Gianfranco Contini spiega a Ludovica Ripa di Meana, a conclusione del libro-intervista Diligenza e voluttà (pubblicato per la prima volta nel 1989), che “Correre l’avventura significa rompere la trama noiosa dei giorni, ma poi verificare che questa rottura, non solo valesse la pena, ma fosse autorizzata dalla ragione. Sì, c’è un duplice movimento: un movimento intuitivo e razionale, e un movimento logico di controllo” (Ripa di Meana, 2019). Il titolo della recente antologia di saggi di Gianfranco Contini, Una corsa all’avventura, uscita per i tipi di Carocci, trae spunto, come nota il curatore, Uberto Motta nella premessa, proprio da questa risposta-considerazione di Contini. L’avventura è
“disponibilità verso qualcosa che non si conosce” [ed è anche il] “mio modo di sentire la critica letteraria: come un’avventura, come un tentativo di auscultazione profonda del testo. […] Si tratta di arrivare a una totale disponibilità verso il testo”
(Contini, 2023).
La poliedrica figura di Gianfranco Contini – filologo, docente e saggista (Domodossola 1912-1990) – è ormai consegnata a quella mitologia letteraria e culturale che pochi specialisti del suo campo, e di ambiti contigui, hanno la fortuna di attingere nel corso della vita, anche intensa, di ricercatori e studiosi. Innanzitutto, perché nell’affrontare il Contini saggista si pone una tesi cruciale, com’egli stesso afferma in Diligenza e voluttà:
“non si può essere un critico letterario, se non si è un buono scrittore. Non conosco nessun critico letterario sopportabile che non sia uno scrittore”
(Ripa di Meana, 2019).
Come riconobbe per primo Giansiro Ferrata, Contini è quindi “sicuro scrittore” (ibidem); uno scrittore specializzato in critica, certo, ma non necessariamente. Da qui forse il suo rapporto amicale e sovente di complicità stilistica, con alcuni grandi della letteratura italiana del Novecento, Eugenio Montale e Carlo Emilio Gadda in primis. Questa antologia raccoglie in ordine cronologico una serie di saggi che testimoniano l’ampiezza degli interessi continiani sul versante sia della letteratura novecentesca (si vedano, a titolo d’esempio, i contributi su Montale e Gadda, il ritratto e il metodo di Roberto Longhi – il più grande critico d’arte del Novecento –, il ricordo di Raffaele Mattioli, il banchiere editore, e di Pier Paolo Pasolini e Antonio Pizzuto), sia dei grandi autori dal Medioevo all’Ottocento: Dante Alighieri, Francesco Petrarca, Ludovico Ariosto, Giacomo Leopardi, Alessandro Manzoni.
Contini era uno specialista di letteratura romanza: si era laureato, a ventuno anni, con una tesi sugli scritti volgari di Bonvesin della Riva (docente di riferimento: il suo maestro, Santorre Debenedetti, uno dei massimi filologi italiani). È proprio questa passione interdisciplinare nella quale l’auscultazione (termine molto continiano) dei testi chiama sul terreno della critica letteraria sia il mestiere di filologo neolatino sia la passione per autori a lui coevi, che rende Contini così particolare. Ciò non esclude un interrogativo ancora oggi attuale e che riprendiamo dal contributo di un altro grande filologo italiano, Cesare Segre:
“Contini fu un contemporaneista acquisito alla Filologia romanza, oppure un filologo romanzo appassionato di contemporaneistica? […] nacque prima il Contini contemporaneista o il Contini neolatinista?”
(Segre, 2012).
La risposta è nella bibliografia uscita nel 2000 a cura di Giancarlo Breschi: Contini nasce senza dubbio “contemporaneista” e il meglio di questa attività confluirà negli Esercizî di lettura su autori contemporanei (1939) che riunisce gli scritti su autori e critici a lui coevi, come Alessandro Bonsanti, Gadda, Giovanni Comisso, Giorgio Vigolo, Umberto Saba, Vincenzo Cardarelli, Paul Claudel. Si potrebbe quasi dire che, all’inizio e per un lungo periodo di tempo, la contemporaneistica “viene posta dal Contini in contrapposizione con la filologia. La prima è vista come una vocazione nativa, la seconda come mestiere e «obbligo»” (Segre, 2012). Ma quando Contini diventa Contini? In linea con quanto afferma Cesare Segre, Contini diventa Contini soprattutto con e dopo la pubblicazione delle Rime di Dante nel 1939:
“Come gli Esercizî di lettura sopra autori contemporanei, usciti nello stesso anno, furono l’annuncio ufficiale del grande critico Contini, così le Rime di Dante furono l’annuncio del grande romanista Contini”
(ibidem).
