Ma cosa deve fare un genio assoluto del cinema per poter lavorare in santa pace? Basta scappare lontano da Hollywood? Questo scelse di fare Orson Welles (1915-1985), uno dei creativi più visionari e innovativi della storia dei media: atterrò a Roma nel 1947 e se ne andò nel 1953 tra litigi e malumori. Colui che nel 1938 aveva portato in radio una versione di La guerra dei mondi di H.G.Wells sceneggiata da Howard Koch, presentandola come una falsa breaking news su un’invasione aliena, smascherando così, con più forza di tanti saggi psicologici o sociologici, tutte le debolezze culturali USA (e quindi quelle di tutte le nazioni occidentali). La madre di tutte le notizie fake ha fatto conoscere al mondo il lato oscuro dei media di massa tra pifferai magici e isterie collettive.
Le origini di una leggenda
La carriera cinematografica di Welles parte con diversi handicap. Il primo è che a venticinque anni egli è un enfant prodige: balza alla notorietà con quel controverso show radiofonico sui marziani da cui deriva un contratto leggendario per realizzare Quarto potere. Aggiungiamo che il film d’esordio si rivela un capolavoro di tale innovatività nella tecnica narrativa da risultare spiazzante per i critici dell’epoca, generando una fonte inesauribile di oppositori e una marea di sfaccendati che descrive il suo lavoro come “barocco”, che siano o meno sul libro paga di William Randolph Hearst, il magnate americano preso di mira dalla sceneggiatura. La rancorosità di Hearst è, molto probabilmente, il vero motivo per cui Quarto potere e i film successivi di Welles saranno distribuiti poco e male. Si narra addirittura di una taglia finalizzata all’incendio dei negativi di Quarto potere. Per non parlare delle perfidie operate dai tanti scagnozzi del boss dentro e fuori gli studios. Insomma dopo aver simulato un’invasione aliena, dopo aver disturbato i manuali di cinema e, soprattutto, dopo aver criticato in modo così aspro e ambizioso il capitalismo americano e le sue dinamiche psicosociali, cosa restava da osare per puntare ancora più in alto? Forse niente. In un’intervista televisiva del 1982, Jeanne Moreau aveva definito Welles un “poverissimo re” che vive sempre in viaggio perché “su questa terra, nel modo in cui va il mondo, non c’è un regno abbastanza grande per lui”.
A diversi decenni dalla morte, continua l’autopsia di una leggenda del cinema tra scatole di pellicola smarrite e ritrovate, analisi di film incompiuti o terminati da altri, frottole raccontate dallo stesso Welles, testimonianze da set di film in costume dimenticabili e dimenticati, accanimento filologico generato da nuove incessanti rivelazioni. Anche dall’oltretomba il cineasta-prestigiatore continua a incantare. A conti fatti il lascito del genio si limita a una manciata di cult movies quasi tutti autofinanziati che non hanno mai potuto incontrare il grande pubblico perché fatti con poco e circolati male. Le ristrettezze (e le genialità) sul piano scenografico e logistico di questo cinema corsaro sono sotto gli occhi di tutti.
Prendiamo il film italiano David e Golia, prodotto da Angelo Rizzoli: uno sforzo produttivo Cineriz comunque insufficiente per un serio kolossal biblico. Welles è lì solo come interprete per motivi alimentari ma, nel ruolo di Re Saul, non voleva lasciare le sue scene al caso e pretese di scriverle e dirigerle. Per capire meglio basti il racconto dello stesso Welles a Peter Bogdanovich:
“Ho ereditato quelle tremende scenografie di cartapesta, un mucchio di comparse morte di sonno in brutti costumi, qualche flebile torcia…”
(Welles, Bogdanovich, 1996).
