postfazioni affidate ad autori italiani. Non è chiaro se riappariranno alcuni romanzi ormai da considerare oggetti smarriti come Lasciamo che parli il vento e Quando ormai nulla più importa e se verranno pubblicati romanzi inediti in Italia come Tierra de nadie del 1941, oppure si sistematizzerà il corpus già pubblicato negli scorsi anni. Si tratta in ogni caso del ritorno in grande stile di un autore tradotto in italiano sin dall’inizio degli anni Settanta, come si è detto.
Luci e ombre di un fenomeno editoriale
Era il tempo del realismo magico, del best seller Cent’anni di solitudine, del boom in generale degli autori del continente sudamericano favorito anche da un sentimento di militanza, di solidarietà internazionale che da Cuba al Che, in uno scenario segnato da colpi di stato e dittature, dal Brasile al Cile e allo stesso Uruguay, avevano mescolato piani differenti, poetiche, stili, concezioni letterarie e anche epoche diverse, con inusitati effetti sul mercato editoriale. Non a caso furono la citata Feltrinelli ed Einaudi gli editori in prima linea su questo fronte, entrambi manifestamente di sinistra. In una folla di autori che andava da Augusto Roa Bastos a Manuel Puig, da Manuel Scorza a Julio Cortázar, da Carlos Fuentes a Jorge Amado, varcò i nostri confini, appunto, anche Onetti. Fenomeno anche un po’ distorto, tant’è che sul finire de decennio, proprio Angelo Morino, scrittore, accademico e traduttore, tra gli altri anche di Onetti, e tra i principali promotori della letteratura proveniente dal Sudamerica in Italia, annotava il proliferare di romanzi etichettati genericamente come latinomericani “in un clima di genericità, di facili entusiasmi” (Morino, 1979).
Dopo un periodo di relativo silenzio editoriale, il successo internazionale di Roberto Bolaño ha riportato l’attenzione sulla letteratura del continente sudamericano dove nel frattempo, da diversi anni, nuovi autori sono comparsi anche tradotti nella nostra lingua e si può affermare a ragion veduta di stare assistendo da tempo a una nuova fioritura di talenti, spesso già affermati a livello internazionale e di più recente scoperta anche per il lettore italiano. Non più sotto il segno dell’ideologia, affrancati da ambiguità a malintesi vengono riproposti pure gli autori protagonisti di quel guazzabuglio editoriale sopra descritto. Tra questi Onetti grazie all’operazione editoriale firmata Sur, che merita un plauso particolare perché rifugge il titolo di facile presa e propone un’opera letteraria che nel suo complesso è tra le maggiori del Novecento.
A iniziare da La vita breve, che si potrebbe definire un romanzo sul processo di costruzione di un romanzo, dunque un’opera metaletteraria, dal momento che è l’atto stesso di narrare a farsi protagonista principale. Il personaggio creato da Onetti, Juan María Brausen è un pubblicitario alle prese con una sceneggiatura e prossimo al licenziamento. Proverà a mettersi in proprio, affittando la metà di un ufficio da un tale Onetti… un tizio che “non sorrideva, portava gli occhiali, lasciava intuire che poteva riuscire simpatico solo a donne fantasiose o ad amici intimi”. Così gli appare in una foto che osserva mentre lo attende per stipulare il contratto; così Onetti gioca a fare Alfred Hitchcock, comparendo anch’egli in scena. Difatti, Brausen è un demiurgo che immagina, crea, scrive e riscrive, moltiplicando la vita, concependo molteplici possibilità, inventando personaggi che prendono consistenza, autonomia, che assumono uno statuto esistenziale proprio, affinché le loro storie possano svilupparsi in autonomia, parallelamente. È il verbo a far nascere nuove vite e a fornire una via di fuga dalla realtà frustrante che lo circonda.
Proviamo a riassumere per sommi capi la trama, a tratti enigmatica. Un uomo disilluso e annoiato anzichenò (Brausen) inizia a immaginare un altro sé stesso, Arce, questo il suo nome, a vivere una seconda vita. Fantastica anche intorno a un doppio del suo spazio vitale: l’appartamento di fianco al suo. È qui che agisce Arce; in quello spazio abitato da una giovane prostituta, Queca, l’alter ego di Brausen instaura una relazione non soltanto con la ragazza ma anche e soprattutto con gli oggetti, gli spazi, le presenze perlopiù immaginate dall’altra parte della parete più che esperite direttamente.
