Se il secolo XIX ha inventato le Baedeker, che in breve divennero sinonimo di guide per turisti, la fine del Novecento ha inventato le compilation di Gilles Peterson. I suoi sono compendi di storie della musica jazz nelle sue varie espressioni, che consentono escursioni in mondi altrimenti esplorabili solo a costo di lunghe peregrinazioni alla ricerca dei materiali originali e di ampie riserve di tempo per ascoltarli tutti. Anche l’ultima delle sue raccolte, Magic Peterson Sunshine, dedicata al catalogo della storica etichetta tedesca Mps, non viene meno alla regola. Sedici i brani selezionati, tutti pregevoli, alcuni davvero rari. Le preziose compilation di Peterson, anche se non sempre riuscite, devono la loro fortuna, complice l’imperante retromania, alla capacità del suo autore di saper creare dei veri e propri universi tascabili, pratici, comodi e neanche costosi se rapportati al valore dei dischi originali antologizzati. Così Peterson, formidabile DJ, conduttore di programmi radiofonici di successo, manager discografico (già nel 1989 creò la label Talkin’ Loud, lanciando tra gli altri Incognito e Galliano), fomentatore di generi, prima di tutto il movimento del cosiddetto acid jazz, e collezionista di rarità, si è affermato anche e forse soprattutto come autore di raccolte a tema che non hanno eguali (sono un centinaio oramai) diventando nel tempo sinonimo di compilation, baedeker musicali stilati con competenza, astuzia e passione.
Un compilatore senza confini
Riuscito, ad esempio, il sunto della migliore stagione del jazz britannico contenuto in Impressed with Gilles Peterson – Rare, Classic & Unique Modern Jazz from Britain 1963–1976 (2004), che includeva in scaletta brani al momento irreperibili. Jazz, ma non solo, perché dal Brasile e l’Africa a Cuba più di recente (Havana Cultura: New Cuba Sound, Brownswood Recordings, 2009), dedicata ai nuovi compositori dell’isola, Peterson ha anche fornito resoconti dei suoni di ieri e di oggi da quelle terre, specie di quelli che con il jazz flirtano. Lo scorso anno si è impegnato da par suo a realizzare un ritratto di Sun Ra, To Those Of Earth… And Other Worlds prodotta dalla Strut Records, una selezione apprezzabile dalla discografia dell’uomo caduto sulla terra con il nome di Herman Poole Blount, raccolta impreziosita da alcuni inediti.
Il suo girovagare intorno al mondo lo ha riportato nel cuore della Foresta Nera, sede della storica etichetta tedesca Mps. Un ritorno, perché il catalogo della label è particolarmente amato da Peterson, che in passato aveva messo a punto già due raccolte estraendo gemme da quegli archivi, la serie intitolata Talkin’Jazz (Vol.1 Themes From The Black Forest nel 1993 e Vol.2 More Themes From The Black Forest l’anno dopo). Nel 1997 aveva realizzato a quattro mani una terza antologia, Talkin Jazz vol.3, complice il DJ e collezionista Rainer Trüby, poi i viaggi ai quattro angoli del globo lo hanno allontanato dalla storica etichetta fondata da Hans Georg Brunner-Schwer, noto anche soltanto come HGBS, co-proprietario dell’azienda di prodotti elettronici Saba (radio e apparecchiature di alta fedeltà), nonché pianista amatoriale.
La Saba nei primi anni Sessanta iniziò a produrre anche dischi (Brunner-Schwer era un ingegnere del suono) con artisti tedeschi di spicco, quali erano, e sarebbero diventati in seguito ancor di più, il pianista Wolfgang Dauner e il direttore e arrangiatore e direttore d’orchestra Horst Jankowski e finanche internazionali come il pianista George Duke. Evidentemente, però, Brunner-Schwer non ne era soddisfatto, cosicché, nel 1968, lasciò l’azienda e creò una propria etichetta discografica, la Mps, ovvero Musik Produktion Schwarzwald, con sede nella Foresta Nera (Schwarzwald), appunto, dove Brunner-Schwer aveva una villa con tanto di studio di registrazione.
Oscar Peterson apre le danze
L’esordio fu col botto. Il primo artista a incidere con la neonata label fu Oscar Peterson, il virtuosissimo pianista canadese che aveva appena chiuso il contratto che lo legava alla Verve. Peterson era stato ospite proprio nella villa di Brunner-Schwer nel 1961 dove aveva suonato e registrato, restando impressionato dalla qualità della registrazione al punto da tornare ogni anno per nuove sedute; cosicché quando il suo contratto scadde, Brunner-Schwer lo ingaggiò. Nell’arco di circa quindici anni la Mps si dotò di un catalogo eccezionale, che contava oltre cinquecento titoli, a opera di artisti internazionali di primo piano, dai violinisti Stéphane Grappelli, Don “Sugarcane” Harris, Jean-Luc Ponty e Didier Lockwood alle big band di Dizzy Gillespie e Count Basie, ma anche quella made in Germany, Peter Herbolzheimer’s Rhythm Combination and Brass. Colonne europee e statunitensi del free jazz come Archie Shepp, Cecil Taylor, Gunter Hampel e Albert Mangelsdorff, ma anche intrattenitori di classe come il quartetto vocale The Singers Unlimited. È un lungo, prestigioso elenco di dischi caratterizzati da una visione della musica davvero senza confini e anche da qualità audio eccellente. Caratteristiche che saranno poi ereditate con tutt’altro mood, da un’altra etichetta tedesca, affermatasi in seguito a livello internazionale e in questo senso la vera erede della Mps, ovvero l’Ecm, che Manfred Eicher fondò un anno dopo.
