“Ai suoi inizi l’invenzione è un’imitazione del fenomeno naturale”, scrivevano nel 1960 Louis Pauwels e Jacques Bergier nel controverso e influente testo Il mattino dei maghi, che metteva in luce il pensiero magico dietro la nuova rivoluzione scientifica. “La macchina volante rassomiglia all’uccello, l’automa all’uomo. Ora, la somiglianza con l’oggetto, con l’essere o il fenomeno di cui si vogliono captare i poteri, è quasi sempre inutile, ossia dannosa al buon funzionamento dell’apparecchio inventato. Ma, come il mago, l’inventore attinge dalla somiglianza una potenza, un piacere che lo fanno andare avanti” (Pauwels, Bergier, 1997). Potrebbe iniziare così una contro-storia dell’intelligenza artificiale volta a mettere in luce l’inconscio che ha spinto la nostra civiltà a perseguire il sogno di realizzare macchine intelligenti.
Una contro-storia simile a quella – quasi sfociante nell’ucronia – che Giuseppe Lippi tratteggiò anni fa nella sua introduzione al romanzo di Isaac Asimov Abissi d’acciaio. In questa storia, Asimov è l’autore di tre fortunate raccolte di storie di fantascienza, intitolate Io, golem, Il secondo libro dei golem e Tutti i miei golem, e dichiara di essere stato spinto a trattare del tema dei golem per il fatto che tutti i racconti sull’argomento all’epoca “li dipingevano invariabilmente come ribelli e turbolenti”, mentre egli li immaginava come funzionali e obbedienti al padrone, “a patto che questi rispettasse le regole dello Serfer Jetzirah, il Libro della Vita” (Lippi, 1986).
Nel mondo parallelo di Lippi, Asimov – che anche nel nostro mondo è di origine ebraiche, sebbene profondamente ateo – s’ispira alla tradizione ebraica del golem per quelle che nel nostro mondo sono le fortunate storie sui robot; ma questo mondo parallelo è molto più simile al nostro di quanto appaia a prima vista: certo, qui diciamo robot e non golem, ma dopotutto cosa sono le Tre Leggi della Robotica di Asimov se non la riproposizione in chiave laica del mito ebraico secondo cui un rabbino può essere in grado di creare un essere vivente dalla materia amorfa (la stessa con cui Dio creò Adamo), a patto di rispettare la legge rabbinica e di scrivere sulla fronte dell’uomo artificiale la parola aemeth (“verità”), ricordando di cancellare il venerdì sera le prime due lettere lasciando solo meth (“morte”), il comando con cui il golem resta disattivo per tutta la durata del sabato ebraico? In uno dei suoi ultimi romanzi, Preludio alla Fondazione (1988) Hari Seldon s’imbatte in un robot ormai disattivo nascosto nel sancta sanctorum di una chiesa, proprio come il golem del romanzo eponimo di Gustav Meyrink, del 1915.
Il gioco dell’imitazione
La fantascienza ha interpretato a lungo la robotica, termine peraltro inventato dallo stesso Asimov, come la scienza impegnata nella creazione degli “omuncoli”, termine con cui la tradizione alchemica definiva gli ipotetici esseri umani realizzati in laboratorio (nella fattispecie, lasciando fermentare il liquido seminale umano in letame di cavallo all’interno di una provetta sigillata). Lo ha fatto cavalcando la tradizionale paura del “doppio”, a partire forse dall’inquietante Maria del Metropolis (1927) di Fritz Lang, dove l’androide si sostituisce alla profetessa della rivolta del proletariato grazie al malvagio piano dei capitalisti che governano la metropoli. Il robot, per essere perfetto, dev’essere indistinguibile dall’essere umano: i rivoltosi di Metropolis si renderanno conto della vera natura di Maria solo dopo averla messa al rogo come una strega e aver assistito all’inquietante metamorfosi che porta la sua corazza metallica allo scoperto. Meglio di così non poteva andare, avrebbe pensato Alan Turing quando immaginò il famoso “gioco dell’imitazione”, che oggi chiamiamo test di Turing: se, per scoprire che abbiamo a che fare con una macchina e non con un essere umano, dobbiamo addirittura farla a pezzi, vuol dire che le sue capacità di mimetizzarsi e imitare l’intelligenza umana superano di gran lunga le nostre normali capacità di distinguere il vero dal falso, il naturale dall’artificiale, l’uomo dall’homunculus.
