Uno scenario distopico di nuova generazione sembra profilarsi minacciosamente all’orizzonte. A dire il vero, non tanto minacciosamente e neppure tanto all’orizzonte, perché è ormai sotto gli occhi di tutti ed è proprio questa sua normalità a renderlo inquietante: il boom delle storie che ci raccontano di mondi distopici e l’eventualità non remota che il genere si banalizzi diventando di moda. Forse è anche fuori misura definirlo uno scenario distopico, più che altro è un effetto collaterale dell’universo al negativo, questo sì, nel quale siamo immersi, di cui abbiamo evidenze in ogni dove.
Un mondo davvero distopico, nel quale, per esempio, gli inquinatori principali dell’ecosistema, dai fabbricanti di hamburger a quelli di automobili, si sono trasformati in paladini dell’ambiente e in moralizzatori delle moltitudini di individui che da fruitori dei loro prodotti sono diventati i principali imputati dei disastri ambientali, che stanno iniziando a dispiegare tutto il loro potenziale catastrofico.
Un mondo che ha rovesciato la felice utopia del secondo Novecento, la cultura lisergica, emancipatoria, liberatoria, in grado di espandere le porte della percezione, oltrepassando il limite dei nostri condizionamenti, entrando in comunione con il Tutto. Un ribaltamento che ci ha fatto scivolare nel cyberspazio messo a punto nella Silicon Valley dai suoi guru tecnognostici e che prolifera tramite piccoli e grandi schermi, da postazioni fisse e mobili, che al momento, però, ha espanso soltanto i profitti dei colossi californiani e ha originato teorie piuttosto elitarie su immortalità e relativi corollari annessi. Per non parlare di un mondo affollato da morti viventi che ritornano: martiri della religione, nazisti, conflitti nucleari, epidemie, muri, un lungo elenco che banchetta intorno alla fine del futuro inteso come la possibilità di un mondo migliore. Niente di meglio allora che ristorarsi con qualche sana fantasia, che ci distolga dal cupo presente e ci intrattenga con qualcosa di diversamente insano. Le storie distopiche, per esempio. Sebbene nati per accendere spie, lanciare allarmi, illuminare chine pericolose, hanno distopicamente, inziato a modificare la loro funzione originaria.
La consacrazione a genere di successo, l’atto formale per eccellenza è stata la vittoria della serie tratta dal romanzo di Margaret Atwood, The Handmaid’s Tale, realizzata dal servizio di streaming Hulu agli Emmy 2017. Se ne è aggiudicati ben otto: migliore serie drammatica, migliore attrice drammatica Elisabeth Moss, migliore attrice non protagonista Ann Dowd, migliore sceneggiatura, migliore regista, migliore attrice “guest star” Alexis Biedel, migliore scenografia e fotografia.
A spianargli la strada è stato un altro prodotto di successo, non seriale, ma una serie di film, tratti anche in questo caso da un’opera letteraria (la trilogia di Suzanne Collins): The Hunger Games, ovvero la distopia per young/adult, esso sì un target che sembra arrivare da qualche storia anti utopica dimenticata e diventata nel frattempo realtà.
Non è questa la sede e l’occasione per dare giudizi di merito sulla serie e sui film, qui interessa sottolineare che la funzione intrattenimento ha fatto la sua comparsa laddove non avrebbe dovuto esserci, perché tra i compiti della narrazione distopica non sarebbe prevista, dovendo al contrario disturbare e allertare.
La distopia piace e vende, ne va preso atto, come dimostra la crescita esponenziale di prodotti letterari e audiovisivi negli ultimi anni. A fare da apripista è stato il successo crescente degli adattamenti dalle storie di Philip Dick e a seguire della serie che meglio ne ha condiviso lo spirito, ovvero Black Mirror.
L’audience di massa non è un male, intendiamoci, al massimo in qualche caso è un peccato veniale, un effetto collaterale che non diluisce l’effetto urticante del messaggio distopico. Anche la produzione su larga scala apporta dei benefici, forse c’è bisogno di dosi massicce di scenari al negativo per avvedersi di quale pessimo futuro sono forieri i guai del presente; o forse no, perché, come anche il marketing (una delle più sciagurate distopie tra quelle avveratesi) ci insegna, banalizzare un prodotto può ottenere risultati di vendita nell’immediato, ma di sicuro nega un domani.
Fatto sta che è tutto un proliferare di storie poco rassicuranti, mediamente perturbanti, mediamente ben confezionate, mediamente basate su genuina ispirazione e sana indignazione. Mediamente.