I saggi continiani su Dante e la Divina Commedia, raccolti poi da Einaudi in Un’idea di Dante, rappresentano, con l’Antologia della Poesia del Duecento, l’edizione delle Rime, e del Fiore e del Detto d’amore, attribuiti (nel senso di tribuendi) a Dante proprio da Gianfranco Contini, sono il classico passaporto per la celebrità. Non è questa la sede per discutere sul fatto che oggi una parte autorevole della dantistica avanza forti dubbi sulla paternità dantesca del Fiore e del Detto d’Amore, una delle medaglie al merito più iconiche dell’attività filologica del Nostro. Preme qui sottolineare la rara evenienza che un critico letterario, e ancor di più un glottologo o un tecnico della critica testuale, diventino popolari anche fra i non addetti ai lavori, ossia fuori dalla élite claustrale – e un tantino zitellesca sul piano della chiarezza conativa – della scrittura accademica.
Le quattro fasi di Contini
Uno degli obiettivi principali di questa antologia è riprodurre la voce di Contini “restituendone tessere pertinenti le quattro arcate temporali in cui, obiettivamente, si può scandire il suo percorso” come sostiene il curatore Motta:
→ il tempo dell’esordio (1926-1938, saggi 1-5, fra i quali Ungaretti o dell’Allegria, Introduzione a Ossi di seppia, Carlo Emilio Gadda o del pastiche);
→ gli anni di Friburgo (1938-1952, cfr. saggi 6-10, fra cui Introduzione alle Rime di Dante e le Implicazioni leopardiane);
→ il periodo fiorentino (1953-1975, cfr. saggi 11-19: Il linguaggio di Pascoli, Dante come personaggio-poeta della Commedia, Introduzione alla Cognizione del dolore, Filologia ed esegesi dantesca);
→ gli ultimi tre lustri, dell’insegnamento pisano e del ritorno a Domodossola (1975-1990, cfr. saggi 20-26, fra cui Testimonianza per Pier Paolo Pasolini, la grammatica della poesia, Ricordo di Raffaele Mattioli e Antonio Pizzuto, investigatore).
Si è detto all’inizio, Contini “sicuro scrittore”, mutuando l’affermazione di Giansiro Ferrata; ma dobbiamo ricordare che leggere Contini non è sempre una passeggiata agevole sul piano dell’aderenza al terreno dell’immediatezza comunicativa, anche prescindendo dal suo famoso idioletto, il “continiano”. Alla proverbiale difficoltà della sua scrittura accenna egli stesso in una lettera a Montale, da Parigi, del luglio 1935:
“Forse non immagini (nessuno immagina) quanto io sia insicuro. Sarà lo stile, perché io mi esprimo troppo male” (Contini, 2023).
A conferma di questi dubbi, possiamo aggiungere la risposta dello stesso Contini a Montale, in una lettera del 1933 riguardo l’introduzione agli Ossi di seppia, uno dei primi saggi del Contini contemporaneista:
“Se il mio articolo non Le è spiaciuto, sono lietissimo; benché, a dirla con tutta franchezza, a me paia tremendamente arido e scolastico. Di meno arido c’è un fatto: nel ritracciamento di quella ‘crisi teoretica’ c’è molta autobiografia. Se i critici e i lettori confessassero tutti i loro bovarysmi…”
(ibidem).
I saggi sulla poesia di Eugenio Montale, Introduzione agli Ossi di Seppia (1933) e Dagli Ossi alle Occasioni (1938) raccolti poi nel volume Una lunga fedeltà (1974) e riproposti in questa antologia, sono fra le prove più originali e interessanti del Contini contemporaneista, contrassegnate da uno stile che procede con lenta e minuziosa osservazione – fra gli ostacoli, voluti, di parentetiche e incisi – dei momenti in cui si rivela nella sua essenza la poetica montaliana già tutta distillata in sintesi programmatica nella poesia In Limine:
Godi se il vento ch’entra nel pomario
vi rimena l’ondata della vita:
qui dove affonda un morto
viluppo di memorie,
orto non era, ma reliquiario.Il frullo che tu senti non è un volo,
ma il commuoversi dell’eterno grembo;
vedi che si trasforma questo lembo
di terra solitario in un crogiuolo.Un rovello è di qua dall’erto muro.