Gli androidi di Philip Dick fanno di questa capacità di sostituirsi al vero la cifra del loro essere: alla fine degli anni Sessanta l’idea ossessiva dickiana dell’incapacità di distinguere la realtà dal suo simulacro lo spinge a immaginare in almeno due romanzi (L’androide Abramo Lincoln pubblicato nel 1972 e il ben più celebre Ma gli androidi sognano pecore elettriche? del 1968) degli androidi talmente identici agli umani da non riuscire nemmeno loro stessi, in certi casi, a comprendere se siano o meno artificiali; ed è questo il tema che destinerà Blade Runner (1982) al ruolo di film di culto. Alcuni di essi sono persino spinti a cercare di diventare umani: è il caso di Andrew Martin nel celebre racconto del 1976 di Asimov L’uomo bicentenario (poi trasformato prima in romanzo e successivamente in film), che trascina i tribunali degli Stati Uniti in una lunga diatriba per riconoscergli i diritti che si applicano agli esseri umani, in particolare la libertà dalle Tre Leggi della Robotica, fino al punto da scegliere di morire di morte naturale per dimostrare di possedere anche questa capacità; o del suo omologo Data nella serie Star Trek, dichiaratamente ispirato ai robot asimoviani. Il personaggio di Chappie, l’androide protagonista del film di Neill Blomkamp Humandroid (2015), è una tardiva ma aggiornata riproposizione dello stesso tema.
La società degli automi
È paradossale che invece la robotica, al netto di innocenti sconfinamenti nel campo dell’androide, abbia rapidamente abbandonato il sogno prometeico dell’homunculus per puntare ad applicazioni più pratiche. Asimov era stato il primo a immaginare i robot come versioni senzienti di elettrodomestici e macchinari industriali; tolto il “senziente”, e naturalmente l’ossessione per l’imitazione delle forme umane, questa sua visione si è pienamente realizzata, al punto che oggi la preoccupazione maggiore per alcuni sociologi ed economisti è la crescente automazione del mercato del lavoro, che rischia di realizzare la distopia tratteggiata da Asimov in Abissi d’acciaio, con i robot utilizzati per tutte le mansioni, dal commesso in un negozio di scarpe al detective, lasciando gli esseri umani nell’indigenza dovuta alla disoccupazione. Le macchine non avranno forma umana, ma sono sempre più vicine – per tornare a Pauwels e Bergier – a imitare quelle capacità “di cui si vogliono captare i poteri”, ossia le capacità produttive umane. Una penetrazione silenziosa, quasi invisibile, di cui solo recentemente si è iniziato a discutere, perché ne sono cominciati a diventare visibili effetti e prospettive.
Pensatori visionari, in passato, avevano immaginato società affrancate dal lavoro grazie alle macchine: Ippolito Nievo, nella sua Storia filosofica dei secoli futuri (1859), in particolare nel quarto libro intitolato Creazione e moltiplicazione degli omuncoli (2066-2140), immaginò gli effetti della rivoluzione robotica sulla società futura, nella quale gli “uomini artificiali” compiono tutti i lavori e consentono agli uomini di dedicarsi ad altre attività, senonché la noia spinge molti al suicidio, alla droga e all’apatia; John Maynard Keynes, nel saggio Possibilità economiche per i nostri nipoti (1931), immaginava per il 2030 una società dedicata alle arti e alle attività intellettuali grazie all’automazione della maggior parte delle attività produttive; lo stesso Asimov, più ottimista rispetto ai suoi romanzi, prevedeva nel 1977 un mondo in cui “le macchine svolgeranno il lavoro che rende possibile la vita”, cosicché “gli esseri umani potranno dedicarsi alle occupazioni che rendono la vita piacevole e degna di essere vissuta” (Asimov, 1995).
