“Secondo decennio del XXI secolo. Dominano le multinazionali. Il mondo è minacciato da una nuova piaga: NAS, sindrome da attenuazione del sistema nervoso, fatale, epidemica, incurabile.
Le multinazionali sono combattute dai LoTek, un movimento di resistenza nato dalla strada: hacker, ladri di dati, veterani delle guerre informatiche. Per difendersi, le multinazionali ingaggiano la Yakuza, la più potente organizzazione criminale. Racchiudono i loro dati nell’ICE nero, virus letali in grado di bruciare il cervello degli intrusi. Ma i LoTek sono in agguato nelle loro roccaforti, nel cuore delle vecchie città, come topi nelle viscere della terra.
A volte, le informazioni più preziose devono essere affidate a corrieri mnemonici, agenti speciali che fanno contrabbando di dati inserendoli in impianti cerebrali”.
È la sequenza di apertura di Johnny Mnemonic, pellicola del 1995 diretta da Robert Longo e adattata dallo stesso William Gibson a partire dal suo racconto omonimo. Un testo scorrevole che ci riporta inevitabilmente all’adrenalina delle strade notturne di Blade Runner (1982), e dopotutto, come vedremo, non è un caso. Segue il titolo, in caratteri rossi su sfondo nero, che prima trascolorano e poi esplodono in un turbine di neve elettronica, da cui vediamo emergere una delle prime rappresentazioni cinematografiche del cyberspazio, e quella che ancora oggi rimane forse la più fedele all’immaginario di Gibson. Dura meno di mezzo minuto, ma condensa tutto il fascino della scrittura che i lettori hanno imparato ad apprezzare nei suoi racconti e romanzi, quella micidiale miscela di misticismo high tech e arte matematica, in grado di plasmare la metafora di maggior successo del nostro tempo: un universo virtuale di autostrade elettroniche, su cui scorrono pacchetti di dati scambiati tra le architetture informatiche delle multinazionali, degli enti governativi e dei conglomerati militari. Sono le “luci di una città, che si allontanano” così efficacemente descritte in Neuromante (1984), che verranno riprese anche in altre pellicole incentrate sul cyberspazio, dalla coeva Hackers a Tron: Legacy (del 2010), passando ovviamente per Matrix (1999).
Una didascalia in sovrimpressione annuncia che quella che vediamo è Internet nel 2021 e il raccordo con la scena successiva, rappresentato dall’occhio del protagonista che si apre nel mondo fisico il 17 gennaio 2021, al termine di una risalita a folle velocità da un canale che potrebbe essere il link tra la rete e il suo cervello, aggiunge un ulteriore livello metaforico al concetto, trasponendolo in una dimensione onirica che vedremo popolarsi di spettri informatici, di ricordi smarriti e di ideali (come il bene pubblico, la libertà da ogni forma di oppressione o sfruttamento, la condivisione della conoscenza) che nel mondo esterno, sia del film che del nostro presente, rasentano ormai il tabù.
Le premesse di Johnny Mnemonic finiscono purtroppo ben presto disperse in una messa in scena non sempre all’altezza del racconto originale e delle ambizioni sottese al suo sforzo produttivo, ma ancora oggi costituiscono una lente efficace attraverso cui leggere il mondo in cui riapriamo gli occhi ogni mattina.
Tra le ombre di Memory Lane
Facciamo un salto indietro. È il mese di maggio dell’anno 1981, quarant’anni fa esatti, quando Gibson pubblica il suo secondo racconto. Sono trascorsi quasi quattro anni dal suo esordio con Frammenti di una rosa olografica, passato quasi del tutto inosservato dopo essere uscito nel 1977 su Unearth, una rivista dalla vita breve. A ospitare questa sua seconda sortita è la testata che in quel periodo rappresenta forse l’approdo economicamente più vantaggioso per gli scrittori di fantascienza: Omni, eccentrico magazine di scienza, paranormale e fantascienza a cura di Ben Bova, lanciato nel 1978 dall’editore di Penthouse Bob Guccione, con una sezione letteraria affidata al grande Robert Sheckley.
