“Con l’amore materno la vita ci fa all’alba una promessa che non manterrà mai. In seguito si è costretti a mangiare gli avanzi, fino alla fine”
(Gary, 2006).
Trova spazio in questo limite di parole la disperata fragilità e la risoluta potenza della relazione che ciascun figlio intesse con la propria madre. In tempi in cui il dibattito sulla maternità è vivace e vulnerabile, tempi in cui ciascuno suppone l’esattezza di una propria definizione di maternità, in cui si scollano e si riallacciano opinioni su legami inappellabili, è stato pubblicato, nella traduzione di Lorenza Di Lella e Francesca Scala, Giorno di vacanza di Inès Cagnati. Si tratta del primo romanzo dell’autrice (Le Jour de congé, pubblicato nel 1973), di cui avevamo già conosciuto lo scorso anno la traduzione italiana di Génie la matta, entrambe le opere pubblicate da Adelphi, entrambe imperniate proprio sulla irrevocabile e disperata relazione madre-figli. L’autrice, scomparsa nel 2007, intreccia nella filigrana dei suoi romanzi sacrifici, stenti, smarrimenti, segreti, distanze, soprattutto, solitudine. Lei stessa, in un’intervista delicatissima a firma della scrittrice Laurence Paton e a mo’ di postfazione di Génie la matta, racconta dell’infanzia come luogo dello sguardo perduto. Figlia di immigrati veneti nella Francia rurale, Cagnati si è sentita recisa da un’origine, da un’accoglienza, da un’accettazione. Diversa, perché immigrata. Diversa, perché povera. Diversa, perché costretta alla palude, quella da cui i francesi si erano prontamente allontanati dopo la Guerra. Questa crepa muta assedierà per tutta una vita la scrittrice, al punto da essere il precipizio a cui si affacciano le sue narrazioni colme di battaglie.
Giorno di vacanza è un romanzo che si snoda attraverso l’attesa, di una vacanza per l’appunto. Viceversa, si è trascinati tra sterpaglie, sassi e pozzanghere ad aspettare a ogni giro di pagina la vacanza promessa, che mai arriva, di una bambina, Galla, tornata a casa senza preavviso e in un giorno tanto sperato. Sono trentacinque i chilometri a pedalate serrate che la sua bicicletta malconcia le accorda, pur di sfuggire per un fine settimana a quel liceo da Galla scelto e voluto, ma implacabilmente severo verso di lei, così diversa da tutte. Nel suo cuore escoriato da tanti graffi echeggia un unico ritmo di gambe e pedali, scandito dall’affanno di tornare dalla mamma e di rendere un giorno qualsiasi un giorno di vacanza, la “promessa dell’alba”. Ma qualcosa tradisce molto presto ogni progetto di felicità. Il ritorno è rabbuiato da un padre più feroce del dovuto, dall’interdizione a entrare in casa, da una notte nebbiosa e senza luna, trascorsa sotto la tettoia del fienile con la sola compagnia della cagnolina Daisy. E, poi, la percezione della verità. La casa veglia una madre senza più voce, senza più abbracci, senza più respiro. Una madre Galla non ce l’ha più. È costretta alla verità proprio in quel giorno di vacanza che si rivela impietosamente per lei vacatio di madre.
“Con la mia testimonianza volevo rendere meno assurde certe vite fatte soltanto di miseria”
(Cagnati, 2022).
Da tale prospettiva, innegabilmente autobiografica, prende forma la narrazione della scrittrice italo-francese, narrazione puntellata a molte evocazioni suggestive, atroci, travolgenti. Tutto in Giorno di vacanza fa appello all’allusività, a una voce soffocata e sotto traccia, a cominciare da quella della madre, viva solo attraverso la sua taciuta assenza e il ricordo impavido della piccola Galla.
“Mia madre non voleva che andassi al liceo. No. Voleva che rimanessi accanto a lei. Le ho spiegato che sarei tornata presto, che avrei guadagnato un sacco di soldi e che finalmente ci saremmo potuti comprare la terra buona, una terra senza sassi, dove il grano e le vigne sarebbero cresciuti fino al cielo”.
Così, lei, la preferita tra le detestabili sorelle, prova a tener fede a una promessa, quella di sparigliare il destino della palude, da sola e per tutti, ma soprattutto per sua madre, colei che aspetterà Galla quindici giorni e quindici notti al mese in cambio di un unico giorno di vacanza. Ma stavolta, in quel giorno, nessuno esce sulla porta all’arrivo della ragazzina, nessuno la avvolge con l’esclamazione “Galla! La mia Galla!” o con il sapore del consueto vin brulé alla cannella, a cui l’aveva abituata l’accoglienza di madre. Il silenzio degli affetti, per l’appunto, sconvolge le attese e solo il mugolio della cagnetta Daisy e la festa dei suoi saltelli testimoniano vita in quel posto vago di ombre e umidità. In fondo all’anima della protagonista un tonfo. Suona reale un’angoscia ricorrente, quella che in sua assenza qualcosa di terrificante possa verificarsi. Quasi che lei, piccola ma caparbia, abbia tra le mani il potere di arginare dolori e sciagure a difesa di una mamma sempre in lacrime. La sensazione di uno strappo la lacera più forte del dovuto.
“Non ho memoria dell’epoca in cui credevo di essere parte della mamma, e ricordo il giorno in cui ho capito che lei e io eravamo due persone distinte, e da allora il mondo non è stato più lo stesso. Mai più”.
