La tensione verso l’assoluto dell’intellettuale Hermann Broch giocò più di un tiro mancino all’Hermann Broch scrittore. Ne fecero talora le spese i suoi personaggi, prigionieri della speculazione filosofica, della coazione a restaurare valori ormai perduti di una totalità andata in frantumi. Un inseguimento destinato al fallimento, come tutte le imprese nobili della modernità. Medesima sorte, fedelmente rispecchiata, capitò all’autore, perennemente alla ricerca di una forma romanzo in grado di soddisfare quell’anelito profondo. Emblematica è la sorte de Il sortilegio al quale Broch lavorò per quasi vent’anni, progettandolo in una certa maniera, concludendolo diversamente, successivamente riscrivendolo con malcelata insoddisfazione, a tal punto insoddisfatto da avviarne una terza stesura non terminata perché a concludersi fu la sua esistenza il trenta maggio del 1951. In origine avrebbe dovuto chiamarsi Romanzo della montagna, dando il via a una seconda trilogia dopo I sonnambuli dal titolo Demetra. Siamo nel 1935 e quel primo romanzo prende il nome definitivo de Il sortilegio, dopo avere scartato anche altre ipotesi (Romanzo alpino, Romanzo rurale, Romanzo religioso). Un anno dopo è concluso, quasi concluso, Broch invece di rifinirlo decide di riscriverlo, ampliandolo. Decade l’idea della trilogia. I tempi però stanno cambiando pericolosamente. Prima incarcerato (Broch è di origine ebraica) e poi rilasciato nel 1938, lascia la Germania e si rifugia negli Stati Uniti. Qui riprenderà a lavorare a Il sortilegio. Lascerà soltanto cinque dei dodici capitoli che aveva in mente di scrivere.
Il romanzo è tornato ben due volte nelle librerie italiane nel 2023, dopo un’assenza quarantennale, due edizioni che propongono entrambe la traduzione di Eugenia Martinez realizzata per la storica edizione Rusconi del 1982. Si tratta della prima versione, quella terminata nel 1935. L’hanno dato alle stampe Elliott, corredandolo con un saggio introduttivo di Andrea Caterini, e più di recente Carbonio (dopo aver pubblicato in una nuova traduzione un altro romanzo brochiano, L’incognita), che ripropone invece l’introduzione firmata da Italo Alighiero Chiusano, testo che comparve anche nella raccolta di studi sulla letteratura tedesca Literatur. Scrittori e libri tedeschi, uscito sempre per Rusconi negli anni Ottanta e oggi fuori catalogo. Un’introduzione esemplare, che oltretutto ripercorre nel dettaglio le vicende delle varie stesure del romanzo e delle pubblicazioni postume.
Gli eventi narrati da Broch sono in prima battuta una parabola dell’ascesa del nazismo e del suo Führer. Come si svolsero i fatti li racconta un medico trasferitosi da una decina d’anni dalla città in un tranquillo villaggio alpino, o meglio due frazioni alle pendici di una montagna da cui prendono il nome: Kuppron-di-sopra e Kuppron-di-sotto. C’è una tragica storia d’amore nel suo passato, alla quale Broch dedica pagine indimenticabili. È un mondo quieto quello in cui si è rifugiato. Lì il tempo è segnato dallo scorrere delle stagioni e su questo ruotare naturale dell’esistenza insiste il romanzo con magistrali descrizioni dei cambiamenti del clima, del paesaggio, degli umori. Eccone un’immagine:
“Tutto era dimenticato. La neve aveva coperto ogni cosa. Di nuovo l’inverno, per poco ricacciato indietro, irrompeva; scavalcando la parete del Kuppron, dietro la quale si era tenuto nascosto, era balzato impetuosamente giù nella valle, con una tempesta di neve […] Pur se la neve ammucchiata sui terrapieni ostruiva le strade, e il bianco pulviscolo di ghiaccio alitava sui declivi e sui campi, non si sentiva, nonostante l’apparenza natalizia, il clima natalizio, perché il vento di marzo non è un vento decembrino, e l’uomo di marzo non è l’uomo del dicembre. Tutto era a un tempo più nitido e più dolce di com’era stato in dicembre, nitidezza e dolcezza erano altrimenti distribuite”.
