Se c’è uno scrittore italiano che richiede l’esercizio formativo e delucidante della chiosa, della critica, della esegesi linguistica e lessicale (il fiore dei glossari), è proprio il milanese Carlo Emilio Gadda (1893-1973), il più inventivo prosatore italiano del Novecento sul piano di una originale onomaturgia, spesso ironica, non di rado sarcastica e caricaturale. In questo senso avvertiamo chiaramente l’affinità, oltre che con una tradizione lombarda rappresentata da scrittori come Porta, Dossi e Linati (tutti e tre Carlo), con un altro autore prediletto dalla letteratura critica, Dante. Ma, forse ancor più – o non meno – dell’Alighieri, il Gaddus necessita anche, da parte soprattutto degli editor, di una forte propensione alla filologia editoriale, come ribadisce Paola Italia, curatrice di Gadda, un nuovo e prezioso contributo sulla storia della produzione gaddiana, dal già promettente Giornale di guerra e di prigionia (ricordiamo che Gadda fu volontario nella Grande Guerra) agli esordi narrativi “solariani” rifluiti poi ne La Madonna dei filosofi e Il Castello di Udine:
“La ricostruzione puntuale -suffragata dalla conoscenza più approfondita (ma ancora non integrale) degli archivi, e sulla pubblicazione quasi integrale dei carteggi editoriali – del making of dei testi, ha permesso di individuare le traiettorie della loro genesi (storia interna) e l’evoluzione (storia esterna), per capire come molte opere di Gadda, e in particolare le sue due maggiori, la Cognizione e il Pasticciaccio, non possono essere più considerate al di fuori della loro storia. Per fare critica è necessario partire da un bel po’ di filologia, e di filologia editoriale. Ci sono almeno tre Cognizioni (quella di «Letteratura» del 1937-38, del 1961, e del 1970-71) e almeno tre Pasticciacci (quello di «Letteratura» del 1945-46, del 1957 e del progettato “secondo volume”) e ciascuno di essi è espressione di declinazioni diverse dell’intenzione e dell’autore e delle volontà degli editor e degli editori”.
I risvolti della Gaddamachia
Non mancano, quindi, le edizioni e le riedizioni delle opere di Gadda, ma non è mai scontato suggerire itinerari di lettura, soprattutto nel caso di un autore così complesso, nel senso di poikilos, variegato-versatile e non solo in termini di stile e fraseggio. Come scrive Paola Italia:
«La vasta comprensione di tutto Gadda tentata in questo volume non sarebbe stata possibile senza il combinato disposto di due edizioni delle opere che non vanta nessun autore del Novecento: un’edizione inclusiva, l’Opera omnia Garzanti diretta da Dante Isella dal 1988 al 1992, ormai sedimentata negli studi; e una riedizione selettiva, la nuova serie nelle edizioni Adelphi, che dal 2010 ha visto pubblicati più di quindici titoli, tra i più importanti dell’opera gaddiana (L’Adalgisa, 2014; La cognizione del dolore, 2017; il Pasticciaccio, 2018; I viaggi la morte, 2023), alcuni rifondati nella struttura e nella forma (Il Guerriero, l’Amazzone, lo Spirito della poesia nel verso immortale del Foscolo, 2015; Verso la Certosa, 2013; Divagazioni e garbuglio, 2019; I Luigi di Francia, 2021) e con fondamentali inediti come gli abbozzi dei racconti di Accoppiamenti giudiziosi (2011), la versione originaria di Eros e Priapo (2016), il finale del Pasticciaccio (2018), la «potata» sceneggiatura La casa dei ricchi (2020); le lettere familiari spedite durante la guerra (La guerra di Gadda, 2021), i sette taccuini inediti del Giornale di guerra e di prigionia (2023). Edizioni che hanno messo in scena, in ogni nota al testo, un atto della Gaddamachia, che si rivela in modo particolare nel rapporto con i propri editori. La storia di ogni testo gaddiano è una battaglia tra volontà d’autore e volontà di editor: da Gian Carlo Roscioni a Pietro Citati, fino a Enzo Siciliano”.