Johnny Mnemonico è il racconto che imporrà Gibson all’attenzione sia del primo embrionale nucleo del movimento cyberpunk, gli scrittori texani Bruce Sterling e Lewis Shiner, sia degli addetti ai lavori, guadagnandosi la nomination per il premio Nebula della sua categoria. Ed è un racconto paradigmatico: la dittatura dei dati, lo strapotere delle multinazionali e del loro braccio armato, la Yakuza, assurta alle dimensioni e al ruolo di una multinazionale essa stessa (“tanto potente da possedere satelliti di comunicazione propri e almeno tre navette spaziali”, Gibson, 1999), la criminalità che piega la tecnologia all’uso che la strada decide di farne (nel film sarà emblematicamente l’impianto neurale per la cura della dislessia a essere convertito da Johnny in uno spazio di archiviazione per dati rubati), le sottoculture urbane proliferate ai margini della società, le città abbandonate a loro stesse in “un esperimento deragliato di darwinismo sociale” (Gibson, 2021), sono tutti ingredienti che distillano un’estetica e prospettano una combinazione di moduli narrativi che saranno poi declinati, nei loro racconti e romanzi, da Gibson e dagli altri autori che si riconosceranno di lì a breve nelle istanze del cyberpunk codificate da Sterling.
È proprio in questo racconto che per la prima volta fa la sua apparizione Molly Millions (che nella traduzione italiana di Delio Zinoni per Mondadori diventa misteriosamente Million), che incontreremo ancora in Neuromante e, sotto il nome di copertura di Sally Shears, anche nell’ultimo capitolo della trilogia dello Sprawl, Monna Lisa Cyberpunk (1988). Molly (“una ragazza magra con occhiali a specchio. I capelli scuri e scomposti”) è la donna samurai della strada che assolve al ruolo di Beatrice dantesca, solo che Gibson le affida una visita guidata dell’inferno: i bassifondi di Nighttown, la Città Oscura di Johnny Mnemonico, rivivranno moltiplicati e ingigantiti in Neuromante, dove saranno prima i sobborghi di Tokyo e poi lo Sprawl nella sua estensione continentale a fare da sfondo ai preparativi di Case per la sua cyber-missione nell’orbita terrestre.
“Il viale è lungo quaranta chilometri, da un’estremità all’altra: un sovrapporsi confuso di cupole di Fuller che coprono quella che un tempo era un’arteria urbana. Se le lampade vengono spente, in una giornata serena, una grigia approssimazione della luce solare filtra attraverso strati di materiale acrilico, in una visione simile alle Prigioni incise da Giovanni Piranesi. Gli ultimi tre chilometri a sud coprono la Città Oscura. La Città Oscura non paga tasse né servizi. Le lampade al neon sono spente, e le cupole geodetiche sono state annerite da decenni di fumo dei fornelli. Nel buio quasi totale del mezzogiorno della Città Oscura, chi si accorge di qualche ragazzino folle perso tra i piloni di sostegno?”
(Gibson, 1999).
È quassù che vivono i Lo Tek, una tribù metropolitana di luddisti che apparentemente hanno rifiutato l’uso della tecnologia, anche se poi molti di loro non si negano alterazioni di chirurgia estetica estrema, come per esempio il trapianto di denti di dobermann. È quassù che Molly conduce Johnny, un corriere mnemonico che trasporta informazioni rubate per conto di un ricettatore dei bassifondi, dopo che quest’ultimo si è accorto di aver fatto la mossa sbagliata con il cliente sbagliato, e ha sguinzagliato dei sicari sulle tracce del suo uomo, prima che la Yakuza possa risalire da lui al suo business e mettere la parola fine al suo giro d’affari (e non solo a quello).
Ritrovatosi braccato, con centinaia di megabyte di dati preziosi infilati nella testa e senza il codice necessario a estrarli, Johnny s’imbatte per puro caso in Molly, proprio mentre lei cerca un nuovo incarico come guardia del corpo, e le offre due milioni di dollari per tirarlo fuori dal guaio in cui si è cacciato, che comprende un killer della Yakuza “fabbricato su ordinazione”, con “il sistema nervoso iperstimolato”, armato di un filamento monomolecolare installato nella protesi del pollice sinistro, con cui si diletta a fare a fette tutto ciò che i suoi committenti gli hanno indicato come bersaglio. E il prossimo bersaglio si trova appunto a essere il povero Johnny. Per sua fortuna, Molly non è da meno: anche lei è potenziata con degli innesti letali, che le guadagneranno in Neuromante l’appellativo di “Rasoio Danzante” tra i rastafariani che spalleggiano lei e Case nell’incursione per conto di Invernomuto nella blindatissima residenza orbitale dei Tessier-Ashpool.