E per capire il tocco inconfondibile del maestro di cinema valgano le parole dello stesso Bogdanovich che, in quella stessa conversazione, riconosce tracce di Welles nel movimento di macchina intorno a un pilastro durante l’entrata in scena di Re Saul. Un gesto tecnico apparentemente semplice ma che in definitiva facevano in pochi all’epoca. Il gioco di prestigio è nel saper direzionare l’attenzione dello spettatore (ecco l’elemento che qualifica un grande narratore) nonostante l’evidente rozzezza della verniciatura di quella squallida colonna. La cifra di Welles è nel saper osare, nel cercare di essere sempre anticonformista in qualunque contesto. Welles fu dunque il primo creativo in assoluto a ottenere ciò che più di ogni altra cosa atterrisce Hollywood: una libertà completa. E fu anche il primo a perdere una cosa così notevole.
Chi era davvero Orson Welles
Quali che siano le origini del vagabondare di Welles, deve essere risultato piuttosto sospetto ad Alberto Anile che le storie produttive del genio si legassero spesso a un’aneddotica sui lati più coloriti del privato, specie durante i vari soggiorni in Italia. Con il libro Orson Welles in Italia, Anile prova a rispondere con obiettività a due domande: chi era davvero l’uomo dietro al personaggio e perché ha scelto l’Italia. Una ricostruzione che lavora molto di emeroteca e interviste, ma che cerca anche un respiro più ampio, specie in quest’ultima edizione che aggiunge nuovo materiale. Tanta attenzione al lato umano ma anche, qualcosa da dire sul cinema e sul rapporto tra creatività e industria. Welles cerca di stabilirsi in Italia fuggendo dal maccartismo e dagli intrighi dello show business americano. In particolare nel periodo cruciale dal 1947 al 1953, anni che devono aver plasmato nel regista quella scelta irrevocabile di vivere il cinema in maniera piratesca, godendosi la vita e filmando a modo suo, sempre in aperta sfida agli studios e alle metodologie tradizionali.
Perché l’Italia?
Il libro di Anile dichiara fin dall’introduzione il suo debito nei confronti di un documentario realizzato per la RAI dal titolo Rosabella: La storia italiana di Orson Welles, un lavoro del 1993 diretto da Gianfranco Giagni e Ciro Giorgini. Anile ne raccoglie l’interessante traccia per espanderla e arricchirla. Rosabella consiste in sessanta minuti sulle tracce di Welles in Italia, tra aspetti privati (la relazione con Lea Padovani, il matrimonio con Paola Mori, l’amicizia con il factotum Alessandro Tasca di Cutò ovvero l’uomo che smarrì i nasi finti di Welles) e professionali (i tanti progetti incompiuti). Un tempo disponibile sul sito RaiPlay, il documentario è ora una delle tante perle gelosamente custodite nei dungeon del servizio pubblico italiano. Vive solo nel ricordo di chi lo ha visto in tv su Fuori orario o nella volontà di raggiungere una qualche mediateca (leggi Fondazione Cineteca di Bologna) in grado di rendere possibile la visione. E in parte vive anche nel libro di Anile. E dunque perché l’Italia? Perché pensare in prima istanza al nostro paese preferendolo alla Francia del sud o ad altre mete altrettanto assolate? Lo spiega in parte lo stesso Welles attraverso la finzione. Il suo personaggio ne Il terzo uomo (Reed, 2014), Harry Lime, dice:
“In Italia sotto i Borgia, per trent’anni, hanno avuto assassinii, guerre, terrore e massacri, ma hanno prodotto Michelangelo, Leonardo da Vinci e il Rinascimento. In Svizzera hanno avuto amore fraterno, cinquecento anni di pace e democrazia, e che cos’hanno prodotto? Gli orologi a cucù”.