“Respiravo l’aria della stanza, mi era possibile vedere e toccare gli oggetti, a uno a uno, sentirli vivi, forti, adeguati alla costruzione del clima irresponsabile in cui io potevo essere trasformato in Arce”.
Non è tutto, non basta, l’uomo inizia a scrivere immaginando un nuovo personaggio, un secondo alter ego che prende forma sulla carta: il dottor Díaz Grey. Da scissione binaria a scissione multipla. Anche lo spazio si moltiplica e ora non si tratta più di passare da uno a due appartamenti ma da una a due città, anzi tre (Buenos Aires, dove vive, Montevideo da dove proviene e Santa María dove si inabisserà), così come il protagonista di questa vicenda è uno e trino.
“Giocavo, un po’ nevrotico, con la fiala, in preda a un crescente bisogno di immaginare e accostarmi a un vago medico quarantenne, abitante laconico e disilluso di una cittadina situata tra un fiume e una colonia di agricoltori svizzeri. Santa María, perché io lì ero stato felice, anni prima, per ventiquattr’ore e senza motivo”.
Lui/loro assieme agli altri personaggi, tutti abitanti varie realtà o differenti livelli di realtà, andranno a confluire in un unico mondo mescolandosi, confondendosi, sostituendosi e assumendo un proprio statuto esistenziale. L’intreccio concepito da Onetti prevede anche l’omicidio della Queca da parte di uno dei suoi clienti nonché fidanzato, Ernesto, che anticipa nei fatti il desiderio di Arce di fare altrettanto “mi venne, confusa, priva di echi, ondivaga, sempre superficiale, come un capriccio di primavera, l’idea di ucciderla”. Arce/Brausen si farà complice di Ernesto in una fuga che li condurrà… a Santa María.
“Io avevo alternato la commedia della necessità che non conosce legge e quella della rassegnazione nella disgrazia – che tutto il viaggio, ciò che io chiamavo ritirata e pensavo con il nome di fuga, mancava di un proposito spiegabile, e che lui, le strade principali, quelle secondarie, i paesi, le albe e le soste erano solo elementi propizi e indispensabili per il mio gioco”.
“Tracciai una croce sul tondino che indicava Santa María sulla cartina; rimuginai sul modo migliore di raggiungere la città, studiai le varianti possibili, i vantaggi di arrivare da ovest e quelli di fare il giro largo ed entrare a Santa María da nord”.
È questa per vaghe linee la vicenda narrata in La vita breve, la genesi del mondo chiamato Santa María, l’universo fabbricato da Onetti per interposta persona, ovvero affidata a Brausen. A lui è anche delegato, nelle prime righe, il compito di suggerirci dove cercare la chiave per accedere a questo maestoso edificio letterario:
“Io la sentivo attraverso la parete. Immaginai la sua bocca in movimento davanti all’alito di gelo e fermentazione del frigorifero o alla tenda di bambù marrone scuro che doveva starsene rigida tra la sera e la camera da letto, velando il disordine dei mobili appena arrivati”.
Immaginò, perché tutto è frutto dell’immaginazione di Brausen ed è grazie al potere dell’immaginazione che nasce la sua creatura, la città di Santa María. Come un seme, una sola parola mescolata con cura per farsi prosa inimitabile e rendersi invisibile generando un intero mondo: “Immaginai”. È il meccanismo classico della lettera rubata di cui astutamente si impossessa il narratore: scoprire subito le carte per celarle meglio.
Esiste però una dimensione squisitamente letteraria, fatta di solitudini abissali, di malessere esistenziale e di vaghe atmosfere noir, cosicché la narrazione de La vita breve si tiene in miracoloso equilibrio rispetto al piano metaletterario. Complice la scrittura onettiana, affilata come un bisturi, impietosa, precisa e implacabile, che si incide nella pagina. Tutto in questa storia, d’altronde, parte proprio da un taglio, che segna per sempre la carne di Gertrudis, la moglie di Brausen. Lei subisce l’asportazione di un seno per via di un tumore e in parallelo lui inizia a sdoppiarsi in Arce. Sarà per questo che anche la prima scena sanmariana vede protagonista un medico nel suo studio, una figura chiave nell’intero ciclo: il citato dottor Díaz Grey. È da lui che si reca in cerca di dosi di morfina l’avvenente Elena Sala, sposata al ricco e anziano Lagos, a sua volta tossicodipendente. Prenderanno corpo così, pagina dopo pagina, personaggi mai del tutto decifrabili proprio perché dannatamente simili a noi per fragilità e per morali spicciole, per inconcludenza, per una maledetta inestirpabile coazione a ripetere e per una disperazione tanto profonda quanto vana che si aggira tra menzogne e follie.