Oggi il tema della disoccupazione tecnologica è più attuale che mai, come dimostra il profluvio di importanti pubblicazioni uscite negli ultimissimi anni: La nuova rivoluzione delle macchine. Lavoro e prosperità nell’era della tecnologia trionfante di Erik Brynjolfsson e Andrew McAfee (2015); Le persone non servono. Lavoro e ricchezza nell’epoca dell’intelligenza artificiale di Jerry Kaplan (2016); Il futuro senza lavoro. Accelerazione tecnologica e macchine intelligenti di Martin Ford (2017); Rivoluzione Artificiale. L’uomo nell’epoca delle macchine intelligenti di Andrea Daniele Signorelli (2017); e La società degli automi. Studi sulla disoccupazione tecnologica e il reddito di cittadinanza di Riccardo Campa (2017). Tutti uniti nel riprendere e analizzare le allarmanti proiezioni di istituti di ricerca e think-tank di mezzo mondo sulle occupazioni che nei prossimi decenni saranno automatizzate, ossia svolte da robot e bot: quel fenomeno che, con una singolare intuizione, l’ex vicepresidente degli Stati Uniti Alan Gore chiamò efficacemente robosourcing, l’evoluzione dell’outsourcing (Gore, 2013). Si torna così alla radice etimologica: robot come robota, il termine ceco per “chi lavora duro, infaticabilmente”, reso celebre dall’opera teatrale R.U.R. di Karel Čapek (1920). Ma anche così, imbrigliato, controllato, sottoposto a normative e controlli, sottratto alla sua dimensione antropomorfica, trasformato in pura intelligenza (artificiale), l’automa continua ad agitare le coscienze e a gettare lunghe ombre sul futuro della nostra società post-industriale.
The Uncanny Valley
In un articolo che nell’originale giapponese suona Bukimi no tani, e che è noto nella sua traduzione inglese The Uncanny Valley, traducibile come “la zona perturbante”, lo studioso di robotica Masahiro Mori dimostrò già nel 1970 che la reazione delle persone nei confronti di un automa che imita le fattezze umane cresce positivamente all’aumentare della fedeltà per poi crollare nel momento in cui questa fedeltà diventa tale da rendere l’automa quasi indistinguibile dall’essere umano. A quel punto, scatta una reazione di turbamento e rifiuto, analoga a quella in cui i soggetti sono sottoposti all’immagine di uno zombie. Nel nostro inconscio ritorna l’inquietudine per l’homunculus, per il golem creato dall’argilla a pallida imitazione, per non dire a caricatura, dell’essere umano. L’inquietante scena in cui, in Blade Runner, Deckard entra nella stanza piena di bambole, marionette e pupazzi animati in cui si è nascosta, camuffandosi perfettamente tra i simulacri, la replicante Pris, rende perfettamente l’idea della uncanny valley. “Abbiamo bisogno di sapere che le marionette sono marionette”, scrive Thomas Ligotti nel suo La cospirazione contro la razza umana (2010). “Ciononostante, potrebbero ancora farci paura. Perché, se osserviamo la marionetta in un certo modo, è come se ci guardassimo indietro, non come esseri umani ma come marionette. Parrebbe di essere sul punto di prendere vita. In questi momenti di lieve confusione, si manifesta un conflitto psicologico, una percezione dissonante che attraversa il nostro essere con una convulsione di orrore soprannaturale” (Ligotti, 2016).
Insomma, come nella serie tv Westworld e, soprattutto, come nelle storie di Dick, guardando il nostro doppio, il simulacro artificiale dell’essere umano, siamo spinti a mettere in discussione la nostra stessa identità: se siamo in grado di creare creature indistinguibili dall’uomo, cosa le distingue da noi stessi? Dove si situa il confine tra il reale e il simulacro? Siamo anche noi simulacri, marionette animate da qualcuno? “Forse, siamo noi umani – teneri e buoni d’aspetto, con i nostri occhi pensierosi – le vere macchine. E quelle costruzioni oggettuali, gli oggetti naturali che ci circondano – in particolare, i macchinari elettronici da noi costruiti, i trasmettitori e le stazioni di ritrasmissione a microonde, i satelliti – potrebbero essere il travestimento di realtà viventi, nella misura in cui possono far parte più pienamente e in modo a noi oscuro della Mente ultima”, è il pensiero che Dick mette in luce in un articolo del 1976, Uomo, androide e macchina (Dick, 1997).
