Avari e prodighi, iracondi e accidiosi, violenti, suicidi, ruffiani, adulatori e così via sprofondando fino al centro della Terra. Ne occorse un bel po’ di spazio a Dante per ospitare tutte le debolezze umane, le sfumature e le gradazioni del peccato e del pentimento. Juan Carlos Onetti se ne fece bastare assai meno, racchiudendo tutto lo spettro dell’animo umano nel perimetro sfuggente di Santa María e della colonia svizzera limitrofa. Una cittadina di provincia adagiata su un fiume la cui acque marroni scorrono dimesse e grevi, raramente agitate come la vita dei suoi abitanti. In realtà poco importa della sua topografia, si torna a Santa María avvertendo ogni volta qualcosa di familiare, che ci sfugge ma ci appartiene, ritrovando personaggi noti, il dottor Diaz Grey, padre Bergner, Jorge Malabia, dapprima poeta, poi editorialista, oppure facendo conoscenza con altre creature che in seguito non rivedremo più, come Augusto Goerdel introdotto in La morte e la bambina, passando e ripassando da fondali ricorrenti come l’Hotel Plaza di questa cittadina/mondo che è un incrocio non solo di città reali, Buenos Aires, Montevideo, Rosario (e chissà, forse anche la “svizzera” Bariloche), ma anche di Limbo e Purgatorio, un ibrido neanche tanto paradossale a ben vedere. Un paesaggio urbano sfocato, ricordato malamente o forse sognato, che si tratteggiano anche in due righe appena, come in La morte e la bambina:
“Due o tre mesi di autunno placido e ocra si trascinarono per le strade senza foglie di Santa María”.
In questa commedia del nuovo mondo, La morte e la bambina è un tassello finora mancante in edizione italiana della saga sanmariana, una storia che si aggiunge, nel trentennale della scomparsa di Onetti, alle nuove edizioni della sua opera letteraria proposte da Sur a iniziare dalla ritraduzione de La vita breve (1950) compiuta da Gina Maneri, all’opera anche per rendere al meglio in italiano questo romanzo scritto nel 1973, quasi un quarto di secolo dopo il romanzo da cui si origina Santa María e la sua triste umanità.
Città nata da un’invenzione metaletteraria, perché partorita dalla mente del protagonista, Juan María Brausen, pubblicitario fallito nella professione e disilluso, che darà vita dapprima a un suo doppio e in seguito concepirà e creerà a poco a poco una città, Santa María, appunto, popolandola e in qualche modo incorporandola nella realtà, immergendosi in essa. Demiurgo come si addice a uno scrittore, ma facendo le veci dello stesso Onetti, potremmo dire, il quale, ricordiamolo, si concederà una breve apparizione, come affittuario di una stanza a Brausen in La vita breve; qualcosa che ricorda i celebri cameo di Alfred Hitchcock. Cosicché Brausen non solo renderà la sua città adiacente al mondo in cui egli vive, la realtà, ma si emanciperà dallo stesso Onetti e a sottolineare la paternità di quella creazione, a ricordare di essere lui il fabbricante di quell’universo, a memoria imperitura di tutti gli abitanti di Santa María si autoerigerà una statua equestre troneggiante al centro della piazza in centro città. Eppure di rado i personaggi, gli abitanti di Santa María menzionano il loro creatore, quantomeno nei romanzi principali del ciclo, eccezion fatta proprio per La morte e la bambina, dove si accenna di continuo a “Nostro Signore Brausen” mostrandosi meno ignavi riguardo alla loro origine. C’è anche tempo per un’annotazione dal sapore iconoclasta:
“Fu padre Bergner il primo a scoprire alla luce dei lampioni della piazza, dopo essersi fatto il segno della croce, che il volto del cavaliere della statua dedicata a Juan María Brausen aveva cominciato ad assumere tratti bovini”.
