Il Novecento? Disegnato
in una megalopoli


Fritz Lang

Metropolis (1927)

Cast principale:
Brigitte Helm, Gustav Fröhlich,
Alfred Abel, Rudolf Klein-Rogge,
Theodor Loos, Fritz Rasp,
Heinrich George

Produzione:
UFA

Distribuzione (home video):
Cineteca  di Bologna (2015)

Il più delle volte, chi racconta il futuro non fa altro che interpretare, magari in maniera estremizzata e metaforica, il mondo che ha davanti agli occhi, con lo scopo di trovarne le chiavi di decodifica. Con Metropolis, manifesto cinematografico dell’immaginario del primo Novecento, Fritz Lang fa sua questa ambizione allestendo nel 1927 una megalopoli del XXI secolo. Il film è stato riproposto nel 2011 in edizione restaurata, con i 28 minuti inediti, la partitura di Gottfried Huppertz e un documentario di 52 minuti che ne tratta la lavorazione.
Vi si narra di una città disposta su due livelli: sottoterra lavorano gli operai schiavizzati, le cui fatiche – tra macchinari industriali e ritmi pressanti – servono a tenere in vita l’intera metropoli; al di sopra i ceti abbienti, le classi dominanti che possono evitare di dedicarsi alle attività produttive e si godono la vita. Mente pensante e padrone della megalopoli industriale è John Fredersen. Questi è coadiuvato dal mefistofelico scienziato Rotwang, figura malevola e vendicativa che cova trame sinistre. Proprio una sua invenzione, un robot dalle sembianze femminili (quelle di Maria, personaggio benevolo del film), innescherà caos e perdizione nei quartieri altolocati, e istigherà gli operai all’insurrezione. La furia distruttiva del tumulto sarà implacabile e metterà in pericolo la sopravvivenza dell’intera città – specie delle aree sotterranee, minacciate da una devastante inondazione. Sarà il figlio di Fredersen, Freder, a riportare pace e concordia favorendo, in qualità di “mediatore” ispirato da Maria, la riconciliazione tra il padre capitalista e gli operai. Lo scenario apocalittico cederà il passo a una escatologia fiduciosa quanto buonista, sebbene non si capisca come i disagi del sottosuolo saranno poi mitigati, e come si porrà fine alla disuguaglianza sociale o alla tirannia delle macchine industriali – fondamentali per la vita della città – e del lavoro di fabbrica.
La cosa più interessante è constatare come il film sia un vero e proprio affresco della modernità, seppur con uno sfarzoso rivestimento fantascientifico. Gli ambienti, le relazioni sociali, le paure, le ambizioni, le realtà narrate sono tutte tipiche della società novecentesca e dell’architettura simbolica che forgia la sua rappresentazione.

Immagini che non lasciano dubbi
Le prime inquadrature del film sono d’altronde eloquenti: pistoni che lavorano senza sosta e macchinari dagli ingranaggi rotanti in frenetica attività. A scandire i tempi del velocissimo meccanismo di produzione industriale è un orologio di grosse dimensioni che detta i ritmi con dispotica arroganza. L’orologio ha però solo dieci sezioni – e non dodici come ci si aspetterebbe – poiché serve per regolare solo le dieci ore del turno di lavoro. Più in alto un altro orologio, più piccolo e meno significativo, è diviso in ventiquattro sezioni e cadenza invece le ore della giornata. Ore meno interessanti, se paragonate alle attività lavorative e alla loro razionalizzazione, parcellizzazione e controllo.
Infatti, all’interno di quel luogo archetipico della modernità che è la fabbrica conta solo la puntualità del lavoro, l’andamento irreversibile e sempre più rapido della produzione e del progresso tecnico. La società industriale appare insomma intrisa di quella razionalità pervasiva insita nella pianificazione dell’industria e dell’attività del capitale, così come nel minuzioso governo del tempo.
L’orologio, dunque, che rende il tempo astratto e misurabile, incatena l’uomo ai ritmi scanditi, fornendo la struttura della razionalizzazione otto-novecentesca, tanto che Lewis Mumford nel 1934 ne parlerà come dello “strumento basilare della moderna era industriale” (cfr. Mumford, 2005). Ma poi c’è la macchina, che nell’immaginario moderno è stata spesso associata a un senso di dominio e schiavitù.
Tra l’Ottocento e il Novecento, infatti, non sono stati in pochi a scorgere nella macchina la sintesi di quella razionalità tecnologica che sottomette gli individui alla propria ratio, all’imperturbabile logos del sistema tecnico. E non a caso, in una sequenza famosa del film di Lang, la macchina si trasforma in un Moloch mangia-uomini, suggerendo così un asservimento incatenante che impone il sacrificio degli individui proprio al Moloch della razionalizzazione e della disciplina onnipervasiva.
Non può non venire in mente, allora, il pur approssimativo Oswald Spengler. Egli individuava all’inizio del Novecento una natura demoniaca nella tecnologia delle macchine, e temeva quell’obbedienza totale imposta dal “mondo economico dell’industria meccanica”, sotto il giogo della costante innovazione tecnica elaborata dagli ingegneri, i “sacerdoti della macchina” (cfr. Spengler, 2002). A suo dire il tramonto della società occidentale, il decadimento di quell’eccellenza spirituale – morale e culturale – ormai irreversibilmente in atto, sarebbe in buona sostanza da imputare alla tecnica. Quello che presumibilmente intimorisce Spengler, come tanti suoi contemporanei anche oltre i confini tedeschi, è la tendenza imperante alla meccanizzazione di ogni settore dell’esistenza, lavoro compreso.