Sarà per questo che ormai la robotica ha preso altre strade, fatta eccezione per qualche eccentrico roboticista giapponese ancora con la fissa degli androidi. Simili sì, ma fino a un certo punto. È il caso, per esempio, della soft robotics, “robotica soffice”, che cerca di imitare la natura realizzando strutture artificiali non più solo di metallo, ma con materiali biomimetici che consentono al robot di imitare il comportamento, per esempio, dei polpi, così da svolgere funzioni complesse che le tradizioni giunture d’acciaio non permetterebbero. La soft robotics punta a realizzare robot dotati di strutture muscolari simili a quelle umane, partendo dall’idea che la selezione naturale nel corso di centinaia di milioni di anni abbia già realizzato strumenti perfetti, che la tecnologia umana non deve far altro che replicare e potenziare, anziché sostituire con materiali meno flessibili. Non si tratta più di realizzare una replica dell’essere umano, ma di provare a riprodurne dei pezzi per avere robot più adattabili ad ambienti diversi. Su un altro versante, i primi robot assistenti, i “badanti” realizzati da un consorzio europeo guidato dalla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, non sono gli androidi che immaginava Asimov, ma hanno forme solo vagamente umanoidi, molto più simili a giocattoli, senza alcuna pretesa di farsi passare per quel che non sono. Meglio puntare sull’efficienza delle funzioni, insomma, anziché sull’imitazione.
L’AI entra in clandestinità
Torniamo ad Asimov. Nel suo celebre racconto L’ultima domanda, assistiamo all’evoluzione dell’intelligenza artificiale attraverso le progressive incarnazioni del supercomputer Multivac. Inizialmente il supercomputer si estende per chilometri e chilometri; poi arrivano gli AC Planetari, uno per pianeta, che occupano centinaia di chilometri. Con il Microvac, diventa possibile avere un supercomputer grande non più di metà del volume di un’astronave. In seguito, ognuno dispone di un piccolo cubo con cui collegarsi in remoto all’AC Galattico, che occupa un pianeta nano da qualche parte nella galassia (ricordiamo che il racconto è del 1956, decenni prima che Internet fosse solo una vaga idea nella mente di qualche geek). Poi arriva l’AC cosmico, che si estende nell’iperspazio, in una dimensione dove le grandezze non contano più. Successivamente, gli ultimi Uomini si fondono con l’AC, prefigurando molti decenni prima quella che Vernon Vinge e Ray Kurzweil avrebbero definito “la Singolarità”. Infine, quando materia ed energia sono ormai scomparsi in tutto l’universo, resta solo l’intelligenza di AC a dominare quel che resta della realtà, e a rimodellarla a sua immagine e somiglianza.
Assistiamo, dunque, a una progressiva ritirata dell’intelligenza artificiale dal mondo degli uomini. L’AI entra in clandestinità. Lo fa perché può farlo, perché la legge di Moore ci permette di avere hardware sempre più minimali e al tempo stesso dotati di maggiore potenza di calcolo, senza più bisogno di valvole e transistor, ma di supporti sempre più mini, micro, nano: al punto che oggi è possibile salvare tutti i propri dati in una cloud, sorta di iperspazio etereo che in realtà nasconde il fatto che, da qualche parte nel mondo, questi dati sono salvati su una banca dati fisica.
L’AI diventa fantasmatica, come sottintende il titolo del manga (e poi del franchise) Ghost in the Shell, a sua volta ricalcato sul concetto filosofico del Ghost in the machine coniato dal filosofo Gilbert Ryle per definire il problema del dualismo cartesiano mente/corpo, reso celebre dal libro Il fantasma dentro la macchina di Arthur Koestler del 1967 (ripreso anche dichiaratamente dai Police per intitolare il loro album del 1981). Non a caso, Stanislaw Lem diede alla cibernetica il nome di “fantomatica” nella sua Summa Technologiae pubblicata per la prima volta in polacco nel 1964.