In questa cornice appare un bel giorno un ometto che sfoggia baffetti e tratti meridionali, ovvero italiani, come denuncia anche il suo nome: Marius Ratti. Sfoggia una retorica sulle prime poco convincente, ma via via sempre più seducente su quasi tutti gli abitanti delle due frazioni. Parla di ritorno alla natura, inveisce contro le macchine agricole, le radio e il sapere delle donne. È un ciarlatano, eppure fa sempre più presa sui paesani. Aizza la popolazione un tempo pacifica contro un tranquillo, innocuo agente e rappresentante di commercio (tale Wetchy), un capro espiatorio su misura per i suoi vaneggiamenti. Trova un fido braccio destro, lo scagnozzo Wenzel, che impiega poco a creare una sorta di gruppo paramilitare composto dai giovani paesani. Il delirio strisciante e pressante porterà a fatti di sangue e di morte, a riti di ascendenza pagana, alla cacciata, al miraggio di trovare oro nelle viscere della montagna, alla presenza dominante di Ratti. Una guida, un Führer, un Marius Ratti, un salvatore, quale evocato in chiusura de I Sonnambuli, “che con la propria azione darà significato alle vicende incomprensibili dei nostri giorni, perché si ricominci a contare il tempo” (Broch, 2010). Premonizione beffarda, dove l’utopica ricerca brochiana dell’Assoluto scivola e si sbriciola nel Totalitarismo che la storia di quegli anni vedeva trionfare. Allegoria dell’avvento del nazismo, Il sortilegio non è l’unico romanzo che ai tempi mise sull’avviso sull’inarrestabile ascesa del Male. Un altro Mario, era apparso nel 1930 nel racconto di Thomas Mann, Mario e il mago, storia di illusione, persuasione e manipolazione, lettura lucida dello Zeitgeist. mentre prima di precipitare nell’apocalisse, nel 1939 fu Ernst Weiss a descrivere nel romanzo Io, testimone oculare, la presa del potere da parte di Hitler e dei suoi accoliti. Inoltre, come segnalava Chiusano, vanno aggiunte a queste denunce letterarie, La tela di ragno di Joseph Roth e La resistibile ascesa di Arturo Ui di Bertold Brecht. A contrastare Ratti, Broch schierò il medico narrante, pacato e ragionevole oppositore e soprattutto Madre Gisson, l’anziana del paese, figura che simbolicamente incarna la saggezza mitica della comunità, quel sapere antico che il nuovo venuto vuole estirpare.
È uno scontro tra valori, tra visioni del mondo ed è in questo affrontarsi che affiorano i difetti di Broch, ovvero l’esuberanza dei suoi saperi (dalla filosofia all’antropologia) sulla narrazione. Il sortilegio è davvero emblematico della condizione stessa dello scrittore Broch, della sua idea di romanzo e dei lacci e lacciuoli speculativi che frenano, talvolta congelano i suoi personaggi e il loro agire. A ben vedere, la sua prosa appare assai simile al sinfonismo bruckneriano, laddove, come ebbe a scrivere, uno dei massimi direttori d’orchestra del XX secolo, Wilhelm Furtwängler: “Bruckner non operava per l’oggi: nella sua arte pensava solo all’eternità, e per l’eternità ha creato” (Furtwängler, 2017). Romanzi come sinfonie che paiono gigantesche cattedrali, frutto di un’architettura predisposta per dar luogo a una “divagazione inesausta” (Martinotti, 2003). Fu proprio il maggior estimatore dell’arte bruckneriana, Gustav Mahler, a indicarne il punto debole, quella poca linearità dello sviluppo melodico: “Dalla posterità […] che recepisce solo ciò che è completo, perfetto, sarà ancora meno amato e capito” (in Bauer-Lechner, 2011). Proprio Mahler, tralaltro, sarà il modello a cui guardò Broch nel suddividere in quattro movimenti La morte di Virgilio, maestosa sinfonia verbale. Ciò detto, resta l’arte del narratore di razza, che anche in Il sortilegio regala pagine e pagine di bellezza immacolata, specie nelle descrizioni di ambienti e paesaggi, in un periodare avvolgente, ipnotico, che si fa progressivamente innodico quando sale in cattedra il filosofo e il mistico. Una lettura che premia anche quando la sfida per il lettore prossimo all’apnea si fa ardua. Il passo che segue è un estratto da un periodo del sesto capitolo che scorre inarrestabile per ben cinquantadue righe, ben esemplificando l’arte di Broch:
“E spesso, guardando giù nella valle, al tramonto e nel tremolio d’oro del suo sorridente riflesso, mi sento pieno di uno stupore ancora più grande, poiché, come in un’incessante e multiforme metamorfosi, mi rendo conto che il mio sguardo non è veramente rivolto verso i luoghi sui quali pur riposa tranquillo, ma si fissa stupefatto dentro di me, al medesimo modo in cui io guardo le fattorie di questa terra; è così: colui che guarda non è quello che sta qui seduto, non è l’uomo che avanza negli anni, che è stato un bambino che, un anno dopo l’altro, ha camminato, arrampicandosi tra gli abissi nebulosi del tempo; e nemmeno è quello in cui la memoria si è andata accumulando, strato per strato, frammista a brani di scienza medica, e nemmeno quello che una volta ha dormito nell’alito di una donna e che un giorno riposerà solitario, spenta la memoria che non ha mai riposo, e che continuamente ancora si accresce, contro il rapido oblio del tempo. No, colui che guarda non è tutto ciò; no, non sono io questo, non lo sono mai stato: io mi nascondo invece in un involucro intimo, segreto, sicuro, io sono come in una campana d’immersione, tanto mi sento calato in me stesso, tanto mi sono immerso nel mio intimo, che l’intero corso di codesta vita, insieme con la fine che sarà la sua fine, non sembra riguardarmi in particolare”.