“Sempre la stessa cosa, un giorno dopo l’altro; un gesto ripetuto e l’attesa, un’imitazione di Brausen e l’attesa, distratta, come se vibrasse fuori da me, nell’aria e negli oggetti, scoperta all’improvviso nel piccolo tremito delle mie mani oziose”.
Non è un mondo consolatorio quello di Santa María, una regione dell’immaginazione di Onetti dove la vita scorre sempre uguale e le domande rimangono inevase, come accade a noi stessi. Non sappiamo in fondo perché esistiamo: ecco perché siamo tutti abitanti di Santa María. La città/mondo patria delle debolezze e dei fallimenti, delle meschinerie e delle azioni incompiute, dei rimpianti, delle storie che si scambiano, si mescolano, si intrecciano, diverse e sempre uguali. La fatica di vivere riappare nelle sue pagine come fatica di leggere, quasi una mimesi. Una prosa impervia, curata nei minimi particolari nella quale si naufraga, abbondante di dettagli mescolati con una serie di riflessioni cadenzate (esemplare quella sui vari tipi di disperati).
Il lettore ideale di Onetti è pressoché indistinguibile dai personaggi che egli inventa: è condannato ad arrendersi, a sapersi sconfitto, a non ricevere risposte. Gli è consentito unicamente di andare avanti nonostante le spiegazioni non ricevute le assenze, i salti temporali, le ramificazioni, l’implacabile e ipnotico succedersi di periodi scintillanti, il meticoloso inanellare un aggettivo dietro l’altro accarezzando di continuo la perfezione in pagine che lasciano senza fiato e in immagini stupefacenti che abbagliano, come “la furtiva, irritante discesa del sudore sulla pelle”, pescando a caso da La vita breve, o descrizioni che paiono simili a sculture. Ecco il ritratto di un altro personaggio, Oscar Owen soprannominato l’inglese, un amante di Elena Sala. Costui
“era una faccia costruita con volontà e pazienza e la boria, benché ormai molto profonda, vicina all’osso, sembrava incapace di conseguenze, senza un vero significato, senz’altra missione se non quella di mostrarsi”.
Resta da dire, in realtà resterebbe molto da dire, ma ci limiteremo a un ultimo punto che riguarda l’oscurità di alcuni passaggi, le assenze di talune chiarificazioni. Le domande sorgono ma restano inevase. Omertà inammissibile, la perdoniamo assai di rado al narratore e invece Onetti lo si assolve, come si è detto, in virtù della sua scrittura. Alla fine del romanzo e dunque all’inizio di un ciclo letterario si fa largo, per esempio, una domanda fondamentale: che fine ha davvero fatto Brausen?
Nelle vicende sanmariane rispunterà qui e là, assurto a statua, monumento eretto in suo onore (il fondatore) e collocato al centro di una piazza a lui intitolata. Accade per esempio nei racconti Storia del cavaliere della rosa e della vergine venuta da Lilliput (1956) e Jacob e l’altro del 1961, entrambi presenti nella raccolta Triste come lei. Nel romanzo Il cantiere, riappare in un commento del protagonista, Larsen (“la statua e la sua iscrizione sorprendentemente laconica, BRAUSEN – FONDATORE, spruzzata di verderame” (Onetti, 2021), che lo citerà sbrigativemente anche in Raccattacadaveri. Una statua, dunque un simulacro, la stessa natura di cui sono fatti sia Brausen sia la sua (pseudo)creazione. Non sapremo altro. Potrebbe aver deciso di non muoversi più dal letto, come fece Onetti negli ultimi anni della sua vita, e da quel giaciglio aver continuato a moltiplicare le storie di Santa María. Potrebbe, ma che fine abbia fatto Brausen in fondo non importa. Nella lettura di Onetti contano i momenti e la prosa prodigiosa che li inventa descrivendoli, trattenendo per sé porzioni di verità, come si addice a un autentico imperscrutabile piano divino.
- Angelo Morino, Dal rifiuto alla ricerca dell’alterità, in Terra America (a cura) di Angelo Morino, La Rosa, Torino, 1979.
- Juan Carlos Onetti, Il cantiere, Sur, Roma, 2021.