Immaginando l’ennesimo ritorno al futuro a bordo di una DeLorean o una qualsivoglia macchina del tempo, soltanto spostandoci indietro di poco più di un secolo, saremmo assordati dal silenzio. Proiettati in uno spazio/tempo disabitato dal frastuono che ci circonda quotidianamente da quando si è dispiegata ovunque la civiltà industriale. Saremmo giusti allietati dal quel “lieto romore” che rallegra Il sabato del villaggio leopardiano.
Un tempo era così, come certi paesaggi taciturni della pittura italiana dell’Ottocento, in particolare quella dei Macchiaioli (cfr. Pivato, 2011), quasi inimmaginabili al tempo del rumore di fondo generalizzato, nato nel XX secolo e che non par diminuire d’intensità, al punto da far nascere nel 2007 un Manifesto for silence, messo a punto dal professor Stuart Sim, docente di critica teorica alla University of Sunderland.
La rotonda dei Bagni Palmieri di Giovanni fattori (1886) è un tipico paesaggio “silenzioso” della pittura macchiaiola.
Ai nostri giorni il silenzio si è trasformato in merce rara, venduta anche a caro prezzo, alimentando un ramo elitario del turismo: “«Oggi la gran parte del mercato dei beni di lusso riguarda il suono del silenzio» ammette Jonah Disend di Redscout, una compagnia di brand management, e cita come esempio i luoghi dove non è permesso l’uso del telefonino” (Biguenet, 2017). Non solo, è anche leva di sviluppo di un settore non indifferente dell’edilizia (e dell’urbanistica) che sforna pannelli fonoassorbenti e materiali assorbenti di ogni fatta. Insomma, oggi l’antica massima “il silenzio è d’oro” sembra aver assunto un significato quanto mai letterale.
Agli assalti sonori della fabbrica novecentesca e delle macchine che le ruotano interno, si è poi fatto via via più presente e ingombrante il rumore dei media, soprattutto quelli digitali, mobile, vera e propria invasione degli ultracorpi. Sulla questione David Le Breton si esprime senza mezzi termini nell’Introduzione al saggio intitolato Sul silenzio. Fuggire dal rumore del mondo, finalmente disponibile in italiano (uscì in Francia nel 1997) grazie a Raffaello Cortina Editore, che ne propone una versione aggiornata:
“Il solo silenzio che la comunicazione conosca è quello del guasto, della défaillance della macchina, dell’arresto di trasmissione. È cessazione della tecnicità, più che emergenza di un’interiorità. Il silenzio diviene allora reperto archeologico, residuo non ancora assimilato. Anacronistico nella sua manifestazione, produce malessere e un immediato tentativo di arginamento, quasi fosse un intruso. Evidenzia gli sforzi ancora da compiere affinché l’uomo possa finalmente accedere allo stato glorioso di homo communicans”.
Quello contemporaneo è uno scenario che appare assai simile ai versi di Paul Simon scritti per il celeberrimo brano intitolato (guarda caso) The Sound of Silence, eseguito in coppia con Art Garfunkel. Il passaggio recita così: “People talking without speaking / People hearing without listening”. Anche la musica, però, dai primi esperimenti futuristi (dall’Intonarumori di Luigi Russolo alle sirene e i cannoni di Arsenij Avraamov) ai radicali noisemaker sparsi per il mondo ha tessuto un progressivo e tuonante elogio del rumore, approdando a bolge di suono insostenibile a ripetizione. Basti pensare all’inesauribile produzione discografica del giapponese Merzbow (al secolo Masami Akita), furibondo fabbricante di sonorità urticanti.
Parte da questa denuncia, dall’allarme estinzione, che si addice al silenzio come ad ogni specie rara, il saggio di Le Breton, un’estesa e sistematica ricognizione sulle forme e le manifestazioni del silenzio: quelle praticate da tempo immemorabile e quelle che appaiono più figlie dei nostri tempi, quelle che risultano frutto di scelte consapevoli e quelle che sono il risultato di imposizioni, di proibizioni e divieti. Il silenzio che aneliamo perché ci fa strada tra le pieghe dell’essere e quello che ci atterrisce, da cui proprio il rumore ci difende in diversi frangenti. In fondo le statue ci inquietano proprio perché non parlano.
Particolare di Observatory Time: The Lovers di Man Ray (1936).
Per venire a capo di tutto ciò, Le Breton costruisce una sorta di tassonomia ripartita in sei capitoli, registrando minuziosamente il maggior numero possibile del far silenzio, di restare in silenzio, di essere obbligati al silenzio, di scegliere di restare in silenzio, cogliendone le sfumature, gli assensi, le complicità, i dinieghi, i rifiuti, le emozioni, le riflessioni che si celano dietro un silenzio, provando a fornire un resoconto tendenzialmente esaustivo su questa fondamentale modalità dell’espressione umana.