In Broch la tensione etico-metafisica prevarica a più riprese sull’estetica del romanziere, ma quando, come in questo caso, le due istanze si fondono, la sua prosa si fa davvero sublime. D’altronde secondo Broch il romanzo aveva una missione gnoseologica nei confronti del mondo. Da qui la commistione con materiali diversi, la sua particolare accezione di romanzo-saggio, uno dei doni della cultura mitteleuropea, circoscritto a un Io lirico e meditabondo, quello del medico, nel passo sopra riportato, ma altrimenti elaborato con ogni mezzo. Esemplare soprattutto è il terzo romanzo de I sonnambuli (Huguenau o il realismo), nel quale proliferano stili, registri e materiali eterogenei, dando vita a una polifonia che alterna/affianca narrazioni onniscienti, un saggio in dieci capitoli, poesie, aforismi e finanche un articolo di giornale.
Un romanzo-saggio è per molti versi anche Il sortilegio. Nel suo descrivere l’attrazione fatale dell’individuo nei confronti della massa e la conseguente regressione dei suoi istinti, appare evidente la conoscenza di Broch dei maggiori studi sul tema, quali Psicologia delle folle (1895) di Gustave Le Bon e Psicologia delle masse e analisi dell’Io (1921) di Sigmund Freud, ma anche i lavori sul matriarcato di Johann Jakob Bachofen, per via delle numerose figure femminili che affiancano Madre Gisson. Eppure il centro del romanzo è altrove, posto a maggiore profondità: consiste nel costante rimuginare sulla morte, nel continuo sottolineare il passaggio dei mortali da un’eternità a un’altra. Intuì bene Ladislao Mittner il senso profondo dell’opera brochiana nel suo insieme quando scriveva che “il vero e in fondo unico tema di Broch è la disperata solitudine dell’anima di fronte al sentimento della morte, è l’inestinguibile anelito verso l’eternità, verso Dio” (Mittner, 1975). Il sortilegio è dunque allegoria sulla relazione tra masse e potere calata nella realtà storica degli anni Trenta, ma è prima di tutto una sinfonia sulla caducità dell’essere e sulla sua redenzione possibile come riepiloga magnificamente questo passo, parole pronunciate da Madre Gisson in punto di morte:
“Io ho appreso che non dobbiamo necessariamente morire con la nostra morte, ma che possiamo sopravvivere; e allora la morte non è vana, non è inutile, perché la stessa amara morte allora è vita, e ciò che è vita non è mai inutile. E ho appreso che, se volevo vederla, non dovevo guardare al termine estremo, ma al centro della nostra esistenza, là dove si trova anche il nostro cuore… Sì, è così forte questo centro, che supera sia il principio che la fine, che riesce a penetrare nella zona oscura e paventata dagli uomini, ed essi non sanno scorgervi altro che la tenebra e il nulla… Ma, quando è così cresciuto, il centro manda la sua luce al di là di ogni soglia, al di là dei più lontani confini, e allora non c’è più differenza tra ciò che è passato e ciò che verrà; noi dobbiamo guardare al di là, a quelli che sono morti, e parlare con loro; ed essi vivono con noi”.
- Natalie Bauer-Lechner, Diario di un’amicizia, il Saggiatore, Milano, 2011.
- Hermann Broch, I Sonnambuli, Huguenau o il realismo, Mimesis, Milano-Udine, 2010.
- Wilhelm Furtwängler, Suono e parola, Manzoni Editore, Merone (CO), 2017.
- Sergio Martinotti, Bruckner, Edt, Torino, 2003.
- Ladislao Mittner, La letteratura tedesca del Novecento, Einaudi, Torino, 1975.