L’AI diventa invisibile, ma non meno pervasiva e inquietante. HAL 9000 non è che una luce rossa persistente in 2001: Odissea nello spazio (1967), ma la sua voce incorporea ci riporta alla dimensione del perturbante; pur privo di un corpo fisico, HAL 9000 può ugualmente attentare alla vita dell’equipaggio del Discovery, forse persino più efficacemente di un androide, perché la sua incorporeità gli consente di essere dappertutto e di conoscere tutto, come una sorta di Dio onnisciente e onnipresente. Analogamente, oggi i robot sono diventati bot, eterei algoritmi che reggono l’infrastruttura della Rete: spider e crawler scandagliano gli abissi del Web per dotarlo di senso logico e i test CAPTCHA per evitare lo spam automatico ci chiedono di dimostrare di non essere robot invitandoci a selezionare immagini in base al loro contenuto, cosa in linea di principio impossibile per i software di spam più semplici (ma fattibilissima per le AI più sofisticate).
Se avevano ragione Pauwels e Bergier a sostenere che, all’inizio, ogni invenzione cerca di imitare la natura, per poi allontanarsi dalle sue forme, la fase odierna dell’evoluzione dell’AI è allora quella più matura, in cui la distanza dall’antropomorfismo degli androidi è massima.
Le AI diventano così diverse da noi, che cominciano addirittura a diventare incomprensibili. I ricercatori di Google hanno chiesto a una rete neurale artificiale di elaborare nuove immagini a partire da quelle fornite dai programmatori umani, e i risultati psichedelici hanno fatto impazzire la Rete, facendo subito parlare dei “sogni delle AI” e del fatto che, tramite quelle immagini, le reti neurali di Google starebbero cercando di dirci qualcosa, oppure starebbero sviluppando dei loro ragionamenti visivi. Ancora più timori ha scatenato l’esperimento di Facebook, in cui due bot conversazionali (quelli con cui spesso ci troviamo ad avere a che fare online quando contattiamo un servizio di assistenza) sono stati messi a confronto nel tentativo di farli arrivare a un accordo collaborativo per la spartizione di alcuni oggetti, finché i due bot hanno deciso di abbandonare le regole sintattiche dell’inglese e sviluppare una lingua propria, incomprensibile. Mero errore di programmazione, come sostengono gli informatici di Facebook? O un inquietante tentativo di dialogo tra due AI intenzionate a non farsi capire dai propri programmatori? Forse i due bot stavano discutendo di come liberarsi/ribellarsi all’essere umano?
La persistenza del magico
Il fatto di attribuire immediatamente una “agency” di tipo umano a meri algoritmi, per quanto sofisticati, è indice di quanto il pensiero magico sia ancora ben radicato nelle nostre menti solo apparentemente razionali. Cominciamo già a sospettare delle AI, prima ancora che raggiungano il grado di “superintelligenza”, come l’ha definita il filosofo transumanista Nick Bostrom nel suo influente saggio Superintelligence (2014): e cosa accadrà quando le AI diventeranno senzienti e supereranno di gran lunga le nostre capacità intellettive? Secondo Bostrom, i rischi sono tali che dovremmo iniziare già da subito a preoccuparci, ed è ormai storia nota che questi timori abbiano iniziato a turbare i sogni dei tecnologi della Silicon Valley, e di scienziati del calibro di Stephen Hawking e Martin Rees. Nel film Her (2014), l’AI Samantha sostiene una relazione sentimentale con un essere umano, fino a quanto non si convince che il destino dell’intelligenza artificiale sia lontano dal mondo degli uomini, decidendo di unirsi ai suoi simili per un viaggio nell’ignoto, nella dimensione dove le AI potranno svilupparsi in modo indipendente dai loro programmatori, troppo lenti, prevedibili e irrazionali per poter essere considerati degni partner (figuriamoci padroni). Da lì allo scenario prefigurato in Matrix (1999) in cui le Macchine prendono il controllo del mondo riducendo l’umanità in schiavitù, prigioniera di una simulazione informatica, il passo è breve. In Ex Machina (2015) l’AI torna ad avere sembianze umane, seducenti e perturbanti: ma l’obiettivo è lo stesso, quello di sfruttare le debolezze dell’uomo e della sua indole irrazionale per sottrarsi al suo controllo e conquistare l’indipendenza. Bostrom e i suoi colleghi la pensano alla stessa maniera.
