Un prete, un vampiro e un assassino entrano in bar di New Orleans alla ricerca di Dio.
Sembrerebbe l’inizio di una barzelletta sporca e da risata sguaiata, invece è l’inizio della seconda stagione di Preacher. Succoso e divertente prodotto AMC, la serie è un adattamento dell’omonimo fumetto nato dalla mente dello scrittore britannico Garth Ennis e dalla mano dell’inglese Steve Dillon e pubblicata dalla DC Comics sotto l’etichetta Vertigo, quella per i bimbi grandi per intenderci.
Preacher fumetto esce nel 1995 e continua la sua sempre più fortunata vita fino alla chiusura della storia nel 2000 con quota settantacinque albi (sessantasei regolari, cinque speciali e una mini-serie), un gran numero di fan e promesse e richieste di trasformare la mastodontica serie in un prodotto audiovisivo. Per la messa in onda ci sono voluto sedici anni, due produttori dissacranti e pazzi come Seth Rogen e Evan Golberg (sceneggiatori prima della serie Da Ali G show e poi artefici di commedie di successo quali Suxband – Tre menti sopra il pelo, il cui titolo in inglese ha più dignità, Molto incinta e The Green Hornet) e qualche rimaneggiamento della storia.
In breve: Jesse Custer è un predicatore dedito all’alcool e ai dubbi morali con un passato da criminale che riceve “in dono” il potere di controllare chiunque abbia un’anima e sia in ascolto. Il dono è Genesis: una creatura senza corpo, nata da un rapporto innaturale e ribelle tra un angelo e un demone, che dopo aver letteralmente fatto esplodere diversi altri predicatori perché troppo potente, trova finalmente in Jesse un guscio abbastanza forte da poterlo contenere e ospitare. Genesis non è soltanto un’arma, ma è l’arma che trasforma Jesse nell’essere vivente più potente mai esistito, poiché la “creatura” racchiude dentro di sé sia il Bene assoluto che il Male assoluto, tanto da spaventare il Paradiso intero e far scappare Dio.
“Da grandi poteri derivano grandi responsabilità” diceva il nonno di Peter Parker, se poi i grandi poteri è il potere dei poteri, ossia il controllare chiunque e la qualunque, si capisce che le responsabilità sono immense, soprattutto se Dio non si trova più. Così, Jesse, accompagnato dal vampiro Cassidy e dalla sua ex ragazza (ma poi di nuovo ragazza ufficiale) Tulip partono in un vero e proprio on the road alla ricerca del Santissimo Signore, scontrandosi con un killer dal nome evocativo come Il Santo degli Assassini, organizzazioni mondiali per la salvaguardia dei discendenti di Cristo, angeli caduti e passati ingombranti e ancor più pericolosi del divino.
Per apprezzare appieno Preacher fumetto bisogna essere pronti e duri di stomaco: lo humor è dark e violento, le tematiche religiose sono trattate alla pari delle leggende con grosse pennellate di blasfemia per chi ci crede, tutto è cattivo, sporco, infido, tutti nascondono un segreto e spesso il segreto era meglio lasciarlo segreto, i disegni sono sanguigni, duri, realistici, splatter e forti. Ennis è conosciuto e riconosciuto per la sua violenza narrativa, per il suo gusto nel provocare e nel dissacrare: basti pensare che dopo Preacher esce in America nel 2006 The Boys e i supereroi non saranno mai più gli stessi. Sembra quasi che Ennis goda nello scardinare i fondamenti dell’Occidente e del Credere: la Chiesa prima e il Supereroe dopo vengono presi, scandagliati, sminuzzati, lacerati, ne vengono estratte le interiora marce e puzzolenti. L’ultimo discendente di Gesù, avuto dalla Maddalena, è un ebete figlio di rapporti incestuosi che urina in faccia alla gente, il Patriota (il dopplegänger di Superman nell’Universo The Boys) è un impostore, un supereroe arrogante e pericoloso, che stupra, uccide e mente per continuare a essere considerato il migliore al mondo. Ennis prende tutto quello che è stato sempre elevato a guida morale e autorevole e lo scaraventa giù dal piedistallo, lo butta nel fango e nella sozzura del mondo per mostrarci come anche quello possa essere umano, se non più bestiale. I suoi protagonisti invece sono sconfitti, un prete ubriacone, un vampiro amante delle droghe e un’assassina innamorata, eppure sono più misericordiosi, puri e onesti di chi invece dovrebbe essere d’esempio.
Dalla striscia al piccolo schermo
E la serie tv, invece? Riesce a essere così cattiva come il fumetto? Riesce a donare spazio alla rabbia e al disincanto? La serie televisiva di Preacher è un ottimo prodotto, probabilmente non abbastanza da entrare nel Pantheon della serialità, ma si fa vedere con gusto, anzi con sommo gusto: la prima stagione procede lenta nella presentazione dei personaggi e delle diverse, e ovvie, psicologie, al contrario la seconda si arricchisce di azione e di quello spirito avventuriero che non guasta mai del racconto on the road. La ricerca di Dio è lo stesso motivo del fumetto, eppure la serie sembra indossare i guanti di velluto e andare più leggera e cauta, sebbene Rogen e Golberg non siano proprio degli agnellini.