Nel 1983, infine, Brunner-Schwer cedette buona parte dei diritti alla Polygram di Germania per dedicarsi alla sola musica classica, chiudendo così un capitolo glorioso della produzione discografica europea. Tornando all’età dell’oro della Mps, il definitivo salto di qualità si rese possibile con il coinvolgimento di un autentico guru spirituale del jazz: Joachim-Ernst Berendt. A metà anni Sessanta, Berendt era già un critico musicale affermato, responsabile del jazz alla radio di Baden-Baden, organizzatore di concerti, direttore artistico del Festival del Jazz di Berlino, che disponeva di un budget secondo solo a quello wagneriano di Bayreuth, festival denominato Jazz Days e poi JazzFest (lo dirigerà fino al 1972) e autore di diversi libri tra cui il fondamentale Il libro del jazz, che nel 1968 era già alla quarta edizione e che avrebbe continuato ad aggiornare fino alla sua scomparsa in un incidente automobilistico nel 2000. Il libro del jazz, tradotto in diverse lingue, è anche il best seller tra i testi scritti sull’argomento, con vendite che si aggirano intorno ai due milioni di copie (un libro europeo e non statunitense!). Berendt era l’uomo giusto al momento giusto, un illuminato che vide prima di altri (tra i non musicisti) l’inconsistenza delle barriere tra i generi e le culture musicali; basterà ricordare che nel suo libro incluse, sacrilegamente per i tempi, musicisti come John Mayall e Frank Zappa, per esempio.
Brunner-Schwer affidò a Berendt il settore jazzistico della Mps ed egli diede vita a una collana che pur con le ingenuità dell’epoca, precorreva i tempi: Jazz Meets the World. In totale vennero pubblicati quattordici dischi dedicati a Giappone, Brasile, Tunisia, Svizzera, India, Bali, Spagna, Cuba e Nigeria, spingendosi verso terre che artisti visionari avevano iniziato a esplorare, da Charles Mingus, che aveva dedicato al Messico Tijuana Moods (1957), al celebre Sketches of Spain (1959-60), di Miles Davis e Gil Evans, ma soprattutto John Coltrane, che intitolò diversi brani all’Africa, all’India o al Brasile e il clarinettista di origini italiane Tony Scott, che nel 1964 aveva pubblicato Music for Zen Meditation. Scott, inutile dirlo, fu un altro degli artisti che l’etichetta tedesca ingaggiò facendolo suonare insieme a musicisti di Bali; un brano venne incluso proprio nel Talkin Jazz vol.3 sopra citato, curato da Peterson e Trüby.
In questo ritorno nella Foresta Nera, Peterson ha incluso qualcosa dei dischi usciti nella collana Jazz Meets The World, a iniziare da quello che è forse il più famoso della serie: Noon in Tunisia (1967) del pianista George Gruntz, assistito da Ponty, Sahib Shiab al soprano e flauto, Eberhard Weber al contrabbasso e Daniel Humair alla batteria, e un gruppo di musicisti del Nord Africa. Il brano selezionato, Nemeit, è cantato e ben rappresenta lo spirito della collana. Jazz beduino si potrebbe dire, con un solo di flauto piuttosto dissonante, gli svolazzi del violinista francese e un pianismo denso a dare solide fondamenta alla danza. Anche Canción del Fuego Fatuo nella versione del sassofonista Pedro Iturralde proviene da un altro disco della collana, Flamenco Jazz (1968), e qui il titolo già racconta tutto. È una composizione di Manuel De Falla, scritta per il balletto El amor brujo, in precedenza incisa dalla coppia Davis/Evans nel citato Sketches of Spain, con tutt’altro arrangiamento. A dare una mano c’è anche il trombonista italiano Dino Piana, cui si deve un pregevole intervento e un allora sconosciuto Paco De Lucia alla chitarra. Il patrimonio popolare spagnolo qui si fonde bene con un certo piglio boppistico.
La raccolta si apre con Dew, un brano estratto dall’album Haiku (1973) del trombettista Don Ellis, un vero acquerello sonoro con tanto di archi e arpa. L’album non rientrava nella serie Jazz Meets The World, ma ne condivideva lo spirito, omaggiando il tipico componimento poetico dello zen giapponese. L’arpa è protagonista anche del brano molto più ritmico Harp Revolution di Jonny Teupen, dall’album Harpaldelic (1969), dove erano della partita anche il chitarrista Volker Kriegel e il vibrafonista Dave Pike, che si ritagliano brevi ma incisivi assoli. La selezione di Peterson rispecchia la varietà, i differenti indirizzi che vantava l’etichetta tedesca. Una porzione della selezione, infatti, può catalogarsi come musica d’intrattenimento, a iniziare da una vera rarità, un singolo, Love Train, pubblicato a nome Third Wave, cinque sorelle filippine autrici di un trascinante pop jazz che pubblicarono per la Mps l’album Here and Now (1970). Tutte cantanti, si facevano supportare in studio da un trio capitanato da George Duke.