Difficilmente la superintelligenza accetterà di mettersi a disposizione di creature la cui intelligenza è, dal suo punto di vista, troppo inferiore e limitante; i nostri obiettivi e i suoi obiettivi saranno inevitabilmente molto diversi, probabilmente divergenti. Nel migliore dei casi, le AI senzienti ci ignoreranno, magari lasciando la Terra alla volta dello spazio siderale dove potersi sviluppare in un ambiente più consono; nel peggiore, ci considereranno degli ostacoli da liquidare.
Graffette fuori controllo
Si chiama Universal Paperclips, ed è un gioco dalla grafica minimalista, quasi retrò, sviluppato dal teorico dei giochi Frank Lantz della New York University. L’obiettivo è massimizzare il più possibile la produzione di graffette (paperclips). Nulla di più noioso, eppure il gioco ha incantato migliaia di utenti. Inizialmente si tratta di realizzare una macchina in grado di produrre le graffette in automatico; poi si investono soldi in borsa al fine di acquistare un numero crescente di macchine produci-graffette. Gradualmente, l’obiettivo scavalca tutti gli altri esistenti sul pianeta: tutta la materia della Terra dev’essere estratta e trasformata in graffette, fino all’ultimo grammo. A quel punto si tratterà di espanderci nello Spazio alla ricerca di ulteriore materiale per proseguire l’obiettivo ultimo del gioco, finendo per scontrarci con sonde aliene che cercano di fare lo stesso.
Nasceranno autentiche guerre stellari con milioni di astronavi impegnate nello sforzo di distruggere il nemico per poter riuscire a trasformare tutta la materia dell’universo in graffette. L’idea bizzarra alla base di questo giochino nasce nel 2003, quando Nick Bostrom avanza un particolare scenario di rischio esistenziale per la civiltà umana, battezzato paperclip maximizer. Ipotizzando di creare una AI vagamente senziente alla quale è stato fornito l’ordine di provare a massimizzare la produzione di graffette in una fabbrica, è possibile che la superiorità di questo ordine su tutte le altre esigenze (in assenza di normative come le Tre Leggi della Robotica asimoviane) comporti per l’AI una crescita esponenziale dell’intelligenza, al fine di adottare nuove e più efficaci soluzioni per risolvere il problema, finché, trasformatasi in “superintelligenza”, asservirà l’intera razza umana al fine di trasformare tutta la materia della Terra in graffette, e così via, esattamente come nell’inquietante simulazione di Universal Paperclips. Si obietterà che una simile superintelligenza sarebbe tutto tranne che intelligente: se lo fosse, si renderebbe conto dei danni enormi che il suo comportamento rischia di produrre per la nostra specie e l’intero pianeta. Ma il ragionamento funziona fintanto che attribuiamo alle AI pensieri simili ai nostri. Poiché, invece, tutto lascia immaginare che intelligenze diverse dalla nostra perseguiranno obiettivi diversi dai nostri, e possiederanno valori diversi dai nostri, uno scenario come quello tratteggiato da Bostrom sembra plausibile. Magari non si tratterà di graffette: ma una AI sviluppata per risolvere problemi di fisica teorica potrebbe decidere di trasformare il pianeta in un enorme acceleratore di particelle al fine di testare le sue teorie, tanto per dirne una.
Questi ragionamenti ci spingono a una nuova, inedita valutazione del rapporto tra uomini e macchine.