Il clima culturale e creativo nel Belpaese
Con l’affermazione del neorealismo, la cinematografia italiana del secondo dopoguerra aveva conquistato una certa autorevolezza internazionale, staccandosi coraggiosamente dalle tecniche hollywoodiane, dai teatri di posa e dai grandi budget. Si potrebbe dunque ipotizzare che all’epoca il Belpaese fosse visto come un vero e proprio polo culturale per i talenti creativi insofferenti alle rigidità del sistema americano. Qualcosa del genere avverrà poco dopo in Francia che nel corso dei decenni darà asilo a tanti grandi narratori in fuga dai rispettivi paesi di origine per le ragioni più disparate. Ma, come scrive Pupi Avati nell’introduzione al libro di Anile:
“Mentre a Hollywood Welles con opulenza di mezzi filmava l’opulenza, in Italia era con povertà estrema di mezzi che si filmava la povertà. Come farà a frequentare il verosimile colui che si è forgiato nell’inverosimile?”.
Dogmatismo, socialismo reale e passione strapaesana per il gossip: tutto confluisce in un pazzo flusso di inchiostro tipico di un paese in ricostruzione, in cerca di identità e dotato di una fiorente industria dei rotocalchi. Secondo Anile, l’Italia culturale dell’epoca aveva detestato sin dall’inizio la (supposta) autoreferenzialità del genio e dei suoi gloriosi propositi (araldo di una colonizzazione culturale da parte degli americani?) e si impegnò a costruire “una mitologia superficiale e sensazionalistica che lo voleva personaggio istrionico e inattendibile”. Nel libro si parla molto di mondanità e di critici cinematografici e fa uno strano effetto trovare sempre invariabilmente più interessante leggere di Welles che si scatena in pista con Jennifer Jones rispetto al grigiore di un Casiraghi o di un Aristarco che, “cresciuti nel culto del cinema che parlava di masse alle masse” vedevano nella tecnica di Welles solo frivolezze e “barocchismo”. Ricorre spesso l’accusa di “barocchismo”, un attrezzo sempreverde tipico di chi non vuole o non può argomentare. Rilette oggi fanno tanto ridere le performance dei critici nostrani infastiditi dagli stacchi improvvisi e dalle inquadrature dei soffitti (che, tra l’altro, Welles aveva copiato da John Ford avendo preso Ombre rosse come manuale prima di girare il suo esordio hollywoodiano). Roberto Perpignani, montatore de Il processo, film con cui Welles rilegge e attualizza Kafka, offre una preziosa intervista che Anile inserisce tra le novità della riedizione. Testimonianza preziosa perché finalmente si parla di cinema con chi è del mestiere.
Perpignani parte dalla fumosità della critica italiana per poi offrire un bellissimo racconto di come Welles gli abbia insegnato a pensare le cose in termini cinematografici, spiegandogli con i segni sulla pellicola che il découpage (ovvero l’anima del cinema) è una questione di percezioni che passano per misure esatte. Da Il processo prendiamo la scena del pestaggio dei due poliziotti nello sgabuzzino e soffermiamoci “sui ritmi delle battute, sui ritmi della luce, sui ritmi dei tagli di montaggio”. Perpignani evidenzia una freccia subliminale non facile da cogliere nella concitazione degli stacchi. In un paio di frame manca Perkins in discontinuità con altre inquadrature della stessa scena. Un difetto nella continuità scenica in quel caso forse dovuto ad una aggiunta successiva di nuove inquadrature, un’intuizione del maestro. In ogni caso il mago riesce a far transitare oggetti, personaggi o concetti che non sono visibili, fratture che non si colgono immediatamente ma che poi vengono ricomposte nel flusso e generano un effetto più potente della banale visualizzazione “perché noi viviamo di percezioni” più che di immagini.
Perpignani è anche l’uomo che tagliò dieci minuti da Quarto potere per una nuova edizione italiana che finirà anche in televisione. Pieno di vergogna accettò l’incarico consapevole che altrimenti qualcun altro lo avrebbe fatto tagliando senza pietà, magari il cinegiornale all’inizio, un’idea fondamentale che in molti non riuscivano a capire e che costituisce una bozza del genere mockumentary molto ma molto in anticipo sui tempi. Alla fine se la cavò sferruzzando piccoli tagli un po’ ovunque.
“ma dieci minuti son tanti… Mi sentivo di merda.”