Umana e dunque polisemica perché il silenzio è modulazione di senso, articolazione, snodo, indicazione, parte in causa nella costruzione di qualsivoglia relazione tra gli esseri umani. Può significare molte cose contemporaneamente, essendo ambiguo per natura. È anche paradosso eccellente, poiché qualsiasi forma di silenzio è nettamente percepibile in quanto assenza, è ciò che non si ascolta, cosicché, laddove il rumore regna sovrano, diffuso e inconoscibile esiste l’autentico silenzio, in realtà inesistente in natura. Il vero silenzio è sovrannaturale, quello di cui possiamo occuparci è solo il frutto delle percezioni umane dell’altro e dell’ambiente.
John Cage e David Tudor il primo “esecutore” di 4’33” . A destra: l’Intonarumori di Luigi Russolo. Silenzio vs Rumore.
Non è l’unico paradosso che il silenzio suscita. Dovremmo chiederci anche se sia possibile in fondo dire del silenzio, scrivere su qualcosa di cui percepiamo in realtà i contorni, perché è il suono in generale a circoscriverlo, a indicarlo in quanto assenza di suono. Una domanda che al termine del suo viaggio si pone lo stesso Le Breton. Prima di lui, altri hanno tentato di fornire una risposta. Quell’estenuante, lenta, inesorabile cancellazione della parola, l’immane fatica che Samuel Beckett continuò incessantemente fino alla fine, il suo vano tentativo di estinguere qualsiasi suono, seppur ci andò vicino con l’atto unico Respiro (Breath, 1968), è la magistrale, severa e imprescindibile prima ideale risposta da tenere sempre a mente: trentacinque secondi per una scena attraversata da un “piccolo grido fioco” (Beckett, 2005).
L’altra altrettanta memorabile è quella che diede John Cage con il non brano 4’33” risalente al 1952, altrimenti noto proprio come Silence. Un’opera interamente costituita da pause e suddivisa in tre movimenti, la cui prima esecuzione pubblica, a opera di David Tudor, avvenne il 29 agosto del 1952 alla Maverick Concert Hall, vicino Woodstock. Anche qui, al silenzio programmato sopravvivono i rumori dell’ambiente circostante, fosse anche il solo respiro dello spettatore seduto dietro di noi. Lo stesso Cage precisò in più occasioni che 4’33 non si può definire una rappresentazione del silenzio, ma piuttosto “un atto di ascolto” (Gann, 2012). Insomma, le migliori risposte sono tuttora fallimenti, tentativi di catturare l’inafferrabile, di far risuonare quella griglia del molteplice di cui sono fatti i silenzi: tutto riuscito perché tentato, tutto da inseguire nuovamente, perché come già lo scrittore irlandese si chiedeva nell’Addenda a Watt, si può “pesare su un piatto l’assenza? […] Richiudere il niente in parole? (Beckett, 1998).
Street art silenziosa a Parigi.
Allora forse è intorno al silenzio che è possibile scrivere un libro ed è questo il cimento dello studioso francese: disegnare il perimetro di un spazio dai confini imprecisati composto da curve ripetute, da ritorni fluttuanti come onde in sequenza: in fondo, il suono del silenzio è analogico, non condivide la logica digitale, non si compone di 0 e 1, ma è sempre sospeso nel mezzo, oppure appena più in là.
Nel primo capitolo Le Breton esamina in dettaglio il ruolo di modulatore che il silenzio riveste nella conversazione, funzione decisiva, poiché “se non fosse accompagnata dal silenzio, la comunicazione sarebbe impossibile” (anche il contrario, a dire il vero); una punteggiatura che richiede il saperne dosare l’impiego e l’interruzione. Basti pensare che “all’interno di una conversazione, un silenzio tranquillo può essere sia un privilegio derivante dalla complicità, sia un segnale di totale indifferenza”. Le Breton qui disegna con ausilio anche di alcuni casi letterari i profili delle due figure figlie del ruolo sociale della parola e del silenzio: il chiacchierone e il taciturno.
Tutt’altro registro domina nella seconda tappa di questa ricognizione, qui attenta a scrutare le forme del silenzio deliberato (quello esemplare dell’ineffabile scrivano melvilliano Bartleby), o imposto, ma sempre espressione di una relazione di potere, perché “in un’istituzione, la distribuzione del tempo della parola e del silenzio dipende dalla distanza sociale che separa i diversi membri”.
