Ogni anno, durante il mese di aprile, negli imprecisi giorni della Pasqua cristiana o attorno a essi, lungo le coste del Mediterraneo e nell’entroterra, si verifica un evento davvero straordinario: il Cercis siliquastrum è uno dei primi alberi a parlare, e le sue parole riducono al silenzio le valli e le colline. Prima ancora di mostrare le proprie foglie, sprovvisto del manto verde, quest’alberello non troppo alto né robusto cattura l’attenzione dei viandanti meravigliati allorquando i suoi rami si ricoprono di innumere e minute corolle che dal lilla virano con decisione verso il fucsia più acceso. Si tratta di una fioritura formidabile per impatto e dimensioni, una fioritura che, forse proprio grazie a questa sua eccezionalità, in qualche momento del lunghissimo Medioevo ha stimolato l’emergere di un tema leggendario che si è poi andato diramando in numerose versioni più o meno stimolanti e accreditate, variazioni di una storia già grande e piuttosto risaputa. Qui ne preferiamo una in particolare, questioni di gusto: fu proprio sotto quell’albero che Giuda, già traditore, baciò Gesù Cristo affinché le guardie dell’Impero sapessero a chi rivolgere le proprie attenzioni, affinché lo identificassero. Così Gesù fu riconosciuto e catturato, Giuda legittimò la famosa parcella di trenta denari, e la vicenda andò poi avanti al modo in cui tutti la conosciamo. Macerandosi nel rimorso per aver commesso un atto più che inverecondo, il fresco traditore fece poi terribile ammenda e, mosso da un senso di colpa che in tutta evidenza non conobbe misura, si recò di nuovo sotto quell’albero. Lì, grazie a una corda ben stretta, s’impiccò. Al che, i fiori del Cercis siliquastrum, da bianchi com’erano in quel momento e com’erano sempre stati, da immacolati e corruschi come vennero previsti durante la creazione, si fecero improvvisamente del colore miracoloso che ancora oggi vediamo: l’albero, saturo di turbamenti per aver ospitato il suicidio del reprobo più infero, assunse così il colore violaceo della vergogna, a eterno monito della sua prostrazione. È proprio grazie a tale leggenda che il nome comune del Cercis siliquastrum è “albero di Giuda”. O forse è la leggenda, con le sue numerose versioni, a provenire dal nome. Ma in realtà qui ci interessa davvero poco rintracciare con veridicità l’origine del nome e della leggenda. Ciò che ci interessa è che in questa medesima leggenda, che in fondo già di per sé è letteratura, da un tradimento così infame sia nata una meraviglia tanto immensa che forse lo giustifica. Tutto questo ci aiuta insomma a comprendere che al di sotto o al di sopra dell’atto sommamente meschino del tradimento ci può essere qualcosa che non è dato comprendere nell’immediato. Lo scopo del tradimento o le sue ragioni, anche quelle del più infido, possono invero non essere così prosaiche come a prima vista le s’immagina. Tutt’altro.
Nella raccolta di racconti pubblicata in origine nel 1944 che porta il titolo di Finzioni, di recente ristampata per Gli Adelphi nella vecchia traduzione di Antonio Melis, Jorge Luis Borges costruisce tre delle sue narrazioni esattamente sul tema del tradimento, tema centrale nelle sue riflessioni (si faccia per esempio riferimento alle pagine dedicate a Snorri Sturluson, il vinto che canta i vincitori, o a Francesca, l’eterna adultera) che invero appartiene all’opera dell’argentino fin dalle prime battute, ossia dal 1935, quando lo scrittore diede alle stampe il suo Storia universale dell’infamia (Borges, 1997), sintetizzando in un solo volume la falsa biografia esemplare di alcuni pravi formidabili, non alieni dalla delazione, in giro per il mondo e per la storia.
I tre racconti in questione sono La forma della spada, Tema del traditore e dell’eroe e Tre versioni di Giuda. Nel primo dei tre racconti, che introduce in termini classici e puramente descrittivi la questione del tradimento, senza apparentemente sfociare in possibili tematizzazioni di ordine esoterico, siamo a Tacuarembó, Uruguay, dove un tale Vincent Moon, delatore di guerra, traditore della patria e dei compagni, racconta a Borges la sua storia di infedeltà che ebbe luogo nell’Irlanda degli anni Venti, durante il conflitto contro l’Inghilterra. Nel secondo racconto, che segue logicamente ed estremizza il primo, siamo “in un paese oppresso e tenace: la Polonia, l’Irlanda, la repubblica di Venezia, qualche Stato sudamericano o balcanico […] verso la metà o all’inizio del XIX secolo”. Qui, plagiando il Macbeth e il Giulio Cesare di William Shakespeare, un politico-drammaturgo inscena la morte di un certo Fergus Kilpatrick, malvagio cospiratore destinato da morto alla santità dell’eroismo, modello fasullo da inventare per la sopravvivenza mondana di un popolo bisognoso di uomini impavidi e ardimentosi grazie al quale costruire lo spirito futuro di una nazione vessata, ma pur sempre desiderosa di rinascere e prosperare.