– […] Vedi, anche Molly è stata a Chiba. – E mi fece vedere le mani, allargando leggermente le dita. Erano sottili, appuntite, pallidissime contro le unghie laccate di rosso borgogna. Dieci lame uscirono di scatto dai ricettacoli dietro le unghie, ciascuna un sottile bisturi a doppio taglio, acciaio azzurrino
(Gibson, 1999).
In Neuromante verranno anche obliquamente svelate alcune pagine del suo passato, che rimane comunque avvolto in un’impenetrabile coltre di mistero: a un certo punto confessa al partner una sua precedente vita come “pupazzo di carne” (“meat puppet”) al servizio di un esclusivo bordello di Berlino, con tanto di coinvolgimento nel circuito degli snuff movie che avrebbe motivato i suoi datori di lavoro a impiantarle quelle sofisticatissime protesi e a pagarla abbastanza da permettersi un potenziamento dei riflessi.
Molly non sarà l’unico elemento di Johnny Mnemonico a tornare nel romanzo che avrebbe segnato uno spartiacque nella storia della fantascienza. Ritroveremo infatti un’assonanza anche nelle situazioni e nei toponimi: Nighttown echeggerà in Night City, il quartiere di Chiba, alla periferia di Tokyo, in cui incontreremo Case, lo spiantato cowboy della consolle in fuga dai fantasmi del cyberspazio e della sua carriera bruciata nello Sprawl; dal Pozzo (il “girone più basso” della città, che in realtà “è invertito, e il fondo tocca il cielo, quel cielo che la Città Oscura non vede mai, sudando sotto il suo firmamento di resina acrilica; in alto, dove i Lo Tek si annidano nel buio come grottesche sculture, sigarette del mercato nero tra le labbra” [Gibson, 1999]) si passerà al pozzo gravitazionale su cui galleggiano le isole artificiali dell’Arcipelago, l’habitat spaziale a cui appartiene anche la stazione di Freeside, che “è Las Vegas e i giardini pensili di Babilonia, una Ginevra orbitale e dimora di una famiglia cresciuta attraverso matrimoni tra consanguinei selezionati con estrema cura, il clan industriale dei Tessier e Ashpool” (Gibson, 2021).
Per questo Johnny Mnemonico è una sorta di prova generale, e allo stesso tempo un condensato dell’estetica e delle tematiche che Gibson dispiegherà con efficacia assoluta nella sua opera più ambiziosa e riuscita.
Coming at you, LoTek style
All’inizio degli anni Novanta, Gibson stesso si mise al lavoro su un adattamento della storia con l’intento di portarla al cinema. Nelle intenzioni di Longo, il videomaker e artista newyorkese che lo spinse a lavorarci, il copione avrebbe dovuto diventare un film d’essai in bianco e nero dal costo di un milione e mezzo di euro. Il finanziamento si rivelò però un’impresa ardua: come ricordato più volte dal regista, non stavano pensando abbastanza in grande. Reperire ventisei milioni di dollari si rivelò paradossalmente molto più facile, ma da quando il budget fu messo insieme per interessamento della TriStar, le cose cominciarono a precipitare. Gibson ricostruì la genesi della produzione in un articolo pubblicato da Wired con insolito tempismo, in contemporanea con la release della pellicola nel maggio 1995 (cfr. Gibson, 2001). Ma è nelle interviste rilasciate da Longo più di vent’anni più tardi che emergono cristalline tutte le ragioni della frustrazione che già era possibile cogliere tra quelle righe.
Senza addentrarci in tutti i più minuziosi dettagli, basti ricordare che Keanu Reeves fu scritturato dopo l’abbandono di Val Kilmer, originariamente scelto per la parte. Poco dopo, la precedente pellicola di Reeves, Speed di Jan de Bont, si trasformò nella rivelazione dell’estate 1994, riuscendo a decuplicare al botteghino i trenta milioni di dollari che era costato, il che suggerì alla produzione l’idea che Johnny Mnemonic avrebbe potuto replicarne il successo ai botteghini estivi del 1995. Questo ridusse progressivamente i margini di manovra di Longo, che già cominciava a trovare la sua creatività imbrigliata nei rigidi vincoli dell’industria cinematografica.