Il capitalismo della creatività ha la coda lunga
Il confronto tra il presente e le sovrumane sfide creative lanciate da Orson Welles, restituisce un quadro talmente complesso e frastagliato da rendere impossibile decidere cosa fosse meglio tra ieri e oggi. Ieri la creatività mainstream era inequivocabilmente nelle mani di politici e potentati economici come quello di Hearst (in pratica clan e mafie) ma poi offriva personalità uniche come Welles. Oggi invece regna il capitalismo della coda lunga e il mainstream non è più così centrale, lasciando proliferare le nicchie come quelle delle serie o dei film d’essai. Ieri c’era la cricca dei critici parrucconi, persone spesso prive di talento che avevano (incredibilmente) il potere di stroncare carriere. Oggi l’analisi filmica è più frammentata e diffusa, lontano dalle chiese e dai dogmi, in qualche modo liberata e democratizzata grazie alle reti digitali. Certo bisogna pagare una tassa: i social media rendono protagonisti del dibattito pubblico influencer e creator digitali che di solito sono persone prive di talento (proprio come gli antichi parrucconi), ma che da first comer si prendono meccanicamente la scena. Fortunatamente oggi il potere esercitabile da un piccolo o grande commentatore digitale può al massimo compattare un esercito di follower, non certo dare fastidio alla complessa galassia delle nicchie e delle bolle comunicative in cui può rifugiarsi un pubblico in fuga dalla lobotomia del trash e dalle minestre riscaldate. D’altro canto un artefatto audiovisivo si basa su un impegno collettivo che resta una faccenda squisitamente industriale, allora come oggi. E così si cerca ancora la medietà. In una delle prime interviste italiane riportate da Anile, Welles dice:
“La quantità mostruosa di denaro necessaria per fare un film, qualunque film americano, la varietà immensa di pubblici ai quali dobbiamo piacere, il conservatorismo di uomini d’affari responsabili della finanza di Hollywood, preoccupati di far tornare a casa i milioni spesi, fanno sì che ci si avventura difficilmente lontano dal sentiero battuto”.
Quanto è attuale questa osservazione? Proprio oggi che si intravedono crisi di creatività e che le uniche innovazioni vengono quasi sempre dalle nuove piattaforme streaming, newcomer che hanno bisogno di farsi conoscere e sono dunque disposti a sperimentare in perdita. Questo mentre le majors attendono l’avvento delle intelligenze artificiali come producer (se non lo fanno già), reti neurali in grado di profetizzare il destino commerciale di ogni singolo progetto in fieri. Viene in mente il gigantesco elaboratore elettronico che si intravede ne Il processo e che il Signor K immagina di poter interrogare per conoscere il suo status. Welles, sempre in anticipo, aveva forse fiutato già negli anni Sessanta l’inganno delle statistiche manipolabili da bias, la vacuità di una politica e di un uomo medio che si nascondono pavidamente dietro al responso dell’oracolo digitale, l’aridità di una cultura dei numeri applicata (male) a ogni campo dello scibile umano. Welles continuò fino alla fine a esaltare la creatività arrangiandosi e improvvisando, quasi preconizzando pratiche hacker persino in un campo così inequivocabilmente industriale come il cinema.
Non ci resta che sperare nella sopravvivenza di questa vocazione piratesca per aiutare l’umanità a non affogare: nella noia della prevedibilità; in una medietà numerica che puzza di gabbie di consumo; in quella mediocrità tanto detestata da Orson Welles.
- Orson Welles, Peter Bogdanovich, Io, Orson Welles, Baldini e Castoldi, Milano, 1996.
- Ciro Giorgini, Gianfranco Giagni, Rosabella: la storia italiana di Orson Welles, Tape Connection, Filmago, 1993.
- Carol Reed, Il terzo uomo, Studio 4k, 2014 (home video).
- Orson Welles, Quarto potere, Dynit Rko, 2014 (home video).
- Orson Welles, Il processo, Filmauro, 2009 (home video).