James Woods rimarrà nella storia del cinema per il suo Max in C’era una volta in America (1984) di Sergio Leone. O per l’ossessionato consumatore di televisione e fantasie erotiche in Videodrome (1983) di David Cronenberg. Difficilmente ci si ricorderà del suo ruolo di spietato cacciatore di vampiri, e forse con qualche torto. Perché, anche se non in presenza di un capolavoro, Vampires, film di John Carpenter del 1998, ha tutto per essere un buon prodotto di genere. Ambientazione, trama e un cast di attori piuttosto interessante.
Siamo in Nuovo Messico, terra dove le case sorgono distanti anche decine di chilometri le une dalle altre. Un posto ideale per i vampiri, che possono nascondersi e proliferare senza destare l’attenzione di cacciatori o forze dell’ordine. Una squadra di guerrieri della luce, capitanati dal vecchio e saggio Jack e dal suo amico esperto di tecnologia Montoya, gira per le distese desertiche alla ricerca dei succhiasangue e del loro creatore, Valek, il vampiro Maestro che fa da infezione primaria. Scoperto e ucciso lui, cesseranno molte delle nuove vampirizzazioni.
Valek, però, è un essere millenario, saggio, che ha capito da tempo come stare al mondo e sopravvivere, e non ha nessuna intenzione di morire. Crede, anzi, sia un diritto dei vampiri quello di proliferare e nutrirsi degli esseri umani. Dopo l’ennesima caccia, il gruppo viene improvvisamente attaccato da lui. Jack e il suo amico Montoya sono gli unici che riescono a fuggire, portandosi dietro Katrina, una prostituta. I due si rendono subito conto che la donna è stata morsa dal vampiro, ma intendono sfruttare il contatto telepatico che stabilirà con Valek per seguire le sue mosse. Il vampiro vuole infatti compiere un rito per poter sopravvivere anche alla luce del sole e solo Jack può scovarlo e ucciderlo prima che possa accadere. L’improbabile terzetto, al quale si aggiungerà un giovane prete alle prime armi, proverà quindi a salvare il mondo da Valek, non senza qualche piccolo colpo di scena finale.
Al di là delle incongruenze tipiche di un horror blockbuster, come la croce francese che arriva non si sa bene quando e perché in un piccolo villaggio del Nuovo Messico, o la comparsa di personaggi poco armonizzati con gli altri, il film si vede volentieri. Non aggiunge molto alla figura del vampiro ma è un primo tentativo, rispetto ai molti che accadranno negli anni successivi, di attualizzare in contesti meno consueti la figura del succhiasangue. Valek non vive in Romania, non occupa castelli e non soggiorna nelle cantine di lugubri palazzi d’epoca. Aspetta che il sole tramonti nel deserto americano, fra fast-food, motel e autostrade. Ha capito che il mondo in cui vive è mutato e vuole esserne pienamente protagonista. Come i vampiri della saga di Blade, che vorrebbero trasformare l’umanità in un allevamento, o quelli fortunatissimi di 30 giorni di buio, che infestano l’Alaska sfruttando il lungo periodo senza sole delle terre artiche.
Il deserto diviene un luogo di frontiera, un confine fra la civiltà, ormai decadente in molte sue espressioni e la conservazione dei succhiasangue, antichi e attuali allo stesso tempo. La permanenza di un modello non consente lo sviluppo e la sopravvivenza dell’altro e per questo lo scontro è inevitabile. Lo stesso Carpenter affermò, nel 1998, che la violenza era una caratteristica fondamentale della pellicola, che evidenziava l’impossibilità di una coesistenza pacifica fra elementi per loro natura antitetici e conflittuali. Il pericolo non giunge infatti a noi per i classici sentieri della paura, non colpisce gli audaci e tracotanti che ne sfidano le leggi; non si va nel buio a giocare ma è il buio che arriva da noi, che si rende quotidiano, comune, per questo molto più difficile da estirpare o contenere.
I vampiri di Carpenter, oltre a una propensione a esplodere alla luce del sole partendo dai gomiti, preferiscono immaginare la loro vita nei sotterranei di vecchie case coloniali, di fronte alla stazione della benzina, luoghi che abitavano anche in vita. Diversi in molte caratteristiche da quelli raffinati di Anne Rice o più moderni e metropolitani di Stephen Norrington (Blade).
Le atmosfere richiamano in parte quelle di Stephen King de Le Notti di Salem, dove la provincia americana diviene luogo e teatro dello scontro fra forze del bene e del male, ma se ne distaccano anche nettamente per quel che riguarda l’astuzia e l’intelletto dei non morti. Tranne Valek, gli altri sono infatti più simili a zombie privi di intelligenza, che grugniscono piuttosto che parlare.
Non deve esserci compassione, o alcuna fascinazione verso queste figure: il vampiro dagli occhi penetranti che fa innamorare di sé le sue vittime non ha nulla a che spartire con queste figure semi-moventi che rappresentano la bestialità, l’istinto dominante sull’intelligenza. L’eroe, o gli eroi, sono figure con pochissime ambiguità e la luce deve prevalere, senza alcun dubbio, sulla parte da sostenere e per la quale fare il tifo.
Il film di Carpenter non risulta una pietra fondamentale della cinematografia orrorifica sui vampiri ma si vede molto volentieri per ritmo e intensità. Non sempre si è di fronte a un Maestro, alle volte ci si deve accontentare di un buon, solido, vampiro di medio profilo.