Itinerari di lettura
In un ipotetico gradus ad Parnassum gaddiano, suggeriremmo di partire da alcuni racconti, oggi si direbbe iconici, che si trovano in Accoppiamenti giudiziosi (in primis L’incendio di via Keplero, San Giorgio in casa Brocchi) e nell’ancor più lombarda e milanese Adalgisa, corredata dalle ampie chiose vergate dall’Ingegnere stesso, per poi passare a una lettura mirata de I viaggi la Morte, prima di arrivare ai due capolavori di Gadda, La cognizione del dolore e Quer Pasticciaccio brutto de via Merulana, utilizzando contemporaneamente, e come integrazione, i sussidi più recenti come la breve ma gustosissima monografia di Alberto Arbasino (L’Ingegnere in blu) e il più recente Gaddabolario curato dalla stessa Paola Italia.
Se questa nuova monografia sulle opere di Gadda presuppone un pubblico più specialistico, il Gaddabolario, viaggio fra 219 parole di Carlo Emilio Gadda, è uno strumento conoscitivo indispensabile, un viatico altrettanto utile per la lettura di Gadda. Dalla A di abracadabrante alla Z di Zoluzzo (sostantivo che Gadda conia a proprio riferimento, da Emile Zola) si passa attraverso mirabolanti invenzioni verbali come cinobalanico, ebefrenico, stivalista, narcissico, pastrufazianamente. “Pastrufazianamente” si potrebbe definire come “secondo i canoni estetici milanesi”. Pastrufazio – città ricostruita dal generale Juan Muceno Pastrufacio – è un toponimo immaginario che nel Sud America-Brianza, rievocato ne La cognizione del dolore, allude a Milano. Il numero dei lemmi che compongono il Gaddabolario (219) non è casuale: è una cifra da cabala ingravallesca: via Merulana 219 a Roma è il centro in cui convergono tutti i delitti del Pasticciaccio. Francesco “Ciccio” Ingravallo è – repetita iuvant – il commissario molisano protagonista di questo atipico giallo scritto in un vertiginoso pastiche di italiano finemente ricercato e inventivo nel cesello, e romanesco. Rivediamo, in un passaggio dalle prime pagine, un ritratto memorabile di Ingravallo:
“Nella sua saggezza e nella sua povertà molisana, il dottor Ingravallo, che pareva vivere di silenzio e di sonno sotto la giungla nera di quella parrucca, lucida come pece e riccioluta come d’agnello d’Astrakan, nella sua saggezza interrompeva talora codesto sonno e silenzio per enunciare qualche teoretica idea (idea generale, s’intende) sui casi degli uomini: e delle donne. A prima vista, cioè al primo udirle, sembravano banalità. Non erano banalità. Così quei rapidi enunciati, che facevano sulla sua bocca il crepitìo improvviso d’uno zolfanello illuminatore, rivivevano poi nei timpani della gente a distanza di ore, o di mesi, dalla enunciazione: come dopo un misterioso tempo incubatorio. «Già!» riconosceva l’interessato: «Il dottor Ingravallo me l’aveva pur detto». Sosteneva, fra l’altro, che le inopinate catastrofi non sono mai la conseguenza o l’effetto che dir si voglia d’unico motivo, d’una causa al singolare: ma sono come un vortice, un punto di depressione ciclonica nella coscienza del mondo, verso cui hanno cospirato tutta una molteplicità di causali convergenti. Diceva anche nodo o groviglio, o garbuglio, o gnommero, che alla romana vuol dire gomitolo”
(Gadda, 2018).