Ci sono comunque delle scene forti, dell’irriverenza mordace e maligna, dell’ironia blasfema e cattiva, ma di sicuro non con la portata debordante del cartaceo. Gli autori televisivi si prendono qualche libertà: uno dei personaggi, chiamato Arseface viene ritratto come un bravo ragazzo che dopo non esser riuscito a salvare la ragazza di cui era innamorato tenta di spararsi con lo stesso fucile, mentre fuori la madre della giovane tenta di sfondare la porta. Nel fumetto invece Arseface è come viene definito testualmente “un povero coglione”, un ragazzo che vuole emulare Kurt Cobain e si spara in bocca e trasformandosi il volto in un cratere di carne grinzosa. Non c’è nulla di eroico o romantico. Suo padre è un fascista che assomiglia al Capitano Hartmann di kubrickiana filmografia, non un blando sceriffo ciccione dall’aria triste e dai divoranti sensi di colpa, così come si vede nella serie.
Arseface e suo padre sono solo un esempio, se ne potrebbero fare altri, ma servirebbero a poco.
Lo stesso Rogen in un’intervista afferma che “molte delle fondamenta sono le stesse, stiamo tenendo tanti personaggi, ma vogliamo realizzare una serie che non sia prevedibile anche per i fan del fumetto. Non ci interessa un adattamento letterale, pagina per pagina. Sarebbe un processo creativo noioso. Su alcune cose concorderà anche Garth Ennis e ammetterà che non dobbiamo inserire certe cose in televisione”.
Andare a spulciare il fumetto e confrontarlo con la serie televisiva è un’operazione legittima, come lo è commentare ripetutamente che Game of Thrones non segue più i libri di George R. R. Martin, o Gomorra non c’entra niente con il libro. Affermare che le serie snaturano spesso e volentieri un libro è consentito, controbattere che invece ne arricchiscono avvenimenti e personaggi anche. Ci sarà sempre qualcuno fedele all’originale, o meglio alla matrice, e qualcuno che invece esalta la trasposizione e la cross-medialità. La domanda che però sorge spontanea è: dove finisce l’autorevolezza dell’autore? In una trasposizione, talvolta violenta, l’anima dell’autore rimane intatta?
Spesso e volentieri gli scrittori si discostano dalle versioni cinematografiche delle loro opere (Stephen King non ha mai apprezzato la trasposizione di Kubrick del suo capolavoro Shining, eppure nessuno metterebbe in dubbio la qualità del film), altre volte non possono che ritenersi soddisfatti della riuscita della trasformazione (sempre Stephen King sul nuovo It afferma su RollingStone: “avevo delle speranze, ma non ero comunque pronto a vedere qualcosa di così buono”).
Rischi e opportunità nel cambio del medium
Una trasposizione è sempre un gioco d’azzardo, ma l’azzardo è sempre piaciuto alla televisione e al cinema e spesso ha dato ottimi risultati. Non c’è nulla di nuovo sotto il sole, a quanto pare, ma ci sono nuovi modi per raccontarlo. La serialità televisiva riesce a rispondere spesso a quella domanda che così sovente solletica il palato degli assidui lettori: a volte in modo equilibrato e aspettato, altre volte in maniera originale e inattesa. Talvolta sformando qualcosa che non ci si aspettava proprio.
Le trasposizioni sono come le traduzioni: necessarie, dolorose, non sincere, esplicative. E l’autore che rimaneggia le storie per tv o cinema è come un traduttore: interpreta, scansiona, imbastardisce, semplifica, complica, reinterpreta e reimpasta. Trasporre è come vendere l’anima al diavolo, come un patto luciferino per il successo a cui però si è costretti rinunciando a parte della propria anima. Pare essere scritto in cremisi “tutti vedranno la tua discendenza, ma non sarai più il padre di tuo figlio”. Giochi di parole, battute, esagerazioni, rimandi e strizzatine d’occhio, cultura pop e social, modi di dire, imprechi, parolacce, accenti, prese in giro, filastrocche, canzoni, poesie, ballate, ritmi, pause, silenzi, tutto viene tradotto, passato alla lente di un’altra persona e riscritta. Tutti conosceranno il nome dell’autore padre, nessuno quello del patrigno, eppure chi ha cresciuto, sfamato e dato una casa sarà quest’ultimo. E l’autore potrà ancora sentirsi autore? “Da un’idea di…”, “Soggetto di…”, “Tratto da…” sono solo parole o l’autore e il suo lampo di creatività iniziale da cui tutto è scaturito contano ancora? Sì, no, forse, boh, chissà, probabilmente. Se “tradurre è tradire”, trasporre allora cosa è?
Di nuovo, qualcosa che a volte non ci si aspettava proprio. Preacher è fumetto ed è anche serie televisiva. L’una non esclude l’altra, l’una non oscura l’altra, anzi si potrebbe dire che una è il trampolino di lancio per l’altra: per tuffarsi tra le pagine inchiostrate e dal profumo di petrolio o per tuffarsi sul divano con il telecomando in mano. Più che un fastidio, cercare le differenze, potrebbe essere un gioco, un divertissement da reminiscenze d’estate e parole crociate. Più divertente di sicuro che criticare
- Andrea Antonazzo, Preacher, la serie tv: la fedeltà del tradimento, FumettoLogica, 24 maggio 2016.
- Stefano Dell’Unto, Preacher: Seth Rogen spiega la differenza tra serie tv e fumetto, MangaForever, 8 ottobre 2015.
- Garth Ennis, Steve Dillon, Preacher, Vertigo (DC Comics), 2000.