Sulla modernità di Guido Cavalcanti basterebbe ricordare quanto scrisse Italo Calvino a proposito di un suo bellissimo sonetto, Noi siàn le triste penne isbigotite. In questa poesia, inclusa anche nell’antologia Donna me prega pubblicata da Ponte alle Grazie con curatela di Giancarlo Pontiggia, parlano gli strumenti dello scrivere, gli oggetti dello scrittoio: primo esempio di teatralizzazione dell’attività compositiva dove la scrittura stessa evidenzia la condizione straniata del poeta (che è “sì presso a la morte”). Con questi versi Guido Cavalcanti “apre le porte verso la poesia moderna. […] Bisogna aspettare Mallarmé perché il poeta si renda conto che il luogo dove avviene la sua poesia si situa «sur le vide papier que sa blancheur défende»” (Calvino, 2009). Se con la canzone Donna me prega, Guido Cavalcanti si pone come un antesignano della poesia dottrinale e ricercata, da ammirare sul duplice piano dello stile e dei contenuti filosofici, il primo verso della ballata Perch’i’ no spero di tornar giammai/ballatetta, in Toscana ritorna come incipit di Mercoledì delle Ceneri (1930) di T. S. Eliot:
“Because I do not hope to turn again
Because I do not hope
Because I do not hope to turn”
(T.S.Eliot, 2000).
“Tu porterai novelle di sospiri/piene di dogli’ e di molta paura”: è il timbro malinconico, spesso angosciato e pessimista della poesia di Cavalcanti, nato in un anno compreso tra il 1255 e il 1259 da una delle famiglie più in vista di Firenze. Poeta e filosofo razionalista in odor di averroismo, ricchissimo, aristocratico introverso e passionale, Cavalcanti è già un personaggio del suo tempo, come ricorda Gianfranco Contini:
“Concordano nella descrizione dell’intellettuale aristocratico le testimonianze del Compagni, del Villani, del Boccaccio, per dire solo delle più autorevoli; ma col Boccaccio già entrano elementi leggendari, in particolare la collocazione di Guido tra gli epicurei, volti a cercare argomenti contro l’esistenza di Dio. […] Una novelletta del Sacchetti lo raffigura addirittura come il filosofo acchiappanuvole cui perfino un bambino è capace di fare burle. La borghesia mercantile trecentesca dava dunque del grande duecentista un’interpretazione folcloristica (neppur la figura di Dante ne andò esente) […] Fu il Cavalcanti a scoprire il giovane Dante e a segnarne indelebilmente la carriera”
(Contini, in Cavalcanti 2001).
Ecco come Boccaccio descrive Guido Cavalcanti nella novella nove della sesta giornata:
“egli fu un de’ migliori loici che avesse il mondo, ed ottimo filosofo naturale, […] sì fu egli leggiadrissimo e costumato e parlante uom molto (…) era ricchissimo […] Guido alcuna volta speculando molto astratto dagli uomini divenìa; e per ciò che egli alquanto tenea dell’oppinione degli epicurei, si diceva tra la gente volgare che queste sue speculazioni erano solo in cercare se trovar si potesse che Iddio non fosse”
(Boccaccio, 2021).
L’inizio dell’amicizia tra Cavalcanti e Dante è suggellato dal sonetto Vedesti, al mio parere, onne valore, inviato in risposta ad A ciascun’alma presa e gentil core, sonetto che Dante spedì a “tutti li fedeli d’Amore” perché giudicassero la visione onirica di una donna (Beatrice) che, in braccio a un signore di “pauroso aspetto”, tiene il cuore di Dante in mano e se ne nutrica, immagine pulp ripresa anche dal film di Pupi Avati. Come racconta lo stesso Dante nella Vita Nova “questo [sonetto: Vedesti, al mio parere, onne valore, ndr] fue quasi lo principio de l’amistà tra lui e me” (Dante, 2009). Come sottolinea Pontiggia:
“L’intera Vita nuova può essere considerata come una sorta di omaggio a Guido, il fondatore dello stilnovo fiorentino e colui che ha iniziato il giovanissimo Dante non solo alla poesia, ma a un’idea radicalmente nuova di poesia, nutrita di pensiero e di visione, stilisticamente lontana dai modi artificiosi e disarmonici, eccessivamente retorizzati, di Guittone d’Arezzo, che ancora dominava in quel momento la scena letteraria di Toscana. Eppure bastano pochi anni perché Dante cominci ad allontanarsi dalle visioni poetiche, e non solo poetiche, dell’amico: ne è testimonianza il sonetto cavalcantiano I’ vegno ‘l giorno a te ‘nfinite volte, con l’asprezza inusitata dei rimproveri che Guido rivolge a Dante, e che si riassumono nel lemma-chiave del testo, la viltà”
(Pontiggia in Cavalcanti 2023).