Il “garbuglio” è parola chiave, hashtag fondamentale per afferrare non solo la problematica esistenziale, ma anche l’essenza del linguaggio e del fare scrittorio dell’Ingegnere. La centralità o la questione della lingua, intesa come “materia” prima degli scrittori nella misura in cui i tubetti dei colori lo sono per i pittori (giusta una similitudine cui Gadda ricorre in una lettera a Gianfranco Contini), è un tema fondamentale per capire e apprezzare lo stile o gli stili del Carlo Emilio. Scrittore dalle pressoché illimitate risorse linguistiche, vorace e bramoso (cùpido, direbbe lui) di ricchezze lessicali attinte da ogni campo e serbatoio, letterario-aulico, dialetti, linguaggi tecnico-settoriali, lingue straniere, persino lingue classiche, Gadda mai rinuncerebbe alla libertà di servirsi di tutti i sinonimi, usati nelle loro variegate accezioni e sfumature, d’uso corrente o rarissimo; e perfino di tutte le varianti ortoepiche. Lo dice lui stesso in Lingua letteraria e lingua dell’uso, del 1942, uno dei saggi più belli raccolti in I Viaggi la morte: “il laboratorio di Gadda, i suoi eroici furori, dal metodo di lavoro agli autori amati, dalle polemiche alle impennate” come recita, molto bene, la didascalia della prima di copertina nell’edizione Garzanti (1977):
“Sicché dò palla nera alla proposta del sommo e venerato Alessandro, che vorrebbe nientedimeno potare, ecc. ecc.: per unificare e codificare: «d’entro le leggi, trassi il troppo e ‘l vano». Non esistono il troppo né il vano, per una lingua. (…) Così al vetturino e al cavallante vengon buoni i dimolti fagotti e baligie di vario formato, onde riesce a inzeppare lo spazio del bagagliaio, a colmare i suoi vuoti”
(Gadda, 1977).
Il venerato Alessandro è ovviamente Manzoni, uno degli autori prediletti di Gadda, insieme a Giosuè Carducci (soprattutto il prosatore) e al Porta. E sui dialetti la disponibilità è alla massima apertura: Gadda concede
“Il diritto di alcuni modi più ricchi o più vigorosi, de’ dialetti stessi…a entrare nell’elenco dei padri coscritti. Dò palla bianca ai meteci e inserisco in una mia prosa il ligure galuppare (per sciroppare, francese bouffer) e il romanesco gargarozzo. Giungo persino a fare qualche scandalosa concessione alle due grandi lingue sorelle, francese e spagnola”
(ibidem).
Come precisa Luigi Matt nel capitolo dedicato alla lingua di Gadda, questo approccio pluralistico, universalistico, onnivoro verso i linguaggi riflette una visione diametralmente opposta a quella del pur stimato Manzoni,
“che in più occasioni viene assunto come idolo polemico per la sua tendenza ai «monovocaboli» («voleva cacio, e cacio unicamente, per decreto catenaccio del ministro. Guai al formaggio!», interpretata addirittura come una «psicosi»
(Matt in Gadda 2024).
Confessa lo stesso Gadda in Come lavoro, un altro testo incluso in I viaggi e la morte:
“Non sono, non riesco ad essere, un lavoratore normale, uno scrittore «equilibrato»: e tanto meno uno scrittore su misura. Il cosiddetto «uomo normale» è un groppo, un gomitolo o groviglio, o garbuglio, di indecifrate (da lui medesimo) nevrosi, talmente incavestrate (enchevêtrées), talmente inscatolate (emboitées) le une dentro l’altre, da dar coagulo finalmente d’un ciottolo, d’un cervello infrangibile”
(Gadda, 1977).
Nello stesso scritto, Gadda ricorda: “Sono partito volontario e rivolontario a ventidue, nel giugno del ’15; e poi nel maggio del ’16, nel luglio ’17”. La fase del Gadda giovane al fronte (della Grande Guerra, quella del 15-18) è emersa con maggior dettaglio ai lettori dopo la ripubblicazione del Giornale di guerra e di prigionia per Adelphi, la prima prova del Gadda scrittore, pubblicato nel 1955 da Sansoni e poi (in edizione accresciuta di materiali inediti) da Einaudi nel 1965. Ed è proprio da questo Gadda giovane che si muove Paola Italia nell’introduzione della monografia dedicata alle opere: un punto di vista nuovo, fuori dagli schemi critici ed esegetici consueti.