L’analisi della Cagnati è tagliente ma rigorosa. In una relazione tra madre e figlio c’è qualcosa di assolutamente imperdonabile da ambo le parti, quella frattura imprevista che di uno fa due. Avviene per tutti in maniera necessaria ma terribilmente inaccettabile. E, però, quello che la scrittrice sembra volerci dire è la sofferenza inguaribile di chi, dopo una tale separazione, non riconoscerà più di sé un’immagine unitaria, per via di troppo amore materno o di troppo poco. In seguito alla prima separazione, qualcuno temerà tutte quelle a venire, ne presentirà la minaccia in ogni altro legame, sospetterà che una sofferenza così inaccettabile possa moltiplicarsi in mille sue repliche, più dure, più sanguinanti, più spaventose. In tal caso, la salvezza equivarrà alla dannazione: la madre sarà il solo ritorno possibile alla vita e la sola prova tangibile della sua precarietà. È il tema fondamentale tanto di Giorno di vacanza quanto di Génie la matta. Da qui ne consegue quel senso di tormento che sovrasta il lettore, tra monologhi tenebrosi e luoghi spogli a fare da correlativo oggettivo a emozioni impronunciabili.
“[…] a furia di vivere in questa terra d’acqua senza incontrare mai nessuno, penso che uno non sappia più com’è la vita altrove e nemmeno se altrove vivano persone e città”.
Tra acque melmose, fiori inconsueti, uccelli senza colori e dagli striduli lamenti, pioggia e foschia notturne e diurne, Galla impara a sognare regioni dal “sole selvaggio”, dove presagire l’affacciarsi di un domani, dove sentirsi belli perché intorno tutto è bello, dove spogliarsi della solitudine perché la luce rende tutto meno impreciso, meno provvisorio, meno inconoscibile. Viceversa, le facce di un mondo estraneo a sé, dopo la separazione dalla sola persona che era parte di sé, la mamma, incombono tutte minacciose intorno alla piccola Galla. Una per tutte, il padre. Uomo selvaggio nei tratti e nei toni, spietato nella sua furia contro i cani e i pulcini a cui riserva cappi, calci e urla, impietoso in quel “vattene!” strozzato con cui vieta a Galla l’accesso in casa nel giorno del dolore, gravato dal suo stesso rancore verso il mondo, riversato sulle figlie incolpevoli.
“Quando ero piccola e certe cose succedevano spesso, mi auguravo che, una sera, mio padre non tornasse. […] È sempre tornato. Io però ho sognato spesso la casa senza grida, senza paura, la casa tranquilla”.
Ma nella stessa scuola in cui Galla aveva riposto fiducia, l’emarginazione si sostituisce all’emancipazione. Già solo il suo grembiule verde, recuperato dall’abito estivo della zia scomparsa, marca la distanza dalle canoniche divise a quadri rosa. D’altro canto, quel simbolo di estraneità sa farsi compagno fidato di sventure e rimproveri, presenza affidabile mentre tutti vanno, velo sulle umiliazioni immeritate, corazza contro l’odio vicino. A partire da quello degli insegnanti che le assegnano “un compito cretino per una cretina”. Eppure, qualcosa dell’amore resta. È la maestra, “non quella cattiva”, che insiste perché Galla vada al liceo, misurandosi con la renitenza dei genitori, con le stringenti necessità degli stenti, con una burocrazia che non prevede l’indigenza. È la bicicletta contro il muro scalcinato del fienile, la sola possibilità di oltrepassare la barriera della povertà pedalando fino al liceo tra melma e nebbia, mentre la ruggine ne corrode gli ingranaggi, le ruote girano instabili, il fango la sovraccarica. È Daisy, la cagnetta di casa, disposta a fare posto a Galla nella paglia del fienile durante quella notte allucinata, a tenerla al caldo nell’incavo della sua pancia, a usarle le attenzioni riservate al suo cucciolo, come solo una buona madre.
Resta dell’amore la cantilena di formule che si intrecciano tra le riflessioni della protagonista. Quel suo ritenersi insopportabile a sé stessa prima che agli altri, quel suo detestare la vita e la palude, quel suo ammettere un cuore matto e debole, eppure ripetersi a lungo nella testa la possibilità di “paesi dal sole selvaggio”, dove conoscere il bello e le sue forme. Cagnati riesce ancora una volta con questo romanzo a raccontarci di un disagio di tutti, quello di sentirsi per sempre metà di qualcosa che non c’è, fosse essa una propria madre, un proprio riconoscimento, un proprio tempo, un proprio coraggio. Qualcosa finisce per essere sfuggente in questi romanzi, confinato nello spazio dell’esclusione, inafferrabile per sempre. La forza della scrittura di Cagnati trova posto in questo paradosso, nel nostro essere quello che manca e nel proiettarlo su quanto resta, su quanto regge il peso delle nostre necessità, anche solo una bici in cerca di centro. La scrittrice, di questa privazione, riesce a identificarne gli spettri senza troppi dettagli, inquadrature, contingenze. La scena è scarna come la vita dei protagonisti. L’incompletezza non è prossima ma intima. Tuttavia resiste la pazienza della parola, in grado di proiettarci tra boschi di acacie, ciclamini selvatici e il candore dell’alba, mentre dentro la parte mancante, soprattutto il dono di una madre, ci investe con la sua lontananza. Resiste questa pazienza della parola, che ha reso una bambina insicura, figlia di contadini immigrati, la straordinaria Inès Cagnati.
- Romain Gary, La promessa dell’alba, Neri Pozza, Milano 2006.
- Inès Cagnati, Génie la matta, Adelphi, Milano, 2022.