Ricorre quest’anno il decimo anniversario della scomparsa di Graham Collier, contrabbassista compositore e direttore d’orchestra britannico, scomparso in Grecia il 9 settembre 2011 e, quasi a rendergli omaggio, la piccola e coraggiosa label londinese My Only Desire pubblica un concerto inedito: British Conversations offrendo una nuova occasione per ascoltare e riflettere sulla sua eredità artistica. Un lascito che è frutto di una carriera durata circa mezzo secolo, iniziata oltremanica nel 1964, dopo gli studi alla Berklee School of Music di Boston e una breve militanza nella band di Jimmy Dorsey, e che si è sempre sviluppata su più fronti. In primis, quello musicale, con diciassette dischi all’attivo, compresi lavori epici come Workpoints o Hoarded Dreams, e oltre cento composizioni per piccoli e grandi ensemble, incluse musiche per il cinema, pièce teatrali e radiodrammi. Più di una quarantina di questi lavori non sono mai stati registrati o, se trasmessi via radio, non sono stati finora pubblicati. Secondo, ma non per importanza, l’insegnamento. Non si può, infatti, dimenticare il Collier educatore e maestro nel forgiare nuove generazioni di jazzisti durante i quindici anni trascorsi come professor e artistic director alla Royal Academy of Music di Londra. Arrivando a tenere a battesimo, in qualità di guida e mentore, i Loose Tubes di Django Bates e Ian Bellamy, formazione simbolo del rinascimento del jazz inglese negli anni Ottanta.
Il terzo aspetto è rappresentato dal fronte dello studio e del giornalismo, non solo in qualità di co-editor per sette anni di Jazz Changes, il magazine dell’International Association of Schools of Jazz, che contribuì a fondare nel 1989 insieme ad altri docenti, ma di autore di ben sette libri sul jazz. L’ultimo in ordine di tempo, The Jazz Composer: Moving Music Off The Paper (2009), rappresenta il suo testamento artistico, con considerazioni colte e argute sul rapporto tra composizione e improvvisazione, tradizione e cambiamento, retorica e spontaneismo.
“Tutta la mia vita – spiegava Collier in un’intervista a John Fordham, critico del Guardian, risalente al 1997 – è stata dedicata allo studio dello «spazio» esistente tra scrittura e improvvisazione. Uno «spazio» che si potrebbe paragonare al concetto di «terzo colore» nella pittura astratta che identifica le connessioni tra le diverse linee cromatiche”
(Fordham, 2011).
Tuttavia, come osserva Duncan Heaning, biografo ufficiale del compositore e custode del suo archivio, il lavoro di Collier non era meramente quello di sfuocare i confini tra forma e libertà improvvisativa, cosa praticata nel jazz sin dai suoi albori. Quello che a Collier interessava era sperimentare una relazione dialettica e dialogante tra le due “parti”: una relazione che poteva esistere solo all’interno di uno stato permanente di “tensione”. Difatti, secondo il compositore, scrittura e improvvisazione non erano mai definitive o compiute, ma “parti” in continuo divenire ed evoluzione. In base a questo approccio, un concerto che non fosse il risultato di uno scambio continuo e fertile tra i vari solisti o che vedesse prevalere la parte scritta su quella libera non era solo un cattivo concerto o una performance poco riuscita, ma era la rappresentazione “plastica” del fallimento di un intero processo creativo.
In questo senso, rimarca Heaning, il lavoro di Collier presenta diversi elementi di rischio che lo avvicina più al mondo degli improvvisatori radicali che a quello dei compositori mainstream. Un approccio, spesso non compreso, o liquidato come superato dai non pochi detrattori che il compositore incontrò sul suo cammino. E, se non fosse stato per una tempra e una tenacia fuori dal comune e da figlio della working class non saremmo oggi qui a parlarne. Basterebbe, a questo proposito, ricordare, i suoi primi passi. È il primo britannico a laurearsi a un corso di jazz alla Berklee e, nel 1967, il primo a ottenere una sponsorizzazione dall’Arts Council of Great Britain per comporre una suite jazz (Workpoints, composizione rimasta inedita fino al 2005, anno in cui viene pubblicata dalla lungimirante Cuneiform di Steve Feigenbaum). Nel 1974 crea una propria etichetta, la Mosaic, per non sottostare alle regole delle major, ospitando lavori di numerosi jazzisti della sua generazione come Howard Riley, Alan Wakeman, Tony Hymas, Stan Sulzmann, Roger Dean e altri.
Negli anni Ottanta, introduce l’insegnamento del jazz alla Royal Academy of Music di Londra e al Sibelius Institute di Helsinki, diventando un infaticabile divulgatore e organizzatore di corsi e workshop in tutta Europa, entrando in contatto con orchestre ed ensemble del Vecchio Continente dalle quali riceve, nel corso della carriera, numerose commissioni. Tra queste, si contano i lavori per la Danish Radio Jazz Orchestra e per la tedesca NDR Big Band. Negli ultimi anni della sua carriera, precisamente nel 2009, venne anche in Italia, ospitato da ParmaJazz Frontiere e dal compositore Roberto Bonati per un workshop e un concerto con i giovani musicisti dell’Ensemble Jazz del Conservatorio Arrigo Boito. Questi traguardi potrebbero far pensare che Collier fosse un uomo di apparato, fedele a cordate politiche o appoggiato dall’establishment come dicono gli inglesi. Sbagliato, Collier era un outsider e in fondo lo è sempre stato. Amato solo da una ristretta cerchia di musicisti, i suoi solisti, innanzitutto (ma non da tutti, come rivela la biografia di Heining), non fece mai parte, almeno dichiaratamente di alcun movimento, lobby o scuola.