Una vita piena di ostacoli
Una vita difficile, quella di Gadda, che lo scrittore amplifica un po’ teatralmente sulla spinta della sua ipocondria accentuata dai disturbi e dal lavoro. “La mia carriera non è mai stata aperta e agevole, ma sempre piena d’ostacoli” (Gadda, 2007). Gadda ricorda soprattutto i pericoli, le catastrofi sfiorate, i disagi, le melanconie. Ginnasio al Liceo Parini, “dove gli antidoti laicali resultarono, a volte, non meno tossici della disciplina catechistica” (ibidem). Poi, dopo la facoltà d’ingegneria industriale al Politecnico, la prima guerra mondiale consumata nelle trincee dell’Adamello e dell’Isonzo, le giornate che furono “la caduta del mio vivere in una vana e disperata sopravvivenza” (ibidem). Dopo la guerra cominciò a costruire impianti di chimica sintetica (ed anche di questo lavoro gli è rimasta soprattutto impressa la memoria del pericolo continuo, dell’imminente catastrofe), poi l’Argentina, in una fabbrica dalla quale uscivano fiammiferi, carta, litografie, sulle rive di un affluente del Rio de la Plata. In Argentina Gadda rimane due anni, dall’ottobre 1922 (aveva lasciato l’Italia proprio alla vigilia della marcia su Roma), fino all’autunno del ’24. Continuò a fare l’ingegnere in Italia, in Belgio, in Lorena, fino al ’31, ma intanto comincia a collaborare all’Ambrosiano, alla Gazzetta del Popolo.
I primi libri, La Madonna dei filosofi, Il castello di Udine, Le meraviglie d’Italia, Gli anni, se li stampò addirittura a sue spese, in società con i fratelli Parenti di Firenze. Nel capoluogo toscano rimase dieci anni. Collaborava, insieme a Eugenio Montale, a Letteratura di Alessandro Bonsanti. Da allora, a Firenze e soprattutto a Roma, Gadda ha vissuto da scrittore, tornando sempre più raramente alla professione di ingegnere, fino ad abbandonarla del tutto. Il successo è arrivato abbastanza tardi: soprattutto quando Garzanti si decise a pubblicare Quer pasticciaccio brutto de via Merulana nel 1957. Sette anni prima si era trasferito a Roma. E nella Capitale collaborò alla redazione del terzo programma della radio italiana.
Da furore a cenere
L’antipatia nutrita da Gadda per i seduttori o i grandi amatori come Ugo Foscolo – intesi come icone issate a simbolo/feticcio erotico-sessuale, a idoli di massa che irretiscono grazie al richiamo dei sensi – ci porta direttamente a uno dei libri più gaddiani di Gadda che è senza dubbio Eros e Priapo, uscito in prima edizione nel 1967 (Garzanti) con il sottotitolo Da furore a cenere, ma scritto in prima stesura più di vent’anni prima, a Roma, dopo il 4 giugno 1944 che segnò la liberazione della città dove Gadda si era trasferito da Firenze occupata. La rivista Officina ne pubblicò alcune pagine sotto il titolo Il libro delle furie nel 1955. Nel 2016 Adelphi ha ripubblicato Eros e Priapo nella sua versione originaria, assai più forte di quella “drasticamente rimaneggiata ed edulcorata” del 1967. Ecco come viene sintetizzato nel risvolto della prima di copertina della nuova edizione Adelphi:
“vituperante invettiva contro Mussolini -il Priapo Maccherone Maramaldo -, la sua foja di sé medesimo, le sue turpi menzogne, la sua masnada predatrice e la sua claque di femmine fanatizzate, certo. Ma, insieme, freudiano trattato di psicopatologia delle masse, autobiografia di un’intera nazione, micidiale requisitoria contro ogni abdicazione ai principi di Logos (cioè alla ratio e alla coscienza etica) e contro i tiranni di ogni tempo” (Gadda, 2016).