La forza lavoro industriale
E l’operaio di Metropolis è asservito all’andamento continuo e uniforme della macchina, a quel “perpetuum mobile industriale” autonomo rispetto al lavoratore (Marx, 1997), che impone di andare avanti nella produzione senza sosta. Così come senza interruzioni deve essere il ciclo produttivo, all’insegna di una disciplina temporale ferrea. Notiamo un parallelo con la teoria di Karl Marx. La velocità e l’intensità del lavoro risultano fortemente accresciute dalla tecnologia delle macchine. Ciò perché l’aumento della produzione attraverso un rafforzamento sempre più celere dell’apparato tecnico diviene l’unico modo per incrementare il plusvalore quando la giornata lavorativa non può subire ulteriori prolungamenti (ibidem). Il concetto è esplicito: per produrre sempre di più l’uomo è costretto a rendersi schiavo di una temporalità estranea, matematica, e dell’accelerazione produttiva che le macchine impongono. Eseguire le proprie operazioni nei tempi giusti, renderle meccaniche – quantunque spersonalizzanti – per obbedire alle leggi orarie imposte dai macchinari diviene un impegno inderogabile.
Il timore della schiavitù verso la razionalità tirannica della modernità si alimenta, nel film di Lang, anche di un’ulteriore fortissima raffigurazione metaforica. Nelle scene, ormai memorabili, del cambio turno, due masse omogenee e ordinate di operai si avvicendano camminando in direzioni opposte. Le cancellate dell’industria, del tutto simile a una prigione, si alzano lasciando passare le due schiere di lavoratori: la loro testa è reclinata, a caratterizzare una triste e dolente postura, il loro volto indistinguibile contrassegna un desolante anonimato, il loro stanco incedere, ordinato e sincronico, dà vita a una vera e propria danza mortifera.
Proprio la mesta armonia del loro passo – una configurazione ritmica che ha luogo anche in fabbrica – richiama alla memoria un saggio di Sigfried Kracauer, La massa come ornamento, uscito come il film nel 1927. L’intellettuale tedesco concepisce il carattere distintivo della massa nella sua dimensione ornamentale, simile a quella delle configurazioni dei balletti collettivi che allora si vedevano negli spettacoli americani: le sue forme sono razionali, composte da linee geometriche elementari e regolari; la sua uniformità è insensibile alla personalità o alle istanze dei singoli.
Nell’intera modernità, scrive Kracauer, in cui la ragione calcolante organizza il sistema socio-economico, “l’uomo può, senza attriti, scalare tabelle e servire macchine solo come particella della massa” (Kracauer, 1982). Ogni individuo rappresenta così una mera cellula di un insieme omogeneo di grosse dimensioni orientato alla produzione industriale. Esso è retto da una ragione astratta che finisce irrimediabilmente per trascendere l’uomo violando i suoi reali bisogni e la sua vera essenza. E, in questo organico meccanismo economico-produttivo, ognuno svolge la sua mansione elementare senza conoscere le finalità generali del tutto, all’interno di un ingranaggio massificante che si esprime in fredde coreografie razionali. Nell’ornamento matematico della massa industriale la soggettività dell’uomo è sconfitta, e con essa la sua libertà, compreso il suo affrancamento dai regimi temporali. Esattamente la condizione degli operai ondeggianti del film, che con i propri movimenti sincronizzati e cadenzati disegnano le loro struggenti configurazioni.