La dimensione politica del silenzio si esprime al suo massimo grado nel far tacere d’autorità non solo il singolo ma un’intera comunità nei sistemi dittatoriali, per non dire nel silenzio trasversale imposto alle donne, ma anche nell’indicibilità dell’orrore, come nel caso tragicamente più alto dell’Olocausto. Il buon uso della parola, la capacità di trasformarsi in segreto e quindi in un ascolto vietato ai più, conduce Le Breton a occuparsi nel terzo capitolo di quelle che indica come discipline del silenzio, che a partire dalle società iniziatiche ben si esplicitano nella relazione tra paziente e terapeuta in una terapia psicoanalitica; ben più numeroso è però l’elenco delle professioni che obbligano al silenzio nonché eterogenee, dai notai ai sacerdoti. A ben vedere l’intera letteratura noir è svelamento di un segreto, frattura di un silenzio.
A metà del viaggio, nel quarto capitolo, ci si imbatte nella più affascinante e inafferrabile dimensione del silenzio: quello legata alla spiritualità. Un aspetto che travalica ogni frontiera, poiché “il silenzio è un filo rosso nel continente della mistica, anche se assume significati diversi secondo le tradizioni religiose”. Dai monoteismi mediterranei al buddismo e allo zen fino alla mistica profana d’Occidente, Le Breton non lascia inesplorata nessuna delle maggiori esperienze di relazione tra l’umano e il divino che in quanto inesprimibile è accostabile solo nel silenzio.
Il silenzio più della parola (o forse in combutta con essa) è adeguato non solo ad avvicinarsi alla divinità ma anche alla morte. “Il dolore, l’incamminarsi verso la morte, la morte stessa, il confronto con la salma, i riti funerari, il lutto rendono inevitabile una sospensione della parola”, scrive Le Breton, ricordandoci è il silenzio supremo del defunto a lasciarci senza parole… Il quinto capitolo illustra, infine, anche le forme d’angoscia che il silenzio è capace di produrre, soprattutto quando il dolore del lutto “incista l’assenza”.
Si è detto che il silenzio in realtà non esiste in natura, e lo studioso francese lo ribadisce all’inizio dell’ultima tappa del suo itinerario, il capitolo intitolato Aspirare al silenzio “Il silenzio non è assenza di sonorità, un mondo senza fremiti, immobile, in cui nulla si faccia sentire […] il silenzio non è soltanto una particolare modalità del suono, bensì è, innanzitutto, un modo per conferire senso”. È una premessa importante, perché conduce Le Breton (e noi con lui) a disegnare fino in fondo l’intima ambivalenza del silenzio, la sua capacità di condurci a una pace interiore, a un’intima quiete, oppure di atterrirci, di terrorizzarci, e qui si cela la sua sacralità, considerato la coesistenza di attrazione e di angoscia nella relazione che da tempi immemorabili ci lega al sacro.
Pacato ma incessante nel suo rivolgersi al lettore, nel corso della sua esplorazione Le Breton si prende delle pause lasciando la parola a un ragguardevole numero di ospiti, da Agostino a Elias Canetti, da Jacques Derrida a Sigmund Freud, da Franz Kafka a Jacques Lacan e ancora altri tra cui George Orwell, Fernando Pessoa, Albert Camus, Nathalie Sarraute, Rainer Maria Rilke, San Bernardo e Teresa d’Avila.
Tra tante voci, spicca l’assenza del sopra citato Giacomo Leopardi, che pure almeno ne L’infinito un segno importante lo aveva impresso; ma anche, venendo a tempi più recenti, non v’è cenno delle discettazioni di Italo Calvino, in Palomar, dove l’omonimo protagonista, tra le altre, ci ricorda che “un silenzio può servire a escludere certe parole oppure a tenerle in serbo perché possano essere usate in un’occasione migliore” (Calvino, 2016). Possiamo pensare che Le Breton le abbia fatte sue, avendo in serbo di rompere nuovamente il silenzio e aggiungere qualcos’altro in futuro.
A questo punto non resta che tacere. D’altronde, in fondo alla sua breve e intensa postfazione intitolata anch’essa paradossalmente Ouverture, è lo stesso autore a ricordarci che “il silenzio ha sempre l’ultima parola”.
- Samuel Beckett, Silenzio, in Tutto il teatro, Einaudi, Torino, 2005.
- Samuel Beckett, Watt, Einaudi, Torino, 1998.
- John Biguenet, Elogio del silenzio. Come sfuggire al rumore del mondo, il Saggiatore, Milano, 2017.
- Italo Calvino, Palomar, Mondadori, Milano, 2016.
- Kyle Gann, Il silenzio non esiste, Isbn, Milano, 2012.
- Stefano Pivato, Il secolo del rumore, Il Mulino, Bologna, 2011.