Un divertente scrutinio degli epiteti coniati da Gadda su Mussolini dà inizio alla recensione di Geno Pampaloni all’edizione del 1967, e la si può ritrovare nel saggio di Raffaele Manica, il capitolo dedicato a Eros e Priapo:
“La migliore descrizione di Eros e Priapo è quella stilata con distacco burocratico dall’autore nel proporre il volume ad Alberto Mondadori nel 1945 (la stampa non si avrà): «Volume di circa 300 pagine riguardante il sostrato erotico del dramma «ventennale» testé chiuso: a carattere irruente, e redatto con estrema libertà di linguaggio. In gran parte il testo risulta di una prosa arcaicheggiante di tipo toscano-cinquecentesco, con interpolazioni dialettali varie (romanesco, lombardo). Potrebbe ricordare per questo aspetto linguistico i «Contes drolatiques» di Balzac o la traduzione foscoliana del «Viaggio sentimentale» di Sterne. A un contesto di pensiero e di giudizio si mescolano episodi vari, imagini, ecc., registrasti in un tono morale”
(Manica, in Gadda, 2024).
Libro atipico, quasi unico nel suo genere difficilmente classificabile, miscela di pamphlet, trattato di psicologica collettiva, “libello” (definizione di Gadda), analisi psicosessuale dei fattori che portano la popolazione (femminile in ispecie) a innamorarsi del Dittatore, dell’Omo-forte, saggio nel quale Gadda, come spiega Leone Piccioni nell’introduzione dell’edizione Garzanti citata,
“sfogava la rabbia per i vent’anni del fascismo (che al suo sorgere aveva salutato con qualche simpatia; a chi glielo rimproverava, andava ripetendo: «Ma lo sa lei che il giorno della mia laurea in ingegneria coincise con l’occupazione delle fabbriche?»), per quelli della guerra e della fame patita a Firenze, e dei bombardamenti, prendendosela appunto soprattutto con quello che fu il simbolo del fascismo stesso. Ci pensava certo, dunque, anche quando era sfollato nelle vicinanze di Greve, a Chiocchio, dover anche alloggiavano in case diverse Montale, Russo, Mattioli”
(Piccioni, in Gadda, 2007).
La cognizione del dolore
La vicenda narrata nella Cognizione del dolore, il romanzo pubblicato a puntate su Letteratura fra il 1938 e il 1941 e poi in volume nel 1963, ha luogo in un immaginario paese del Sud America fra il 1925 e il 1933. Protagonista è l’ingegner Gonzalo Pirobutirro d’Estimo che vive in una villa di Maradagàl insieme alla vecchia madre con la quale Gonzalo ha un rapporto fortemente conflittuale (a volte violento), lei considerata colpevole di aver sacrificato all’ambizione di possedere una villa gli scarsi resti dei beni famigliari. I protagonisti della Cognizione del dolore sono Gonzalo Pirobutirro e la madre, due figure tormentate e dolenti, come si suol dire. Gonzalo vive appartato dagli altri e dalla vita, in una dedizione ipocondriaca di disadattato, nella sprezzante negazione dei falsi valori della società borghese: una negazione che lo porta al rifiuto violento dell’assurdità del vivere. Con la madre, alterna improvvise manifestazioni d’amore a un rancore delirante come se essa fosse per lui responsabile del male di vivere che si porta con sé dall’infanzia. Come scrive Cristina Savettieri,
“La storia di Gonzalo Pirobutirro e di Elisabetta François, sua madre, probabilmente inizia ben prima del 1936, anno della morte della madre di Gadda, Adele Lehr, di solito indicata come evento propulsivo della genesi del romanzo. Se è essenziale riconoscere la radice autobiografica della Cognizione, occorre contemporaneamente guardare al di là di essa, inserendo il testo nel sistema a vasi comunicanti dell’immaginazione narrativa di Gadda. La Cognizione sta anzitutto al centro di una costellazione di testi che ne abbozzano o anticipano, più o meno ampiamente, le invenzioni, i modi narrativi e anche le ossessioni principali”
(Savettieri , in Gadda 2024)
Se la famosa e spesso antologizzata descrizione – ma dovremmo dire dipintura espressionistica e iper-realistica – dei borghesi al restaurant è palesemente sarcastica o caricaturale, nell’Adalgisa l’elencazione iterativa delle famiglie borghesi più in vista (in particolare nel racconto «Un concerto» di centoventi professori) trasmette una più benevola vibrazione ironica (e anche comica):
“per il pertugio di via Bellini, dopo aver strisciato come pellirosse lungo la fiancata della chiesa, sfociavano già nella piazzuola, in due distinte coorti, i Ghiringhelli maschi e femmine e i Frigerio femmine e maschi, con pattuglie d’avanguardia dei Trabattoni, dei Berlusconi e dei Bambergi, e alle calcagna però il grosso dei Tremolada, dei Casati, dei Bollati, dei Recalcati e dei Calchi Novati”
(Gadda 2012).