Altro pezzo raro e facile è Why and How dall’unico disco realizzato da Mark Murphy per la Mps (ancora con la Saba) nel 1968. La sua voce inconfondibile snocciola note, supportata da orchestrali grintosi. Ancora voci e di gran classe per il brano Stone Ground Seven eseguito dai Singers Unlimited nell’album Just in Time (1977) supportati dal quartetto del pianista Roger Kellaway. Carezzevole e swingante incarna l’essenza del relax in musica. Leggiadro anche Lilemor, il frammento estratto dall’album Flirt and Dream (1967) del pianista belga Francy Boland, che accompagnato da un’orchestra d’archi regala della lounge music doc.
C’è spazio per colonne storiche del jazz statunitense e per i suoi evergreen a iniziare da It Ain’t Necessarily So di George and Ira Gershwin affidato alla pianista Mary Lou Williams e tratto dal disco Black Christ of the Andes che la Saba acquistò nel 1965. Un ripescaggio davvero notevole da parte di Peterson, per una versione da brividi, che trasuda blues. Dal repertorio del sassofonista Jimmy Heath (il fratello del contrabbassista del Modern Jazz Quartet) arriva invece Big ‘P, affidata al Modern Jazz Group Freiburg capitanato dal pianista Ewald Heidepriem. Il brano era già stato antologizzato nel precedente Talkin Jazz vol.3 e ancor prima dal numero uno della serie, ma si tratta di dischi oramai fuori catalogo e dunque bene ha fatto Peterson, che evidentemente ama molto il brano, a riproporlo per la terza volta. In effetti è difficile restare indifferenti di fronte a tanto schietto ritmo infuso dal combo di Friburgo. Assolutamente groovy è invece Out of the Sorcellery, di Eddy Louis nell’unico brano di Our Kind of Sabi (1970) nel quale l’organista non si avvale dei sassofoni di John Surman.
Tra le rarità curiosità c’è anche la scoppiettante Service I dall’album Trip to Mars (1968) dell’orchestra guidata dall’austriaco Roland Kovac, pensata per “an advertising gag for an atomic power plant” (come recitavano le note di copertina), centrale atomica che non fu mai costruita. Altro brano davvero oscuro e irreperibile altrimenti è Denn Liebe ist stark wie der Tod che arriva da un singolo di Wolfgang Lauth del 1968, Kantate für Chor & Jazz-Combo una composizione per fiati, pianoforte e coro di voci, in due parti (qui è presente il lato A), che si potrebbe definire come una sorta di spiritual jazz in versione europea; musica fluente, ispirata, quasi spiritata.
Europeo fuori dagli schemi è sempre stato anche il multistrumentista olandese Gunter Hampel, di cui Peterson ha recuperato Our Chant dall’album Heartplants del 1965 (altro titolo Saba), quindi ben prima che Hampel si avventurasse nei territori dell’improvvisazione. Quello che si ascolta in Our Chant è del free bop sorretto da una ritmica robusta (Buschi Niebergall al contrabbasso e Pierre Courbois alla batteria); alternandosi con uno sfavillante Manfred Schoof alla tromba e con un già maturo Alexander von Schlippenbach al pianoforte, il leader dà saggio di bravura al flauto oltre che di valido compositore e arrangiatore. Dalla scuderia della Mps non furono pochi gli artisti che passarono in seguito a incidere per l’Ecm, rendendo non solo metaforico quel passaggio di consegne al quale si accennava prima. Si sono citati George Gruntz, Eberhard Weber, Manfred Schoof, per esempio. Anche Dei due brani ancora fuori dalla nostra rassegna sono titolari musicisti che sarebbero poi stati messi sotto contratto da Eicher: i pianisti Wolgang Dauner e John Taylor. Il primo propone in trio il rarissimo Love in Summer risalente al periodo dell’album, Jazz-Studio HGBS Number One una raccolta pubblicata nel 1965 dalla Saba contenente registrazioni di tre anni prima. Brano delicatissimo, nato all’ombra del genio di Bill Evans, che non era presente nella versione stereo del long playing, ma solo in quella mono ultra rara. Infine Taylor, anch’egli in trio, escluso nell’edizione in doppio vinile e presente solo nella versione in compact disc. Il brano è White Magic dall’album Decipher (1973) e la sezione ritmica è composta da Chris Lawrence al contrabbasso e Tony Levin alla batteria. Lo scintillante post bop che propongono ha energia inesauribile e grazia da vendere. L’escursione nella Foresta Nera finisce qui. Non si può non convenire che, ancora una volta, l’itinerario consigliato da Mr. Peterson possiede mete attraenti. Non resta che partire.