Donna me prega e la natura dell’amore
Il testo delle poesie di Guido Cavalcanti pubblicate in questa antologia si basa sull’edizione di Gianfranco Contini in Poeti del Duecento. Il titolo, Donna me prega, viene dal primo verso della canzone dottrinale (“Donna me prega, -perch’eo voglio dire”) lodata dallo stesso Dante nel De Vulgari Eloquentia, e considerata fra le poesie più difficili della letteratura italiana. In Donna me prega, Cavalcanti pone, già nella prima stanza, una serie di questioni (otto, per la precisione) – forse stimolato da quanto gli chiedeva Guido Orlandi nel sonetto Onde si move e donde nasce amore? – alle quali risponderà nelle strofe successive. Già nei primi versi troviamo una precisa definizione dell’Amore:
“Donna me prega -per ch’eo voglio dire
d’un accidente -che sovente – è fero
ed è sì altero -ch’è chiamato amore:
sì chi lo nega – possa ‘l ver sentire!
[…]
Vèn da veduta forma che s’intende,
che prende- nel possibile intelletto,
come in subietto,- loco e dimoranza.
In quella parte mai non ha pesanza
perché da qualitate non descende:
resplende – in sé perpetüal effetto;
non ha diletto -ma consideranza;
sì che non pote largir simiglianza”
(vv. 1-4 e 21-28).
L’amore è un “accidente” che spesso è “fero” (feroce). “Accidente” è termine aristotelico: indica l’opposto di sostanza, di ciò che è in sé e per sé. Accidente è una modalità della cosa che non è essenziale a ciò che la cosa è in sé. Dante nella Vita Nova dà una definizione dell’Amore sostanzialmente in linea con quella del Cavalcanti: “Amore non è sì come sustanzia, ma è uno accidente in sustanzia” (Dante, 2009). Parafrasando i versi succitati, Pontiggia scrive:
“[Amore] si insedia e si fissa stabilmente in quella parte dell’anima dove si trova la memoria, originato da un’oscurità [cioè da un influsso maligno] che deriva da Marte, così come un corpo trasparente prende forma quando è attraversato dalla luce. [Amore] è generato da una forma vista con gli occhi, che diventa un’immagine mentale, e si insedia nell’intelletto possibile, che è il vero soggetto di ogni atto conoscitivo. Su quella parte [Amore] non può nulla perché l’intelletto possibile non deriva dalla combinazione delle qualità fisiche degli elementi”
(Pontiggia, in Cavalcanti 2023).“L’amore dunque, per il Cavalcanti, è una passione che viene non dalla potenza razionale dell’anima, cioè dall’intelletto, ma da quella che «sente» cioè dall’anima sensitiva, la quale è perfezione del corpo, e tale è ritenuta dagli averroisti. Se l’anima sensitiva è perfezione dell’uomo, vuol dire che perfezione non è l’intelletto che resta una sostanza separata, e può dirsi «parte dell’anima», come s’esprime Aristotele, solo nel senso che, unendosi all’anima vegetativo-sensitiva, come insegnava Sigieri, forma con questa un’anima composta”
(Nardi 1983).
Siamo di fronte, per riprendere le osservazioni di Maria Corti, a una bipolarità ermeneutica:
“Background cavalcantiano scolastico-tomistico o averroistico? A seconda della risposta le ricerche tendono a illustrare il concretarsi di un ideale stilnovista dell’amore angelicato, la trasfigurazione metafisica dell’immagine della donna, oppure partendo da una posizione averroistica di Guido, accentuano il carattere irrazionale, sensibile e violento dell’amore in questa poesia, di un amore passione dell’anima, averroisticamente intesa, e appetito del cuore, donde trarrebbe origine il pessimismo cavalcantiano e la concezione del nefasto influsso amoroso proveniente da Marte”
(Corti in Cavalcanti 2001).
Se è vero, come sostiene Bruno Nardi, che la canzone Donna me prega è un manifesto dell’averroismo di Cavalcanti, difficilmente Dante poteva seguire il “primo amico” su questa strada, soprattutto quando fu pienamente elaborata l’idea di Beatrice come guida celeste verso Dio. Le famose parole-manifesto di Francesca nel canto V dell’Inferno, “Amor, ch’al con gentil ratto s’apprende/prese costui della bella persona/che mi fu tolta…Amor, ch’ha nullo amato amar perdona/mi prese del costui piacer sì forte”, (Dante, 1989) possono essere lette in chiave filosofica proprio come la raffigurazione drammatica dell’Amore generato da “veduta forma” e dominato poi dalla dinamica dei sensi, che Cavalcanti descrive in Donna me prega. Questa divergenza di opinioni su una materia allora così delicata può essere stata alla base della successiva rottura tra Dante e Guido? Probabile, ma non certissimo.
Il disdegno di Guido
Ma non è solo nella Vita Nova che Dante cita positivamente Guido Cavalcanti. Nel Purgatorio, sulla cornice dei superbi, Oderisi da Gubbio, il celebre miniatore, ricorda a Dante che
“così ha tolto l’uno all’altro Guido
la gloria della lingua; e forse è nato
chi l’uno e l’altro caccerà del nido”
(Dante, 1989).
