Assai particolare la storia di Francisco Tario, scrittore nato nel 1911 da una famiglia spagnola trasferitasi a Città del Messico, che approda al mondo della scrittura dopo un incidente occorsogli che interrompe bruscamente il sogno di fare del ruolo di portiere di calcio il lavoro della propria vita. Da lì pianista, gestore di teatri e di cinema e, quindi, narratore con un’identità talmente forte e propria da non potere essere accostato alla produzione media della letteratura ispano-americana del suo tempo condizionata da un certo realismo sociale imperante a livello culturale e da cui lo scrittore si discosta efficacemente. Oggi Edizioni degli animali recupera una sua raccolta di racconti dal titolo La notte (nella traduzione di Silvia Sichel), offrendo l’opportunità al pubblico di lettori italiani, dopo l’uscita dei racconti proposti in Fra le tue dita gelate (Tario, 2022), di approfondire la conoscenza di un autore non solo dotato di un immaginario che necessita di essere attraversato, soprattutto in questo periodo storico di appiattimento immaginifico, ma anche in grado – e, in fondo, come esplicazione del primo passaggio – di illustrare l’esistenza di un’insolita prospettiva, nello specifico, nel personale concepimento del tema della morte. Non si trascuri l’impiego voluto di illustrare e concepire quali accessi verbali rigorosamente indispensabili alla comprensione della particolarità dell’autore. È coerente, il primo, alla modalità di ingresso nel mondo di Tario che non può prescindere dalla necessità della visione in capo al lettore: in buona sostanza, questi è investito del potere di generare una realtà altra per il tramite di una scrittura che procede sistematicamente per immagini e si impone alla nostra attenzione in qualità di scintilla innescante una reazione a catena di effetti che cascano, gli uni sugli altri, in una rigorosa logica al contrario.
Francisco Tario (Città del Messico, 9 dicembre 1911 – Madrid, 30 dicembre 1977).
Si tratta di un processo che si scatena per effetto di un potenziale luminoso freddo che invade il retro delle cose illustrandocelo in un’ottica capovolta rispetto al pensiero comune. È, dunque, anche un atto del concepire, generare, nella forma illustrativa che le parole possono garantire, nella maestria creativa di un talento narrativo, un altro modo di intendere la morte, guardarla incarnarsi in oggetti inanimati o, più semplicemente, in ciò che umano non è o che dall’umano comunemente inteso si discosta e capovolgerne l’accezione negativa dell’assenza di vita reinterpretandola come positività di un’altra vita. Non prosecuzione del passaggio in terra, né tantomeno dimensione ultraterrena appagante e riparatrice dell’ingiusto vivere terreno. Un’altra più vera, forse, e grottesca storia. Almeno quanto quella dell’ex portiere Francisco Tario. Una storia nella quale si sovvertono le coordinate fino al punto di superare in qualche modo la pur magnifica visione del reale che Carl Theodor Dreyer squisitamente concede al pubblico in quell’inquadratura del suo capolavoro Vampyr – Il vampiro, in cui per un attimo il mondo lo concepiamo guardandolo dall’interno del feretro. Qui, è il punto di vista del feretro medesimo, e non del corpo che vi è riposto, a prendere il sopravvento nella partenza del processo illustrativo con cui ha origine il viaggio offerto dalla raccolta recentemente edita. È il primo racconto, La notte del feretro:
“E ho sognato. Ho sognato dolci e bianche salme di ragazze, con le cosce tremolanti sulla mia pelle… e ricchi sepolcri di marmo, arieggiati e festosi… Ho sognato, e quelle immagini sibaritiche mi hanno fatto così male che, quando ho riaperto gli occhi e ho visto entrare il sole attraverso le vetrate, mi sono sentito esausto, svuotato, sfinito, come forse si sentono gli uomini dopo una superba notte di intensi piaceri”.