Se procedi t’imbatti
tu forse nel fantasma che ti salva:
si compongono qui le storie, gli atti
scancellati pel giuoco del futuro.Cerca una maglia rotta nella rete
che ci stringe, tu balza fuori, fuggi!
Va, per te l’ho pregato, -ora la sete
mi sarà lieve, meno acre la ruggine…
(Montale, 2016).
Contini si sofferma su questa poesia incipitaria, premessa programmatica di Ossi di seppia, sottolineandone la valenza prodromica di temi sviluppati nel corso della raccolta:
“Agli Ossi la chiaroveggenza di Montale (solo limitata da quell’equivoca generosità) giunse a mettere innanzi con In limine, una descrizione molto veritiera, e in parte anticipatrice, dei suoi fatti più autentici: non orto, ma reliquiario (e insieme prigione) la sua poesia, viluppo di memorie morte e non sede delle visitazioni della vita; e gli oggetti non reali immagini («un volo… ») ma indicazioni di abissi interni; e l’ordine di questi oggetti e le loro vestigia, perso il loro valore primitivo e insomma il loro contenuto storico, posti a stabilire delle mere possibilità di futuro. Forse, tuttavia, in mezzo a queste reliquie è la salvazione: da incontrarsi per puro caso, anzi per azzardo in uno degli infiniti lanci di dadi («t’imbatti/tu forse nel fantasma che ti salva»)”
(Contini, 2023).
Nell’Introduzione a Ossi di seppia, solo dopo un preambolo non essenziale seppur importante (perché cita l’opinione di Alfredo Gargiulo su Mediterraneo, “la più bella serie” degli Ossi, ma secondo Contini non “la più feconda in risultati poetici”), si arriva a un dunque, a un concreto atterraggio sui piani di un riscontro anche linguistico:
[…] Sarà meglio tenersi ad alcune prime constatazioni. Questa, ad esempio, abbastanza ovvia: che il discorso di Montale è un discorso di tono e timbro ‘familiare’ («Ascoltami, i poeti laureati / si muovono soltanto fra le piante / dai nomi poco usati: bossi ligustri o acanti. / Io, per me, amo le strade che riescono agli erbosi/fossi…»); il quale si presuppone per lo più, ben vicino, un interlocutore: «vedi»; ‘hai ben ragione tu!»; «pure, lo senti…»; «tentava la vostra mano…». E il linguaggio preferito ricorre a parole determinatissime, «dialettali» addirittura diremmo; un’upupa «sopra l’aereo stollo del pollaio», dei bambini «con moccoli e lampioni», una barca che «sciaborda tra le sécche». In una simile funzione stanno i termini più letterari: «pomario», mettiamo, e «reliquiario», o «atro», «nunzio», «aligero», «turgeva», «dessa»; con un valore, pertanto, press’a poco opposto a quello che l’estetismo o il purismo potevano rispettivamente assegnare. Un bastimento sarà in Montale, a preferenza, un «trealberi», un «rimorchiatore», o saranno «sciabecchi»; gli uccelli, volta per volta, un «falchetto», un «alcione», un «martin pescatore», «due ghiandaie».”
(ibidem).
La scoperta di Pasolini
La programmatica “umiltà”, in termini di mondo/ambiente poetico, espressa da Montale nella poesia-manifesto degli Ossi, I Limoni, che segue immediatamente in Limine, e nella quale il poeta ligure oppone alle illustri piante dei poeti laureati (“bossi ligustri o acanti”) “le strade che riescono agli erbosi/fossi”, stabilisce una connessione con le humilesque miricae pascoliane e ci offre il pretesto per un passaggio a un altro tipo di umiltà, quella di Pier Paolo Pasolini.
“La qualità che Pasolini possedeva in rara misura era dunque non l’umiltà, ma qualcosa di molto più difficile da ritrovarsi: l’amore dell’umile, e vorrei dire la competenza in umiltà”
(ibidem).