I produttori imposero dei reshoot per rendere meno cupo il tono originale del film, introdussero in corso d’opera un nuovo personaggio per poter aggregare al cast anche Dolph Lundgren e rendere la pellicola appetibile per i mercati orientali, e alla fine praticarono dei tagli con l’accetta nel montaggio, eliminando alcune scene che avrebbero potuto rappresentare degli impedimenti in fase di distribuzione. Fu così che Jones, il delfino cyborg, perse quella dipendenza dall’eroina che gli era stata procurata dai suoi trascorsi al servizio della Marina (come già descritto nel racconto), e diventò poco più di una macchietta, come d’altro canto succede al personaggio di Lundgren, un corpo estraneo per tutto il film, che si materializza praticamente dal nulla a ridosso dell’intervallo e fa la sua comparsa in momenti del tutto casuali nella rimanente metà della pellicola, blaterando battute senza senso e senza mai davvero interagire con la storia degli altri personaggi.
Uno dei subplot più interessanti, che forse avrebbe meritato anche una integrazione maggiore con il tema narrativo principale del bottino di dati da portare a destinazione prima di rimetterci la sanità mentale, rimane purtroppo quasi totalmente inespresso. Parliamo della graduale riemersione dei ricordi d’infanzia di Johnny, che si legano anche al problema della definizione dell’identità che accompagna il personaggio di Molly nella trilogia di Gibson, e che insieme alle sequenze ambientate nel cyberspazio costituisce una delle parti meglio riuscite di tutto il film anche sotto il profilo della regia e della fotografia. Che senza le ingerenze dei produttori Johnny Mnemonic sarebbe riuscito migliore, rimane una supposizione opinabile.
Forse presagendo l’impossibilità di una trasposizione cinematografica dei suoi romanzi maggiori, Gibson finisce per infilare nella storia tutta una serie di altri elementi estranei alla storia originale: come la personalità caricata nella rete che si manifesta come uno spettro cibernetico (che sembra riprendere l’arco narrativo che segue Angie Mitchell in Giù nel cyberspazio [1986] e Monna Lisa Cyberpunk) o il Paradiso, il quartier generale dei LoTek, preso di peso dalla Trilogia del Ponte. Quello che vediamo del montaggio finito (che impose comunque tagli per circa mezz’ora rispetto al montaggio di Longo, mantenuto con una certa approssimazione nella distribuzione giapponese del film) è comunque un pastrocchio in cui attori fuori parte recitano con scarsa convinzione battute che non suonano mai davvero efficaci o almeno appropriate alle situazioni in cui si trovano, aggirandosi senza senso su set male allestiti e completati da fondali senza alcuna profondità, che non hanno nemmeno una lontana somiglianza con la vivida resa delle strade notturne di Blade Runner o di 1997: Fuga da New York, le pellicole che nello spirito più si avvicinano a quello che avrebbe potuto e dovuto essere Johnny Mnemonic. Sia Keanu Reeves che Takeshi Kitano falliscono poi nel tentativo di elevare il tono della pellicola. L’impossibilità di sfruttare a fondo le potenzialità della co-protagonista (non avendo la produzione il controllo sul personaggio di Molly, che era stato acquistato con i diritti di Neuromante da uno studio concorrente, al punto da doverla ribattezzare Jane nell’interpretazione di Dina Meyer) completa il disastro.
Interferenze quantistiche
Eppure qualcosa di buono rimane, e quello che c’è di buono in Johnny Mnemonic entra pericolosamente in risonanza con il nostro presente. Pensiamo alla NAS, il “tremore nero”, la pandemia da sovraccarico informativo che nel film si suggerisce sia causata dall’eccessiva esposizione alla tecnologia: le scene con i malati accuditi in ospedali da campo da medici volontari rievocano le ferite ancora aperte delle fasi più acute della pandemia da COVID-19 (e all’inizio del film, in una scena ambientata a Pechino, si vede perfino una folla con indosso delle mascherine, sebbene nelle intenzioni degli autori ci fosse più probabilmente il rimando all’uso già popolare nel Giappone di quegli anni contro l’inquinamento delle città); ma allo stesso tempo la natura del contagio sembra prefigurare con ineguagliata capacità anticipatrice il fenomeno infodemico legato alla circolazione indiscriminata di fake news e dati fuorvianti, che è alla base di ogni più recente teoria del complotto di successo. I dati che Johnny trasporta racchiudono la cura per la sindrome, sottratti da un gruppo di ricercatori ribelli alla PharmaKom, uno dei megaconglomerati che dominano il settore farmaceutico, e anche questo chiude cortocircuiti a cascata con temi di attualità come il diritto alla cura, le battaglie sui brevetti e l’egemonia delle case farmaceutiche.