Dunque, non un’umanizzazione dell’incorporale nel tentativo di conferire identità a ciò che per definizione non può contare su cotanta complessità potenziale. Piuttosto, la creazione di uno spazio immaginifico che, privato di orpelli, scarnificato, privo della sostanza materica della carne, ma con una memoria della medesima funzionale al racconto, si frappone tra umanità e materialità e si compone di un altro sentire che, pur passando necessariamente dall’esperienza dell’umano, nella indispensabilità dei corpi nell’approccio all’esistenza (e alla sua conoscenza), ne travalica i limiti. In quest’ottica, accade di tutto, nello scarto – si badi bene – della prevedibilità del ribaltamento. Si sceglie il rigore di un’altra via, frutto di un processo creativo di notevole portata, dove persino un battello (in La notte del battello naufrago) può raccontare la sua fine e farlo in un crescendo di ineluttabilità che offrono lo spaccato di uno scenario in cui il paesaggio notturno intorno si fonde con il personale senso di percezione della fine che invade la coscienza dell’imbarcazione:
“Ho guardato per l’ultima volta il cielo alto, nero; la luna morbosa, sanguinante: la spuma inquieta; la profonda cavità dell’orizzonte. Una sete ardente – sete di acqua salata – mi bruciava la gola, come se un incendio improvviso mi fosse divampato in petto e si propagasse attraverso le mie arterie. Ho aperto la bocca e ho bevuto. L’acqua è entrata a fiotti, è precipitata nel mio ventre, mi ha inondato le viscere. L’orchestra ha smesso di suonare. Si sono spente le luci. L’urlo della sirena ha spazzato il litorale…”.
Dunque, l’immaterialità del battello che non solo rivela un procedere in parallelo con il mondo dell’esistente, ma si spinge oltre, nel concepimento di una visione negata all’ottusità contemporanea dei viventi:
“E un altro mondo più nobile, infinitamente più bello, mi è venuto incontro, Un mondo umido, sussurrante e compiuto. Un mondo di strane fosforescenze, di mostri quasi divini, di ombre sottili dalle movenze silenziose, di donne azzurre e di uomini coperti di squame rosse, di calici colmi di sale. Un mondo di perenni fioriture, di sguardi imperturbabili; di pace e piacere costanti”.
Quasi non si potesse che contare su un altro modo di stare al mondo e di concluderlo, il suddetto passaggio, come quello delle creature inanimate di Tario, per riuscire a superare il blackout immaginativo dentro cui l’umano con tutte le sue risorse è chiaramente caduto in questo presente desertificato anche dall’assenza di speranza. Ciò nell’ottica di volerla portare, la dimensione dello scrittore messicano, alla nostra svuotata contemporaneità. Nel suo universo tutto è ancora possibile e difficile da prevedere, più che nel ribaltamento che avviene nel rispetto di una legge che si afferma nel progredire delle storie, nella modalità del medesimo. L’inanimato, del battello, del feretro, ma anche del completo grigio che racconta la solitudine degli uomini (La notte del completo grigio) o del pupazzo irriso da tutti che trova nel sogno la sua sola salvezza (La notte del pupazzo), si accompagna al mondo animale, alla gallina che, a dispetto della sua nomea, si vendica astutamente del suo boia (La notte della gallina) o al cane randagio (La notte del cane) che, fedele servitore del padrone, poeta maledetto e malato, nell’ingenuo e puro pensare la realtà, accresce la velocità con cui l’orrore rapisce l’umano e l’impatto con cui, ai nostri occhi, la beatitudine di Cristo si affaccia con forza tra le ansie irrisolte dei quadrupedi. La possibile reinterpretazione della logica umana alla luce del punto di vista di quello che umano non è si svolge come potenziale direzione di una delle tante riflessioni che il testo stimola non solo laddove lo sguardo è quello di un soggetto inanimato o animale, ma anche nella selezione degli umani che pure attraversano la narrazione quali monadi idonee a confermare l’irrilevanza del genere nel suo complesso.