Suggeriamo di leggere Testimonianza in ricordo di Pier Paolo Pasolini, scritta nel 1980 e ripresa negli Ultimi esercizî, dove Contini rievoca la sua conoscenza con Pasolini, quasi casuale: nel 1942 il critico ricevette dalla libreria di Mario Landi a Bologna una copia di Poesie a Casarsa, raccolta di quattordici poesie scritte nel dialetto di Casarsa della Delizia, il paese del Friuli occidentale di cui era originaria la madre del poeta. Gli piacquero molto e comunicò al giovane Pasolini l’intenzione di proporre una recensione su Primato, poi rifiutata perché incompatibile con la politica linguistica del regime fascista; apparve l’anno dopo sul Corriere del Ticino con il titolo Al limite della poesia dialettale. Ma ecco l’attacco della Testimonianza:
“La vecchiaia ha tristi privilegi. Tristissimo quello di sopravvivere, così che, invece di rinascere qualche volta, morti, nel pensiero o nelle parole del più giovane, accada di dovergli fare noi l’elemosina di una briciola del nostro tempo. Questo rovesciamento delle sorti naturali sembra insopportabilmente ingiusto: ma ingiusto in che, e soprattutto ingiusto in chi? Non dico che uno non debba rispondere inevitabilmente a questa domanda, ma a porsela, più o meno chiaramente, di fatto è costretto. Tale è comunque la natura del mio rapporto, appunto sinistramente privilegiato, con Pier Paolo Pasolini. È una testimonianza che nessun altro gli può rendere, prima di anziano, poi di postero”
(ibidem).
Quella di Pasolini è l’unica vera scoperta di Contini nell’ambito contemporaneo, come lo stesso critico ammette sempre nella Testimonianza:
“Insegnavo allora in un’università straniera, e facevo il pendolo fra quella sede e una piccola città di confine. […] un giorno del 1942 la posta mi recò un plico iscritto dalla bella e arcaica lettera di Mario Landi, ma non conteneva poche lire di Bodoni o di Romagnoli-Dall’Acqua, bensì, per la prima e unica volta, un libretto stampato sotto la ragione editoriale del Landi stesso. Ignoto l’autore, Pier Paolo Pasolini, di aspetto onomastico inconfondibilmente ravennate, e ignota la veste linguistica di quelle Poesie a Casarsa, friulano, ma «di cà da l’aga» (cioè il Tagliamento) […] All’uopo adibii un giornale del Ticino, tra perché le sedi italiane stavano crollando nel disastro vicino a consumarsi e perché la censura invigilava che non si osasse dir troppo bene di cosa scritta in dialetto (Primato, infatti, rifiutò il pezzo). Fu quella in sostanza la mia unica scoperta. Una fama lusinghiera, ma purtroppo fallace mi attribuisce la ‘scoperta’ di Gadda o di Pizzuto, per mera illusione ottica di distanza (fra l’altro quella assai tardiva di Pizzuto, ormai al suo terzo libro, mi procurò una scena di gelosia epistolare da Pasolini, che mi rimproverò di aver deviato la mia attenzione su un «pensionato»). Cominciò allora una lunga amicizia”
(ibidem).
Pasolini si laureò a Bologna nel 1945 con una tesi sulla poesia di Giovanni Pascoli (Antologia della lirica pascoliana, pubblicato da Einaudi nel 1993), poeta che rientra a pieno titolo nel campo d’osservazione del Contini saggista: il suo contributo sul linguaggio di Giovanni Pascoli nel 1968 fu riprodotto in testa all’edizione Mondadori delle Poesie in quattro volumi e poi in Varianti e altra linguistica (cfr. Contini, 1970). La “gelosia” di cui parla Contini poche righe sopra a proposito di Pasolini, ci conduce ad Antonio Pizzuto (Palermo 1893-Roma 1976), il cui ricordo (Antonio Pizzuto, investigatore) chiude questa voluminosa antologia.
“Conobbi Pizzuto con un ritardo di cui mi dolgo. Fu Cesare Brandi a spronarmi a leggere un autore che, diceva, sembrava fatto apposta per piacermi. […] Io cominciai con Ravenna (1962), e confermai il mio entusiasmo risalendo il corso di Signorina Rosina e Si riparano bambole (dall’autore contratto in Siribambole); ed eccomi dinanzi al loro fisico produttore. Un vegliardo atticciato, ringiovanito da una calvizie totale, sulla quale tuttavia invitava il barbiere, dopo l’impeccabile rasatura, a regolare gli infimi peluzzi superstiti, esalante una rara cura della persona (si legga la scolpita pagina sulla pedicure) e dell’abbigliamento”
(ibidem).