Lo stile di un’epoca nei modelli reali
D’altronde, l’architettura e l’urbanistica della “metropoli langhiana” (ispirate dalla visione dei grattacieli di New York) appaiono anch’esse contrassegnate da quel razionalismo tecnologico che proprio in quel periodo aveva gran peso nell’architettura occidentale, in special modo in Germania e negli Stati Uniti (cfr. Hughes, 2006.): edifici giganti che si levano verso il cielo; forme geometriche regolari; predominanza dei processi di tipizzazione e standardizzazione che coniugano la costruzione edile con gli assiomi della regolarità, della sistematicità e della ritmicità; trasporto urbano intenso e ben pianificato attraverso l’efficienza delle vie di comunicazione: è questa l’immagine che riceviamo. Ancora una volta emerge dunque la concezione della modernità come apotesi dell’oggettivazione razionale, della messa in opera del sapere tecnico in apparati astratti, funzionali, che guidano l’organizzazione delle strutture sociali.
Infine, per completare questa rassegna delle icone della modernità, che Metropolis presenta così vividamente, non può mancare il capitalista borghese, Fredersen. Tale figura è sicuramente percepita come il motore propulsivo della modernizzazione, avendo assunto un ruolo per così dire rivoluzionario di destrutturazione dell’impacciato e fiacco mondo premoderno (cfr. Marx, Engels, 1999). Fredersen impersonifica appieno quello spirito capitalista con cui la modernità definisce e percepisce il proprio impeto e la propria tensione a un futuro da plasmare. Tale spirito, direbbe Werner Sombart, amalgama le qualità borghesi con l’anima imprenditoriale. Le prime garantiscono a ogni attività, economica e non, razionalità, ordine, precisione, energica determinazione in relazione a uno scopo, moderazione e meticolosità.
La seconda è fatta di amore per l’avventura, spirito di inventiva e una solerte attenzione al denaro (cfr. Sombart, 1967 e Sombart, 1983). Ciò anche se Fredersen pare non certo vittima di auri sacra fames, di bramosia del denaro in quanto tale, quanto piuttosto smanioso di governare il processo produttivo e di definirne un progresso costante.

È a ogni modo indubitabile, e dobbiamo nuovamente far ricorso alle tesi di Sombart, che egli incorpori le caratteristiche peculiari dell’etica capitalistica: l’aspirazione all’infinito, uno slancio ideale verso mete sempre ulteriori, in barba a ogni limite; l’aspirazione al potere, la tendenza a imporsi, a piegare gli uomini alle proprie volontà; lo spirito di intrapresa, che incita a impadronirsi, colmi di intraprendenza, del mondo, per forgiarlo in base ai propri propositi evitando ogni forma di sterile contemplazione (Sombart, 1967).
Si tratta di un personaggio faustiano. Come nel Faust, infatti, si riscontra quella forma di vitalità che coniuga un’estesa volontà di espansione dell’io con il vigoroso sviluppo – economico, sociale – che la modernizzazione ambisce a generare. E per far questo è doveroso mettere in campo la più implacabile distruzione creativa: per costruire, evolvere di continuo, bisogna distruggere senza sosta le vecchie strutture. Tutto incessantemente e a una velocità sempre maggiore. Mirando sempre avanti, puntando dritto nell’avvenire come un rullo compressore. Si tratta di un paradigma prometeico, ambizioso ma rischioso al tempo stesso. E la minaccia distruttiva, come emerge dalla trama del film, è sempre dietro l’angolo.
In definitiva, è l’intero repertorio di rappresentazioni della modernità di Metropolis ad avere un che di prometeico. Lang coglie le dinamiche specifiche della modernità, le sue mirabolanti evoluzioni, ma mostra anche le paure sottese, le controindicazioni plausibili e potenzialmente inquietanti: dalla spersonalizzazione al senso di costrizione; dalla disuguaglianza cinica alla possibilità di tumulti e autodistruzione.
L’autodistruzione, in chiusura, è proprio il propulsore delle ansie più grandi del periodo, che si generano quando le promesse del progresso – tipiche dell’ottimismo ottocentesco – cominciano ad apparire quanto meno sospette. La Grande Guerra ha già insinuato il dubbio, poi verranno la Grande Depressione, il nazismo, la seconda guerra mondiale, il nucleare con il suo potenziale di annientamento, le ulteriori crisi finanziarie…
Basterà la speranza in un inverosimile accordo evangelico tra le parti sociali per ricostruire un ideale di progresso? È legittimo quanto meno restare guardinghi.

LETTURE
––   J. Thomas P. Hughes, Il mondo a misura d’uomo. Ripensare tecnologia e cultura, Codice, Torino, 2006.
––   Siegfried Kracauer, La massa come ornamento, Prismi, Napoli, 1982.
––   Karl Marx, Friedrich Engels, Il manifesto del partito comunista, Laterza, Roma-Bari, 1999.
––   Karl Marx, Il Capitale, Libro I, Editori Riuniti, Roma, 1997.
––   Lewis Mumford, Storia della macchina e dei suoi effetti sull’uomo, Il Saggiatore, Milano, 2005.
––   Werner Sombart, Il borghese, Longanesi & Co, Milano, 1983.
––   Werner Sombart, Il capitalismo moderno, UTET, Torino, 1967.
––   Oswald Spengler, Il tramonto dell’Occidente, Ugo Guanda Editore, Parma, 2002.