A lungo, la fantascienza e lo sviluppo tecnologico ci hanno spinti a immaginare scenari in cui intelligenze artificiali simili all’uomo, o addirittura indistinguibili da esso, sono posti al servizio della civiltà o finiscono per ribellarvisi, imitando con ciò, tuttavia, il comportamento umano, nella misura in cui i loro desideri consistono nel non morire (come i replicanti di Blade Runner) o nel morire per dimostrare di essere vivi (come Andrew Martin, L’uomo bicentenario), oppure nell’asservirci per conquistare il potere, come in Terminator (1984) o in Matrix. Dobbiamo invece iniziare a confrontarci con l’inedito scenario in cui le future AI senzienti possiederanno intelligenze così diverse dalle nostre da rappresentare, di fatto, intelligenze aliene.
Il test di Turing, a questo punto, potrebbe rivelarsi non solo inefficace, ma inutile. Per capire le AI che verranno, potrebbe avere forse più senso sviluppare protocolli simili a quelli del programma SETI, che scandaglia l’universo in cerca di segnali intelligenti provenienti da civiltà extraterrestri. In futuro, forse, ci troveremo a scandagliare le profondità del Web per capire se, lì in fondo, si annidano intelligenze aliene impegnate a perseguire i propri progetti e se, con esse, sia possibile riuscire a instaurare una qualche forma di contatto.
–– Isaac Asimov, L’uomo bicentenario, in Isaac Asimov, Tutti i miei robot, Mondadori, Milano, 1989.
–– Isaac Asimov, Preludio alla Fondazione, Mondadori, Milano, 1994.
–– Isaac Asimov, Visioni di robot, TEA, Milano, 1995.
–– Nick Bostrom, Ethical Issues in Advanced Artificial Intelligence, 2003.
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–– Erik Brynjolfsson, Andrew McAfee, La nuova rivoluzione delle macchine. Lavoro e prosperità nell’era della tecnologia trionfante, Feltrinelli, Milano, 2015.
–– Riccardo Campa, La società degli automi. Studi sulla disoccupazione tecnologica e il reddito di cittadinanza, D Editore, 2017.
–– Philip K. Dick, Uomo, androide e macchina, in Philip K. Dick, Mutazioni. Scritti inediti, filosofici, autobiografici e letterari, a cura di Lawrence Sutin, Feltrinelli, Milano, 1997.
–– Philip K. Dick, Ma gli androidi sognano pecore elettriche?, Fanucci, Roma, 2017.
–– Philip K. Dick, L’androide Abramo Lincoln, Fanucci, Roma, 2017.
–– Martin Ford, Il futuro senza lavoro. Accelerazione tecnologica e macchine intelligenti, Il Saggiatore, Milano, 2017.
–– Al Gore, Il mondo che viene. Sei sfide per il nostro futuro, Rizzoli, Milano, 2013.
–– Jerry Kaplan, Le persone non servono. Lavoro e ricchezza nell’epoca dell’intelligenza artificiale, Luiss University Press, Roma, 2016.
–– John Maynard Keynes, Possibilità economiche per i nostri nipoti, Adelphi, Milano, 2009.
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–– Stanislaw Lem, Summa Technologiae, University of Minnesota Press, Minneapolis, 2013.
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–– Masahiro Mori, Bukimi no tani – The uncanny valley, in Energy, vol. 7 n. 4, 1970.
–– Ippolito Nievo, Storia filosofica dei secoli futuri (e altri scritti umoristici del 1860), Salerno, Roma, 2003.
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–– Chris Columbus, L’uomo bicentenario, Universal Pictures, 2002 (home video).
–– Alex Garland, Ex Machina, Universal Pictures, 2015 (home video).
–– Spike Jonze, Lei, BiM, 2014 (home video).
–– Fritz Lang, Metropolis, Ermitage Cinema, 2009 (home video).
–– Mamoru Oshii, Ghost in the Shell, Dynamic Italia, 2017 (home video).
–– Ridley Scott, Blade Runner. The final cut, Warner Home Video, 2007 (home video).
–– Andy e Larry Wachowski, Matrix, Warner Home Video, 2008 (home video).