L’amicizia tra Contini e Pizzuto è testimoniata, fra l’altro, dall’epistolario che è, per dirla con Cesare Segre, “uno scoppiettare di invenzioni linguistiche, in gioiosa gara con il suo interlocutore” (Segre, 2012). E qui si aprirebbe un altro capitolo, non meno affascinante: quello del Contini epistolografo. E non ci siamo volutamente effusi sulla sua vocazione dantesca: sarebbe stato quasi banale, considerando, come abbiamo detto, che il mito Contini si riproduce sul terreno fecondo della dantistica.
Dante “contemporaneo degli «a venire»”
L’antologia raccoglie infatti alcuni dei più iconici contributi di Contini sull’Alighieri, dall’Introduzione alle Rime di Dante (1939), a Dante come personaggio-poeta della Commedia (1958), da Filologia ed esegesi dantesca (1965) al Fiore (1970). Nel Dante come personaggio troviamo la celebre definizione di Francesca, la protagonista del V canto dell’Inferno, condannata da Dante nel cerchio dei lussuriosi insieme all’amante, come “intellettuale di provincia”. Definizione che gli valse critiche e perplessità, ma che coglie appieno la trama citazionistica ed erudita nel discorso che Francesca svolge, con perizia retorica, nella sua risposta a Dante:
“Dovrebbe dolermi, e non mi riesce abbastanza, di averla a risospingere nella parte d’un’intellettuale di provincia. Importa meno, per quanto s’è accennato, che la sua retorica sia ineccepibile: perizia suprema nella perifrasi, copia e agilità di simmetrie, obbedienza del discorso alle norme dell’ars dictandi: dove, appunto, è la retorica di Francesca che non sia retorica di Dante?”
(ibidem).
La conclusione di questo saggio, uno dei contributi danteschi più godibili e ariosi di Contini, è che, come nota Uberto Motta, ogni tappa del viaggio tra gli spiriti dell’Inferno e del Purgatorio è per Dante “l’occasione per confrontarsi con una possibilità di colpa di cui egli stesso, come poeta e come intellettuale, ha fatto esperienza e che dunque è chiamato a superare”. E d’altronde, che Dante sia il più contemporaneo degli scrittori italiani, è affermazione già continiana:
“Dante abbraccia la realtà come uno di noi: per questo è moderno…è contemporaneo di chiunque. È contemporaneo degli «a venire», come è contemporaneo nostro, come è stato contemporaneo dei lettori che ha avuto nei secoli passati”
(Ripa di Meana, 2019).
- Dante Alighieri, Il Fiore e il Detto d’amore attribuibili a Dante Alighieri, a cura di Gianfranco Contini, Mondadori, Milano, 1984.
- Dante Alighieri, Il Fiore, Detto d’Amore, a cura di Luca Carlo Rossi, Mondadori, 2021.
- Giancarlo Breschi (a cura di) L’opera di Gianfranco Contini. Bibliografia degli scritti, Edizioni del Galluzzo, Firenze, 2000.
- Gianfranco Contini (a cura di), Poeti del Duecento, Ricciardi, Firenze, 1960.
- Gianfranco Contini, Varianti e altra linguistica, Einaudi, Torino, 1970.
- Gianfranco Contini, Una lunga fedeltà, Scritti su Eugenio Montale, Einaudi, Torino, 1974.
- Gianfranco Contini, Un’idea di Dante, Saggi danteschi, Einaudi, Torino, 2001.
- Gianfranco Contini, Carlo Emilio Gadda, Carteggio 1934-1963, Garzanti, Milano, 2009.
- Dante Alighieri, Le Rime, a cura di Gianfranco Contini, Einaudi, Torino, 2021.
- Dante Isella, Eusebio e Trabucco. Carteggio di Eugenio Montale e Gianfranco Contini, Adelphi, Milano, 1997.
- Eugenio Montale, Ossi di seppia, a cura di Pietro Cataldi e Floriana d’Amely, con un saggio di Pier Vincenzo Mengaldo e uno scritto di Sergio Solmi, Mondadori, Milano, 2016.
- Ludovica Ripa di Meana, Diligenza e voluttà, Ludovica Ripa di Meana interroga Gianfranco Contini, Mondadori, Garzanti, Milano, 2019.
- Cesare Segre, Gianfranco Contini, uno, due e tre, in Critica e Critici, Einaudi, Torino, 2012.