L’umano compare nell’accezione di una minoranza, il folle, il figlio rinnegato, lo scrittore medesimo che evidentemente si racconta nell’appartenenza a un’esigua percentuale di suoi simili che non risponde così efficacemente come dovrebbe all’istinto di morte. Sono gli scarti del sistema che, nel racconto della loro fine – e qui è la loro peculiarità rispetto alle altre categorie prese in esame – se non riescono a riscattare la miseria del genere a cui appartengono, quantomeno chiudono un ciclo nel rispetto di un’imperscrutabile legge che trapela qua e là e che giustifica, contestualizza, rovescia le verità in funzione della rivelazione di altri orrori, quelli quotidianamente sepolti dall’insensato procedere di quella vita umana che sta fuori dallo spazio dei racconti dello scrittore messicano. In sostanza, l’umanità qui raccolta non è il trionfo bel bene nell’attraversamento della fine. Sarebbe logica scontata e consolatoria. È, piuttosto, l’estrema coerenza di un punto di rottura rispetto al vivere comune che conduce alla determinazione di un paradosso dentro cui si rintraccia la memoria di una ferita, il disagio di un’esclusione, la coscienza di una diversità. Il dolore passa lungo la notte che tutti attraversano, ma non la domina. La fredda luce con cui Tario illumina e illustra le sue creature parrebbe il riparo all’insensatezza della vita umana che pesca nel nulla (si veda a riguardo il racconto La notte dell’uomo), un accudimento paterno, ironico o razionalizzato, di fronte alla prevedibilità del dolore nella discesa dell’abisso del nonsenso. Potrebbe, a ben guardare, essere il punto successivo dell’inquietudine che attraversa l’opera di un altro scrittore sudamericano, Pablo Palacio. In Vita dell’impiccato questi scrive:
“Guarda, cosetta, qui, sotto tutti noi, c’è la Terra, l’unica cosa che esiste davvero. La Terra è una grande palla con sopra tutte le cianfrusaglie che domani ti appassioneranno, ed è anche una piccola bomba che viaggia senza sosta nel nulla. Il nulla è qualcosa di immenso…no. Il nulla è nulla che non finisce mai”
(Palacio, 2021).
Qui il nulla ha un termine, come l’angoscia, perché un ciclo si chiude, perché una legge si compie, perché una verità si radica, anche nel male. Se nell’ottica di Palacio la vita terrena è dominata da re e soldati, Francisco Tario si lascia sedurre dalla Morte che lo salva dalla Vita. Così si rivolge (in La mia notte), infatti, alla prima:
“Ma tienimi al tuo fianco. Non mi abbandonare mai e soprattutto non mi gettare di nuovo laggiù. Tra le tue braccia morbide, contro il tuo seno, umile, vassallo sottomesso, ti servirò in eterno”.
I rimandi alla letteratura sudamericana potrebbero non fermarsi qui. E avere innumerevoli direzioni fino a condurre, per scelta, a un potenziale ulteriore passaggio, la creazione di una linea ipotetica di raccordo tra Francisco Tario e, per esempio, Amparo Davila. Nei racconti dell’antologia L’ospite e altri racconti, il potere immaginifico nasce da una crepa, una fragilità, un’assenza che, per effetto dell’esposizione al fantastico, degenerano, assumono sembianze mostruose, negano ogni speranza, conducono alla morte o alla violenza. Dunque, l’incubo, l’orrore, la paura, il disastro che avanzano con forza paralizzando o chiudendo l’esistenza alla possibilità di una trasformazione. Quasi un blocco, la materializzazione di un trauma, l’affermarsi di una disgrazia, la malattia che deforma e uccide, l’assuefazione al dolore, la violenza che non ha nome e che solo la morte chiude, sdoppiamenti funzionali alla visione di sé che non offrono, però, la via di salvezza, eterni circuiti maledetti, ossessioni che contagiano fino a ucciderne l’oggetto. In estrema sintesi, la vita declinata nel suo lato oscuro e notturno.
In Tario, il notturno è la rivelazione di ciò che la vita nega, il rifugio, il disvelamento dei giochi, il superamento di ogni orrore, la terra senza giudizio, quello che l’uomo non è. Il salto verso un imponderabile punto, che non è una meta, uno scopo, un senso, ma solo l’altro lato delle cose. Se, come dice David Hayden, “tutta la capacità di conoscere, insieme alla conoscenza stessa, si esaurisce e scorre via, lasciando il silenzio, dentro e fuori” (Hayden, 2019), non resta altro che arrendersi all’evidenza dell’irrilevanza del conoscibile, al fatto che l’altro lato delle cose arriverà inaspettato nell’istante in cui l’orrore della vita sarà un ricordo e un’altra madre varcherà la soglia di un’altra storia che possiamo solo anticipare. Ma solo se abbiamo il talento di Tario o se siamo ancora capaci di immaginare.
- Amparo Davila, L’ospite e altri racconti, Safarà, Pordenone, 2020.
- David Hayden, Il buio a luci accese, Safarà, Pordenone, 2019.
- Pablo Palacio, Vita dell’impiccato, Edizioni Arcoiris, Salerno, 2021.
- Francisco Tario, Fra le tue dita gelate, Safarà, Pordenone, 2022.
- Carl Theodor Dreyer, Vampyr, Edizioni Cineteca di Bologna, 2022 (home video).