Nel terzo dei tre racconti, siamo invece nel “XX secolo [… nella] città universitaria di Lund”, Svezia, dove Nils Runenberg, membro dell’Unione Evangelica Nazionale e uomo “profondamente religioso”, dedica i suoi studi alla figura di Giuda, rintracciando e ricostruendo (o magari congetturando) nel suo atto un’inaspettata tensione prima etica, poi mistica e ancora dopo divina, figlia della più elevata santità. Ed è proprio su quest’ultimo racconto, che porta alle estreme conseguenze il tema rigoglioso del tradimento concludendo la serie a esso dedicata nelle Finzioni, che qui intendiamo soffermarci; altrimenti non si sarebbe fatto richiamo all’albero di Giuda, questo è ovvio.
Nils Runenberg è un teologo affascinato dalla figura di Giuda, ammaliato dalle ragioni profonde della sua delazione e convinto che queste fossero preludio di uno scopo metafisico e per nulla materiale. Dalla penna di Runenberg, dalla sua ansia di dimostrazione, nasce un libro, Kristus och Judas, pubblicato per la prima volta nel 1904, in cui si discute esattamente dell’atto del reprobo in termini che la teologia ufficiale, adombrata dalla magnificenza della figura del Cristo e dei suoi attributi, non riesce a tollerare. Nelle tre riedizioni che negli anni il libro conosce, a cui il teologo apporta continui cambiamenti in ragione delle critiche volta per volta ricevute dal concilio teologico mondiale, Runenberg intende, tramite tre diverse dimostrazioni, giungere a un’unica conclusione sorprendente: Giuda non fu Giuda, o quantomeno fu molto di più, moltissimo.
Nella prima versione del libro, si dice:
“Il Verbo, quando si fece carne, passò dall’ubiquità allo spazio, dall’eternità alla storia, dalla felicità senza limiti alla mutazione e alla morte; per compensare quel sacrificio, era necessario che un uomo, in rappresentanza di tutti gli uomini, facesse un sacrificio altrettanto grande. Giuda Iscariota fu quell’uomo. Giuda, unico fra gli apostoli, intuì la segreta divinità e il terribile proposito di Gesù. Il Verbo si era degradato alla condizione mortale; Giuda, discepolo del Verbo, poteva degradarsi alla condizione di delatore (il peggior delitto che l’infamia sopporti) e a essere ospite del fuoco che non si spegne”.
Secondo questa prima versione Giuda è un uomo, un retto rappresentante del genere umano che carica su di sé la controparte richiesta dall’intenzione sacrificale di Dio nel suo diventare Gesù, nella sua corruzione della divinità pensata e messa in atto per la salvezza dell’uomo. Nella seconda versione, Giuda diventa un asceta radicale e massimalista, le cui pratiche di frustrazione oltrepassano la carne per giungere fin sulle regioni superne dello spirito, dove tutto si amplifica a dismisura:
“Imputare il suo delitto all’avidità […] vuol dire rassegnarsi al movente più volgare. Nils Runenberg propone un movente opposto: un ascetismo iperbolico e addirittura illimitato. L’asceta, a maggior gloria di Dio, avvilisce e mortifica la carne; Giuda fece lo stesso con lo spirito. Rinunciò all’onore, al bene, alla pace, al regno dei cieli, come altri rinunciano al piacere. Premeditò con terribile lucidità le sue colpe […] scelse quelle colpe non visitate da alcuna virtù: l’abuso di fiducia […] e la delazione. Agì con umiltà gigantesca, si ritenne indegno di essere buono”.
Nell’ultima versione, la più audace delle tre, Giuda non è né un uomo né un santo, e il suo sacrificio di farsi accogliere per l’eternità dall’onta della delazione e da ciò che ne consegue dimostra che egli non è altri che Dio:
“Dio, sostiene Nils Runenberg, si degradò a essere uomo per la redenzione del genere umano; bisogna pensare che il sacrificio da lui compiuto fu perfetto, non invalidato o sminuito da omissioni. Limitare ciò che soffrì all’agonia di una sera sulla croce è blasfemo. Affermare che fu uomo e fu incapace di peccato racchiude una contraddizione; gli attributi di impeccabilitas e di humanitas non sono compatibili. […] Il famoso testo «Spunterà come radice in terra arida; non ha appartenenza né bellezza; disprezzato e reietto dagli uomini; uomo dei dolori che ben conosce il patire» (Isaia, 53, 2-3) è per molti una previsione del crocefisso, nell’ora della sua morte; […] per Runenberg, la profezia puntuale non di un momento, ma di tutto l’atroce avvenire, nel tempo e nell’eternità, del Verbo fatto carne. Dio si fece totalmente uomo, ma uomo fino all’infamia, uomo fino alla riprovazione dell’abisso. Per salvarci, avrebbe potuto scegliere qualunque dei destini che ordiscono la complessa rete della storia; avrebbe potuto essere Alessandro o Pitagora o Rurik o Gesù; scelse un destino spregevole: fu Giuda”.
Forse allora non fu la vergogna. Forse furono le ragioni di Giuda a colorare di viola i fiori del suo albero; forse furono le ragioni dell’apostata prezzolato che rese a Dio il suo sacrificio, forse furono quelle del traditore della fiducia che decise di flagellarsi lo spirito più che le carni, oppure quelle del più infimo tra gli uomini, il peggiore, Dio: colui che fu capace della bassezza più profonda perché inquilino del piano più alto della dimora celeste. E forse sono proprio queste ragioni, così nascoste e segrete da diventare nelle tre versioni prima diafane e cristalline, poi pure, infine divine, a dar vita ogni anno, nell’aria pasquale di aprile, alla meraviglia di un altro miracolo segreto.
- Jorge Luis Borges, Storia universale dell’infamia, Adelphi, Milano, 1997.