Il boom della distopia è un dibattito attuale. Del fenomeno ne ha scritto di recente oltreoceano Brady Gerber su Literary Hub, suggerendo che potremmo essere agli inizi di una segmentazione del prodotto distopico, proprio in ossequio ai dettami del marketing (prodotti su misura per target sempre più ristretti), preceduto da Vanni Santoni che ci ha ragionato sull’edizione italiana di Esquire, stilando anche una discreta serie di titoli che di recente sono comparsi sul mercato, compresi numerosi prodotti made in Italy.
Ne stiamo parlando anche qui, dove abbiamo raccolto una serie di contributi che segnalano alcune opere esemplari del genere, privilegiando anche in questo caso l’attualità e una serie di riflessioni e panoramiche più generali sulla storia e sullo stato dell’arte del genere, con inevitabili e numerosissime assenze, sebbene i vari 1984, Noi, o Fahrenheit 451 (che rivedremo in primavera su HBO per la regia di Ramin Bahrani) facciamo capolino un po’ ovunque nei testi che presentiamo. Santoni auspica una liberazione della distopia dal suo stesso canone, ed è una direzione assolutamente condivisibile, riscontrabile anche al di fuori dei confini letterari.
Alcune recenti opere cinematografiche, frutto di produzioni indipendenti e/o di cinema che potremmo ancora chiamare d’autore, sembrano procedere lungo la via indicata da Santoni. Due in particolare vantano una sana proprietà urticante: Embers (2015) di Claire Carré, appartenente al genere apocalittico, e The Lobster (2015) di Yorgos Lanthimos, riferibile al filone sociale.
In Embers, la condizione in cui è precipitata l’umanità, quel che ne resta, è di vivere ogni giorno ripartendo da zero, perché un virus rende impossibile ricordare gli eventi del giorno prima. La sfida lanciata nel film è quella di far r/esistere una storia d’amore tra due ragazzi definitivamente infetti. Intorno altre piccole storie, tutte disperate, compresa quella di una fanciulla protetta in un bunker e sottoposta quotidianamente a test sulla memoria. Davvero non c’è speranza in questo mondo, che lascia tutto sullo sfondo, gli spazi metropolitani in totale abbandono, le tecnologie impotenti al di fuori del bunker, e tiene in primo piano le storie, o meglio il tentativo di farsi tali.
Relazioni limite messe in scena anche in The Lobster per via di un ordinamento sociale che non lascia vie di scampo a meno di non fuggire per ritrovarsi in un altro ordinamento altrettanto inflessibile, come capita a David, protagonista del film di Lanthimos, la cui sinossi è presto detta: in un futuro prossimo, i Single, secondo quanto stabiliscono le regole della Città, vengono arrestati e trasferiti nell’Hotel, dove sono obbligati a trovarsi un partner entro 45 giorni. Se falliscono vengono trasformati in un animale a loro scelta e liberati nei Boschi, dove vivono i Solitari, che a loro volta vietano di innamorarsi.
Curioso come alcune delle storie distopiche più riuscite sviluppino delle variazioni sul tema dell’amore irrealizzabile, i veri frammenti di un discorso amoroso.
Potrebbe essere una strada, ma a patto di restare nella nostra linea temporale.
Infatti, in alternativa, una mano potrebbe venire da un uso sano e ironico di scenari ucronici in cui innestare nuove distopie per ammonire il presente. Utile variante, come accade in un’altra opera recente, No Men Beyond This Point (2015) di Mark Sawers. Qui a partire dal 1953 il nostro tempo e quello del mondo raccontato da Sawers divergono, perché a partire da allora le donne non necessitano più degli uomini per la riproduzione e soprattutto non partoriscono più figli maschi. I sopravvissuti, tra cui il trentottenne Andrew Myers, il personaggio protagonista maschile, l’uomo più giovane della Terra, si ribellano, si arrendono, vengono utilizzati come domestici e infine esiliati in riserve oltre le quali non possono andare (da cui il titolo del film). Tragico e spassoso al tempo stesso, gioca con il rovesciamento delle parti, con non pochi paradossi e anche con il concetto stesso di apocalisse. Intrattenimento intelligente che lascia un retrogusto amaro. Questione di ingredienti ma anche di dosaggio, come sanno i top barman; e in fondo anche questo testo è un aperitivo per introdurre il nostro menù, che ci auguriamo sia sostanzioso e sufficientemente indigesto…
LETTURE
–– Brady Gerber, Dystopia For Sale: How A Commercialized Genre Lost Its Teeth, Literary Hub, 8 febbraio 2018.
–– Vanni Santoni, È inutile negarlo: siamo circondati da distopie, Esquire, 10 ottobre 2017.
VISIONI
–– Claire Carré, Embers, Papaya, Chaotic Good, Bunker Features, 2015.
–– Yorgos Lanthimos, The Lobster, Good Films 8distribuzione Italia), 2015.
–– Mark Sawers, No Man Beyond This Point, Radius Squared Media Group, Mark Sawers Production, 2015.