Un uomo determinato, risoluto, dotato di una volontà incrollabile e capace di creare lavoro non solo per sé stesso, ma anche per gli altri. Un vero pioniere, come lo definì Ian Carr in Music Outside (senza peraltro dedicargli un capitolo), capace anche di spiegare/raccontare la propria musica al pubblico. Il suo contributo fu determinante nel creare una nuova estetica musicale in un periodo in cui il jazz britannico era considerato un genere inferiore rispetto ai modelli dominanti afroamericani. Fu tra i primi a rompere il ghiaccio. Partendo, insieme ad altri colleghi, da quello che fu il trampolino di lancio e di sperimentazione di un’intera generazione di musicisti: il Little Theatre Club al numero 43 di Garrick Street a Covent Garden inaugurato da John Stevens il 3 gennaio del 1966. Tra gli apripista c’era proprio Collier insieme a Mike Westbrook, Chris McGregor e John Surman.
Harry Beckett, Graham Collier ed Ed Speight ai tempi della registrazione di British Conversations.
A questi si aggiunsero, in un secondo momento, anche Derek Bailey, Kenny Wheeler, Trevor Watts, Evan Parker e altri. Ma, come dicevamo, Collier non ha quasi mai incrociato la strada con quella di altri pionieri, restando un’isola a parte e dando, negli anni, alla sua musica un affascinante appeal extramusicale. Molti suoi lavori erano, infatti, il frutto di ispirazioni colte provenienti soprattutto dall’osservazione e studio di capolavori dell’espressionismo astratto del secolo scorso di cui era un grande appassionato. Un filo rosso che, inizia, nel 1975, con Midnight Blue, album ispirato dalle tavole ipercromatiche di Barnett Newman, per arrivare all’ultima suite Luminosity, pubblicata postuma nel 2014 e registrata da un ensemble di ex collaboratori di Collier sotto la direzione di Geoff Warren, che prende ispirazione da un’opera di Hans Hofmann.Quanto teorizzato da Collier trova puntuale riscontro anche in British Conversations, la suite commissionata dalla Radio svedese, registrata dal vivo nel febbraio 1975 e rimasta inedita fino a oggi. Un periodo d’oro per il compositore in preda a un vero e proprio furore creativo: in quegli anni, dal 1974 al 1978, sforna, sotto l’ombrello dell’allora neonata etichetta privata, la Mosaic, ben cinque album (Darius, Midnight Blue, New Conditions, Symphony of Scorpions, The Day of the Dead) e dà alle stampe tre libri: Jazz – A Students’ and Teachers’ Guide, (ristampato anche in Italia con il titolo Conoscere e suonare il jazz), Compositional Devices e Cleo and John, biografia dei coniugi Dankworth (lei cantante, lui sassofonista).
British Conversations è la tessera del mosaico mancante tra Darius e Midnight Blue, tra i lavori più accessibili e lirici della sua discografia, e, quindi, nei cinque movimenti di cui si compone l’opera, c’è tutta la sua abilità nel costruire suite complesse, ma tuttavia incredibilmente espressive e ricche di melodie suntuose, audaci interplay, repentini cambi di tempo e sottili armonizzazioni che lasciano sempre grande spazio ai solisti. E, in questo caso, insieme ai quindici elementi del Radio Swedish Jazz Group ci sono due suoi fedelissimi: il trombettista Harry Beckett (con il compositore sin dal primo album del 1967, Deep Dark Blue Center) e il chitarrista elettrico Ed Speight. Il loro contributo è determinante nel creare la tensione necessaria in un continuo cambio di testimone nel ruolo di solista leader. Ciò è particolarmente evidente in Red Sky in The Morning dove il gioco solistico passa continuamente tra Beckett e Speight in un vorticoso e trascinante groove ritmico spezzato solo dalle incursioni serrate della sezione fiati dell’ensemble svedese. Una tale girandola di interventi e variazioni da far precipitare l’ascoltatore in una sorta di tempo sospeso dove solisti e ensemble sembrano davvero “evadere” da ogni schema definito e librarsi in una dimensione di dialogo quasi incantata.
- Graham Collier Music, Darius/Midnight Blue/New Conditions, BGO Records, 2009.
- Graham Collier, Relook 1937-2011: A Memorial 75th Birthday Celebration, Jazzcontinuuum, 2012 (antologia).
- Ian Carr, Music Outside: Contemporary Jazz in Britain, Northway Publications, Londra, 2007.
- Graham Collier, Conoscere e suonare il jazz, Edizioni Ghibli, Milano, 2015.
- Graham Collier, Cleo and John: A Biography of the Dankworths, Quartet Books, Londra, 1976.
- Graham Collier, Compositional Devices, Berklee College, Boston, 1975.
- Graham Collier, The Jazz Composer: Moving Music Off the Paper, Northway Publications, Londra, 2009.
- John Fordham, Graham Collier Obituary in The Guardian, 14 settembre 2011.
- Duncan Heining, Mosaics: The Life and Works of Graham Collier, Equinox, Sheffield, 2018.
- Duncan Heining, Trad Dads, Dirty Boppers and Free Fusioneers. British Jazz: 1960-1975, Equinox, Sheffield, 2012.
- Ben Wartson, Derek Bailey and the Story of Free Improvisation, Verso, Londra, 2004.