Successivamente ne parlerà con Diaz Grey che a sua volta non sarà da meno. Insofferenza verso un Dio crudele, forse, perché Brausen in fondo è Dio, agisce nell’identico modo e medesimi sono gli effetti sui destini umani: “le vie di Brausen sono sempre state misteriose per noi”, si annota in un’altra pagina. Pochi cenni, questi, per chi è ancora a digiuno di letture onettiane, di sicuro insufficienti a dar conto di vicende di per sé volutamente manchevoli nei dettagli, ricche di lacune, silenzi e vaghe allusioni a fatti avvenuti in quella miserabile cittadina senz’anima, episodi talora sottaciuti, oppure malamente ricordati, avvenuti in un tempo altrettanto vago, il “non narrato” per dirla con Ricardo Piglia, che allo scrittore uruguaiano dedicò uno studio approfondito (Piglia, 2021). Anche in La morte e la bambina qualcosa si sottace, molto si fraintende sabotando una volta di più qualsivoglia rappresentazione a senso unico della realtà, in una vicenda dall’incedere quasi poliziesco, perché c’è una vittima (Helga Hauser, morta di parto) e c’è un presunto colpevole, suo marito (Augusto Goerdel), è coinvolto un involontario detective, Diaz Grey, c’è una prova che smonta le accuse e ci sono ripetuti affondi nelle zone oscure del cuore; insomma gli ingredienti che dosava magistralmente Georges Simenon, autore letto e ammirato da Onetti. Grey risulta anche parte in causa (il dottore è sempre in qualche modo intrecciato ai fatti che si svolgono in quel di Santa María), avendo avvisato Gordel, dopo la nascita del primogenito, del pericolo mortale che avrebbe comportato una seconda gravidanza per sua moglie Helga, che difatti di lì a poco morirà dando alla luce una bambina. Augusto Goerdel sarà ritenuto responsabile di quella morte dall’intera comunità di Santa María (con Jorge Malabia a far da caporione), considerato un omicida, oppresso da un’accusa ingiusta oltre che dal dolore per il lutto subito. Goerdel marca una significativa differenza rispetto alle altre vicende di Santa María perché appartiene come sua moglie alla colonia svizzera sempre sullo sfondo, ancora più sfocata e indefinita rispetto alla cittadina di cui è costola silente. Studente di padre Bergner da ragazzino, dopo i fatti tragici che lo trasformarono in assassino, si riscatterà anni dopo grazie a un provvidenziale mazzetto di lettere che indicherà altro. Questi in breve i fatti che vengono esposti alternando i piani temporali come di consuetudine nella scrittura onettiana. D’altronde a Santa María il tempo scorre ed è immobile, consiste in una pluralità di presenti, passati e futuri che paiono simultanei. Nei suoi Pensieri Blaise Pascal annotò qualcosa di affine:
“Non ci atteniamo mai al tempo presente. Anticipiamo l’avvenire come troppo lento a venire, quasi per affrettare il suo corso, o richiamiamo il passato per fermarlo come troppo spedito, imprudenti al punto da errare nei tempi che non sono affatto nostri” […]”
(Pascal, 2016).
Non a caso, in La morte e la bambina si afferma perentoriamente: “in letteratura Tempo si scrive sempre con la maiuscola”, al fine di coincidere con Eternità, o almeno con la sospensione della condizione mortale delle cose umane, come sembra accadere nel teatro oltremondano creato da Onetti. In realtà, anche di quel mondo ne sarà decretata la fine, senz’appello, nel grande rogo al termine di Lasciamo che parli il vento (ancora in attesa di una doverosa ristampa/riedizione), cosicché l’unica condizione libera dalla tirannia di Cronos rimane la lettura. È allora che Santa María rinasce davvero, che risorgono di continuo personaggi ricorrenti o protagonisti in una sola occasione, tutti figli di quel solo Dio, Brausen, di cui come dice in La morte e la fanciulla padre Bergner, “benedetto sia il suo nome”.
- Juan Carlos Onetti, Lasciamo che parli il vento, Feltrinelli, Milano, 1978.
- Juan Carlos Onetti, La vita breve, Sur, Roma, 2022.
- Blaise Pascal, Pensieri, Città Nuova Editrice, Roma, 2016.
- Ricardo Piglia, Teoria della prosa, Wojtek, Pomigliano d’Arco (NA), 2021.