Il lascito di Johnny Mnemonic si ritrova inoltre in film anche molto distanti per ispirazione e background: pensiamo per esempio ai finali di Fuga da Los Angeles (il remake californiano del capolavoro di John Carpenter) e di Fight Club di David Fincher (1999), che citano esplicitamente due diversi momenti del finale della pellicola di Longo.
Nel 1995, a metà del decennio che avrebbe gettato le basi per il nostro presente, Johnny Mnemonic inaugurò una breve e irripetibile stagione di sguardi nel futuro del nostro mondo plasmato dalla tecnologia: tra luglio e settembre arrivarono nelle sale The Net di Irwin Winkler (con Sandra Bullock), Virtuality di Brett Leonard (già regista del Tagliaerbe, qui alle prese con un thriller interpretato da Denzel Washington e Russell Crowe) e Hackers di Iain Softley (con Angelina Jolie, divenuto col tempo un piccolo cult). Il cinema cyber avrebbe toccato il suo culmine sul finire dell’anno con quella che a oggi rimane la migliore rappresentazione del decennio, e una delle pietre miliari del cinema di fantascienza tout-court: quello Strange Days di Kathryn Bigelow, scritto da James Cameron e Jay Cocks e interpretato da Ralph Fiennes e Angela Bassett, che forse meglio di tutti avrebbe saputo cogliere l’essenza del cyberpunk di William Gibson.
Alla fine del decennio sarebbe poi arrivato Matrix delle sorelle Lana e Lilly Wachowski: Keanu Reeves avrebbe messo a frutto i suoi trascorsi cyberpunk sui set di Toronto, il cyberpunk avrebbe raggiunto una diffusione globale e il cinema sarebbe entrato in una dimensione del tutto nuova, per estetica e tecnologie. Gibson avrebbe ricevuto un servizio migliore nel 1998 da Abel Ferrara con il suo New Rose Hotel, una produzione indipendente che avrebbe dovuto essere originariamente diretta proprio da Bigelow, ma che finì comunque per scontentare gran parte dei fan. Ma queste sono altre storie, o forse no, sono solo altri capitoli della lunga storia del cyberpunk che continuiamo a scrivere ancora adesso.
- Dan Duddy, Keanu Reeves’ ‘Johnny Mnemonic’, The Movie Everyone Crapped On, Was Actually Right, Cracked, 9 gennaio 2021.
- William Gibson, Monna Lisa Cyberpunk, Mondadori, Milano, 1997.
- William Gibson, Neuromante, in AA.VV., Cyberpunk. Antologia assoluta, Mondadori, Milano, 2021.
- William Gibson, Appunti di lavorazione, in William Gibson e Bruce Sterling, Parco giochi con pena di morte, Mondadori, Milano, 2001.
- Jordan Riefe, Director Robert Longo Ruefully Recalls ‘Johnny Mnemonic’: “I Had Post-Traumatic Stress From That Movie”, Hollywood Reporter, 18 maggio 2016.
- Matt Singer, How ‘Johnny Mnemonic’ Predicted the World of Internet 2021, Screen Crush, 5 gennaio 2021.
- Richard Trenholm, When Hollywood got into the internet, we got the most ‘90s movies ever, CNET.com, 15 settembre 2020.
- Kathryn Bigelow, Strange Days, 20th Fox, 2002 (home video).
- John Carpenter, 1997: Fuga da New York, Eagle Pictures, 2020 2002 (home video).
- David Fincher, Fight Club, 20th Century Fox – Disney, 2013 (home video).
- Ridley Scott, Blade Runner – The Final Cut, Warner Bros, 2015 (home video).
- Wachowskis, Matrix Trilogy, Warner Bros, 2016 (home video).