Cioè (per limitarci all’interpretazione tradizionale di questi versi): come la fama di Giotto ha eclissato quella di Cimabue nella pittura, così Guido Cavalcanti (l’uno) ha tolto all’altro Guido (Guido Guinizzelli) “la gloria della lingua”. Un attestato d’onore per Guido Cavalcanti, forse un atto riparatorio, considerando il precedente episodio dell’Inferno, che adesso dobbiamo rievocare. Con il padre di Guido, Cavalcante de’ Cavalcanti, Dante immagina un dialogo fra i più famosi e controversi della Divina Commedia. Siamo all’Inferno tra gli eretici (Inf. X 52-72). Dante sta parlando con Farinata degli Uberti, quando un’altra ombra, quella di Cavalcante, appunto, levatasi dritta accanto al fiero ghibellino, rivolge lo sguardo a Dante per accertarsi se anche il figlio Guido sia presente. Ma non è così. E allora
Piangendo disse: «Se per questo cieco
carcere vai per altezza d’ingegno,
mio figlio ov’è? perché non è ei teco?»
E io a lui: «Da me stesso non vegno:
colui ch’attende là, per qui mi mena,
forse cui Guido vostro ebbe a disdegno»”
(Dante, 1989).
È il famoso “disdegno di Guido” che ha generato i proverbiali fiumi d’inchiostro, un giallo filologico che ruota sul nodo interpretativo rappresentato da quel pronome “cui”: se cioè, per farla breve, l’oggetto del disdegno si debba riferire a Virgilio o Beatrice. Non è questa la sede per illustrare nel dettaglio le varie spiegazioni (cfr. Malato, 2004). Ma, al di là dei problemi filologico-esegetici, questo passaggio della Divina Commedia è fondamentale per capire un aspetto della personalità di Guido Cavalcanti. Attraverso l’angoscioso “sospecciar” del padre, che si aspettava –vana speranza – di vedere il figlio in compagnia di Dante se non altro per la comune “altezza d’ingegno”, e la reticenza dello stesso Dante, che non risponde alle successive domande di Cavalcanti (“Come/dicesti? Elli ebbe? Non viv’elli ancora?/non fiere li occhi suoi il dolce lome?” Inf. X, 67-69), vediamo ricostruita con eccezionale sintesi drammatica tutta una complessa esperienza relazionale che va dall’amicizia tra i due poeti al dissidio fino al bando di Cavalcanti, che morirà poco tempo dopo (il 29 agosto 1300), forse di febbre malarica contratta nell’esilio di Sarzana cui era stato condannato in seguito a un provvedimento emanato dai Priori in carica, fra i quali Dante.
La parabola relazionale tra Guido e Dante è idealmente sintetizzata in due poesie simbolo che di tale relazione segnano un culmine positivo e un documento della fine: il celebre sonetto di Dante, Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io, una delle sue poesie più aeree e cristalline di Dante, e un sonetto di Guido Cavalcanti, I’vegno ‘l giorno a te ‘nfinite volte, nel quale Guido si duole che la nobile mente di Dante sia scaduta a livelli molto bassi (“e trovoti pensar troppo vilmente”), lo accusa di frequentare persone mediocri (“annoiosa gente”), di aver perso molte sue capacità, di non apprezzare più la sua poesia a causa della sua vita vile, cioè spregevole: potrebbe alludere a quella fase comico-plebea della poesia dantesca che leggiamo nella tenzone con Forese Donati. Pianto e dolore sono lemmi chiave nella poesia di Cavalcanti: “Deh, spiriti miei, quando mi vedete/con tanta pena, come non mandate/fuor della mente parole adornate/di pianto, dolorose e sbigottite?”. Solo raramente riaffiora una svagata leggerezza idillica, come nella poesia che chiude la raccolta, “in un boschetto trova’ pasturella”: un momento di elegante e felice erotismo, nel quale Guido non si sente un automa “fatto di rame o di pietra o di legno”.
- Dante Alighieri, La Divina Commedia, Hoepli, Milano 1989.
- Dante Alighieri, Le Rime, Einaudi, Torino, 2021.
- Dante Alighieri, Vita Nova, Rizzoli Bur, Milano, 2009.
- Giovanni Boccaccio, Decamerone, Mondadori, Milano, 2021
- Italo Calvino, La penna in prima persona (per i disegni di Saul Steinberg), in Una pietra sopra, Mondadori, Milano, 2009
- Guido Cavalcanti, Rime, a cura di Marcello Ciccuto, introduzione di Maria Corti, Rizzoli Bur, Milano, 2001.
- Guido Cavalcanti, Rime, Carocci, Roma, 2011.
- Gianfranco Contini (a cura di), Poeti del Duecento, Ricciardi, Napoli, 1960.
- Thomas Stearns Eliot, Poesie, Bompiani, Milano, 2000.
- Thomas Stearns Eliot, La terra desolata e altre poesie, Rizzoli Bur, Milano, 2022.
- Bruno Nardi, Dante e la cultura medievale, Laterza, Bari, 1983.
- Enrico Malato, Dante e Guido Cavalcanti, il dissidio per la Vita Nuova e il «disdegno» di Guido, Salerno Editrice, Roma, 2004.