Nevada. Piena apocalisse zombie. Siete nel deserto. Le tasche e i sedili della vostra auto sono pieni di cocaina e voi siete vestiti come se aveste cercato le offerte speciali in un magazzino di roba usata. Vi fermate un attimo per ammirare il paesaggio ed eccolo lì, uno zombie che avanza. Avete un telefono, una pistola, sareste in grado di sistemare rapidamente la cosa. Qualcosa, invece, va storto, e vi ritrovate a piedi, sotto il caldo, con qualche bottiglia d’acqua e un non morto che vi insegue. Sempre, senza sosta, non sentendo mai il bisogno di dormire o di fermarsi.
Inizia così Deserto rosso sangue (It Stains the Sands Red, il titolo originale) di Colin Miniham, che Koch Media distribuisce nel mercato home video italiano tramite la sua etichetta Midnight Factory, corredato di booklet nella confezione e di sezione extra composta da trailer, dieci minuti di making of e tre di clip Sul set.
Tornando al film, si tratta di un lavoro sulla carta interessantissimo ma, per molti aspetti, una vera occasione mancata. L’idea di base, infatti, seppur non originalissima, si presenta molto bene: una ragazza che deve fuggire da un lento e famelico zombie nel deserto. Lo distanzia facilmente, lo deride, lo sbeffeggia, ma lei ogni tanto ha bisogno di dormire, di bere, di proteggersi dal sole. Lo zombie no. Cammina inesorabile.
È un poco come quelle offerte telefoniche che partono da piccoli centri della Puglia o del Veneto: se bloccate un numero, mettiamo di Taranto, ecco che la volta dopo vi chiamano da Cittadella, o da Rovigo. Non si arresta mai. Vuole la carne della ragazza e non ha fretta, sa che alla fine l’acqua finirà o lei si distrarrà quel tanto che basta per morderla.
C’è da dire che pure Molly, la protagonista, lo facilita abbastanza nel suo compito: si siede nel mezzo del nulla per fare un fuoco e gli dà le spalle, si ferma mentre lui la sta per agguantare, consuma molta cocaina che la rende meno lucida e reattiva al suo inseguitore. Ma, sempre, alla fine, riesce a distanziarlo quel tanto che basta per sopravvivere. La ragazza fra un flashback sul suo passato e un continuo ricercare spazi dove dormire senza essere assaliti, si porterà quindi dietro per chilometri il suo inseguitore, creando nel tempo un rapporto di odio e amore con l’unico essere vivente al suo fianco, seppur consapevole di essere in un rapporto di preda e cacciatore.
Minham racconta a suo modo un classico (e frequente) incubo del nostro immaginario: l’idea di un destino avverso, inevitabile, che può essere solamente ritardato o rimandato ma non eluso. Il film, fino a qui, con qualche sbavatura, reggerebbe.
Verrebbe semmai da solidarizzare con lo zombie, creatura pura alla ricerca di un poco di carne umana rispetto che con una cocainomane mal vestita. Come in altri film si spera che il bambino rompiscatole finisca fra le grinfie del mostro dell’armadio, qui si parteggia, almeno apertamente, per una creatura orrenda ma onesta, basica nelle sue reazioni, ben lontana dall’artificiosità e negatività della protagonista femminile. Si finisce a pensare che in qualsiasi modo la protagonista morirà, sarà stato sempre troppo tardi rispetto a quanto avremmo desiderato. E che se si fosse limitata a correre per il deserto urlando ci sarebbe stata decisamente più simpatica.
Il problema è il dopo. Una improbabile storia d’amore e mille vicende narrative renderanno il finale eccessivamente carico e confuso, troppo pretenzioso per un film horror evidentemente non costruito per reggere il peso di più livelli narrativi e di una eccedente complessità di plot.
Deserto rosso sangue funzionerebbe molto meglio se fosse più asciutto, snello, impegnato a descrivere un unico focus; si perde, invece, nel tentativo di legittimare la sua storia, di far vedere che un film sugli zombie può essere intenso, profondo, poliforme. La grandezza di Romero è sempre stata quella di lavorare su idee efficaci ma semplici, innovando un genere senza stravolgerlo. Qui Minham predispone, con eccessiva hìbrys, una trama davvero complessa da dirigere, che inevitabilmente perde in scorrevolezza e lascia molti buchi, se non addirittura dei solchi profondi, nel racconto degli eventi. Troppi rimangono i se, i ma, i “ma perché?” nelle scelte della protagonista, e non si capiscono nemmeno alcuni dettagli più macabri, o palesemente trash, inseriti nella storia.
Quello che potrebbe essere un onesto e semplice film di zombie, con una idea divertente di base, finisce per appesantirsi di significati che non sa sviluppare o gestire: come un cuoco specializzato in frittate che decide di dedicarsi al sushi per dimostrare di essere alla moda, o un pittore che dopo anni di nature morte si dà all’astrattismo.
Così come il corpo di uno zombie si deteriora giorno dopo giorno, andando in putrescenza, così film come Deserto rosso sangue appesantiscono il genere, rendendolo sempre meno efficace e opportuno. Anche la semplice maniera, che salverebbe dall’auto-sabotaggio, viene respinta a favore di uno sviluppo narrativo più complesso, che però, come la pelle di un non morto, perde pezzi in maniera lenta e inesorabile.
Il mondo, dopo una apocalisse zombie, ha bisogno di ritrovare le sue paure e istinti primordiali. Non una infinita digressione sui rapporti umani e il loro sviluppo. E di una protagonista, Molly in questo caso, che di eroina abbia solo il titolo e non le tasche e le narici piene.