Dopo l’esordio a quattro mani di Joseph Branciforte e Theo Bleckmann, con From the Machine vol. 1 la label newyorchese Greyfade conferma l’intenzione di percorrere un sentiero affascinante quanto poco battuto. Pur in un’era dominata dalle tecnologie digitali e dalle intrusioni di intelligenze artificiali (o presunte tali), le macchine sembrano, per fortuna, ancora ben lontane dal padroneggiare gli strumenti del mestiere tipici della creatività, non ultima quella musicale. Per ora l’approccio digitale al mondo dei suoni è limitato all’utilizzo di suoni generati o trasformati elettronicamente, ma in funzione quasi esclusivamente timbrica.
Pochissimi hanno invece osato esplorare le possibilità offerte dalle macchine in termini di procedimenti compositivi e strutturali. Di questa sparuta avanguardia di compositori e pionieri, incapaci di resistere al “fascino dell’automa”, fanno parte gli autori di questo lavoro, Branciforte e Kenneth Kirschner.
From the Machine vol. 1 presenta due brani cameristici che, oltre a impiegare le tecniche classiche della composizione elettronica, arrivano a proporne la trasposizione in un contesto esclusivamente acustico. April 20, 2015, firmato da Kirschner, nasce come brano interamente elettronico, successivamente trascritto in notazione tradizionale da Branciforte, in un processo di vera e propria “ingegneria inversa”. La sfida è stata quella di ritradurre un tessuto sonoro, di per sé magmatico e privo di qualunque riferimento metrico, in una partitura che restituisse il dettaglio dell’originale digitale in termini intelligibili per gli esecutori (in questo caso due violoncellisti e un pianista). L’operazione, audace quanto certosina, punta alla massima fedeltà al testo elettronico, aggiungendovi però l’espressività e la texture analogica degli strumenti acustici.
0123 è un brano programmatico della direzione intrapresa da Branciforte, che si è affidato a una scrittura puramente generativa e algoritmica in ambiente software: una minuscola cellula intervallare (un cluster cromatico di quattro suoni, riassunto dalle cifre che danno il titolo al brano) è stata trasformata e sviluppata in tutte le sue possibili permutazioni e successivamente trascritta per un quartetto d’archi sbilanciato sul registro più basso (contrabbasso, violoncello, viola e violino). Si tratta quindi di musica scritta dalla macchina per essere eseguita dall’uomo. Siamo molto lontani, tuttavia, dalla distopia cibernetica dei Kraftwerk di The Man Machine. Il risultato è straniante quanto affascinante: nel solco delle composizioni numeriche del primissimo Michael Nyman e della serafica aleatorietà di Music for Airports di Brian Eno (le cui partiture modulari vengono richiamate dalla copertina di From the Machine vol. 1), qui l’intenzione – per quanto provocatoria possa apparire – è quella di liberare la creatività nascosta nei processori digitali e di umanizzarne l’output, esaltandone le sfumature espressive con mezzi squisitamente umani.
Un paradosso, a prima vista, risolto in modo egregio con la scelta di affidare l’esecuzione a musicisti umani, per di più in chiave puramente acustica. Da un punto di vista strettamente estetico, la musica di From the Machine vol. 1 non ricorda solo la ieratica staticità di certe composizioni pianistiche e cameristiche di Morton Feldman, ma anche l’estatica lievità dei loop minimalisti di William Basinski. Il risultato è una musica dalla bellezza algida, fatta di delicati frammenti melodici, incastri impervi e impalpabili grappoli di note sospesi su un fondale di silenzio riverberante (April 20, 2015), oppure fasce sonore in continuo e impercettibile mutamento, che avvicinano il pensare della macchina a una lenta proliferazione organica (0123). È sorprendente come l’ascolto di From the Machine vol. 1, messo da parte ogni ingenuo pregiudizio sulla rigidità e la freddezza della tecnologia, non faccia pensare ad alcun automatismo all’opera.
Kirschner e Branciforte dimostrano che anche un algoritmo – termine oggi particolarmente bistrattato e perlopiù identificato con le procedure manipolatorie e censorie dei social media – può essere piegato a scopi creativi, e con risultati più che soddisfacenti. C’è da chiedersi cosa avrebbero potuto realizzare, se avessero avuto a disposizione gli strumenti utilizzati dai due autori, l’Anton Webern delle Variazioni per pianoforte op. 27 o il Gyorgy Ligeti di Désordre, brani che in fondo potrebbero essere stati scritti da una macchina (il processo compositivo di Désordre, non a caso, è stato analizzato e ricostruito proprio sotto forma di algoritmo informatico).
Persa ogni pulsazione ritmica costante, la composizione generativa rilegge la struttura temporale del suono in un’ottica radicalmente nuova. Ma il tratto più evidente è l’inversione dei ruoli tra macchina e musicista, tra creatore ed esecutore. Difficile, in un panorama più ampio, non ripensare alle riflessioni in campo drammaturgico del grande regista canadese Robert Lepage: il musicista si lascia guidare dal ritmo della macchina, mantenendo una visione periferica e rinunciando al ruolo di protagonista:
“Se la macchina è umanizzata, l’attore diventa macchina” (Monteverdi, 2004).
- Anna Maria Monteverdi, Il teatro di Robert Lepage, Pisa, BFS, 2004.