Più avanti riprende, ancor più espansa, l’iterazione onomastica:
“La tribù dei Caviggioni -Perego -Lattuada- Garbagnati – Ghezzi – Corbetta – Trabattoni -Gavirazzi -Santambrogio – Cavenaghi – Freguglia – era al completo; e già lasciava convergere su di lei i benefici e caldi raggi d’una cordiale attenzione: o d’una ghiotta, per quanto non confessabile, comparazione”
(ibidem).
Come nota molto bene Claudio Vela:
“Con i disegni dell’Adalgisa Gadda raffina e porta al suo acme la tecnica dell’onomastica dei personaggi, che incrocia realtà e immaginazione motivata in modi tali da diventare una delle cifre più tipiche del suo stile, una sorta di sigillo di proprietà inconfondibile […) E viene il fondato sospetto che Gadda si comporti con le imparentate famiglie della borghesia milanese (e c’è anche la sua tra quelle) come «il povero Carlo» con i suoi coleotteri, anch’essi diligentemente raccolti in un elenco di fantastica (ma realistica) sonorità: «il povero Carlo aveva meticolosamente infilzato gli Scarabei e i Ditischi infiniti della natura, i Cebrioni, i Curculioni, i Cerambricidi, i Buprèssidi, gli Elatèridi: le fuggitive Cicindèle odorate di rosa e di muschio, lucide come Giovanna d’Arco nella loro corazza di acciaio chiuso, brunito; poi gli infaticati Ateuci e le Silfi». Meticolosamente infilzate”
(Vela in Gadda, 2024).
Alberto Arbasino (1930-2020) confessò una cotta entusiastica per l’Adalgisa, che si rifrange nel suo stile: si pensi alle 238 note dell’Anonimo lombardo (1959), discese direttamente dal modello dell’Adalgisa. E all’uso parossistico dell’enumerazione trionfante non solo nel testo, ma anche nelle chiose (come la lunghissima nota 8 all’Adalgisa). La famosa definizione arbasiniana “I nipotini dell’Ingegnere” riferita a lui stesso, a Pier Paolo Pasolini e a Giovanni Testori, è del 1960: viene dopo Quer pasticciaccio brutto de via Merulana. I “nipotini” non sono poi tanti, anzi pochissimi, visto che la narrativa e la prosa italiana hanno preso una strada più manzoniana, se non petrarchesca.
- Alberto Arbasino, L’Ingegnere in blu, Adelphi, Milano, 2008.
- Carlo Emilio Gadda, I viaggi la morte, Garzanti, Milano, 1977.
- Carlo Emilio Gadda, Il guerriero, l’amazzone, lo spirito della poesia nel verso immortale del Foscolo, Garzanti, Milano, 1999.
- Carlo Emilio Gadda, «Per favore, mi lasci nell’ombra». Interviste 1950-1972, Adelphi, Milano, 2007.
- Carlo Emilio Gadda, Accoppiamenti giudiziosi, Adelphi, Milano, 2011.
- Carlo Emilio Gadda, L’Adalgisa. Disegni milanesi, Adelphi, Milano, 2012.
- Carlo Emilio Gadda, Eros e Priapo, Adelphi, Milano, 2016.
- Carlo Emilio Gadda, La cognizione del dolore, Adelphi, Milano, 2017.
- Carlo Emilio Gadda, Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, Adelphi, Milano, 2018.
- Carlo Emilio Gadda, I viaggi la morte, Adelphi, Milano, 2023.
- Paola Italia (a cura di), Gaddabolario, Carocci, Roma, 2023.
- Adriano Seroni (a cura di), Gadda, Il Castoro, La Nuova Italia, 1969.