La scienza vende. Può sembrare strano, ma vende decisamente meglio di altri prodotti culturali più “accessibili”, come la storia o l’arte. E lo fa anche in Italia, paese che sforna certamente scienziati di fascia alta, ma che ha un problema cronico con il connubio tra scienza e cultura, secondo alcuni a causa del retaggio di Benedetto Croce, che liquidava matematici e affini con la spregiativa definizione di “ingegni minuti”, ripresa dal suo nume tutelare, Giambattista Vico, per sostenere – come Vico – che l’unica scienza possibile è quella che riguarda l’Uomo inteso come essere pensante (quindi la filosofia, la storia, la letteratura), perché essendo prodotta dall’Uomo è anche da lui perfettamente conoscibile. Ma Croce ha solo metà delle colpe. L’altra metà è esemplificata dal battibecco che ebbero l’astrofisica Margherita Hack e lo scrittore Italo Calvino sul Corriere della Sera alla fine degli anni Settanta: Calvino aveva scritto estasiato intorno a un articolo sui buchi neri scritto da Kip Thorne, il futuro premio Nobel padre delle onde gravitazionali; Hack non aveva apprezzato le semplificazioni intuitive e le banalizzazioni da letterato di Calvino e gli aveva suggerito di lasciare la scienza agli scienziati. Questo episodio è ricordato da Francesco Guglieri nell’introduzione al suo libro Leggere la terra e il cielo, il cui sottotitolo recita, per l’appunto, Letteratura scientifica per non scienziati, per chiarire subito per chi, tra Hack e Calvino, Guglieri faccia il tifo.
Leggere la terra e il cielo è un libro che mancava in Italia, perché getta luce su quel fenomeno curioso, poco indagato, ma al tempo stesso centrale dell’immaginario contemporaneo, che è la letteratura scientifica per non scienziati, o, più banalmente, la divulgazione scientifica. Che non è, però, la stessa cosa. Si può fare divulgazione in tanti modi; ma quelli che gli anglosassoni chiamano popular science books, i libri di scienza “popolare”, rappresentano un caso a sé stante. Tra di essi, spesso viene pubblicato qualche autentico best-seller, in grado di vendere milioni di copie e suscitare nei lettori a digiuno di conoscenze scientifiche la stessa meraviglia e impressione che suscitò l’articolo di Thorne in Calvino.
Questi libri, a metà tra le terra e il cielo, potremmo dire, ossia a metà tra il mondo della scienza e il mondo della cultura letteraria, realizzano il sogno di Charles Percy Snow di fondere “le due culture”. Guglieri, che dei due mondi occupa quello terreno – è curatore editoriale della narrativa straniera per Einaudi, un letterato tipico – si rivolge ai suoi simili per accompagnarli, novello Virgilio, in questo viaggio verso l’empireo dove nascono le idee scientifiche; e lo fa, da letterato, imitando Harold Bloom, la cui fissazione per la definizione di un “canone occidentale” della letteratura ha suscitato tante polemiche ma ha anche fatto scuola: così, Guglieri cerca di definire un canone dei libri di scienza che i lettori colti dovrebbero leggere, non “come gli ambiziosi, per istruirvi”, diremmo con Gustave Flaubert, ma “per vivere”.
Un genere mai così popolare
Sappiamo che i primi libri di divulgazione scientifica cominciarono ad apparire sul mercato nel XVII secolo. Isaac Asimov – che ne fu un maestro – cita come pioniere Bernard le Bovier de Fontenelle, autore dell’Entretin sur la pluralité des monds (1686). Poi, la “letteratura scientifica” ha vissuto una serie di ondate, ricostruite dagli studiosi. La prima ondata fu quella che, agli inizi del XVIII secolo, produsse una vera e propria fissazione popolare per la filosofia naturale, come all’epoca si definiva ancora la scienza. Poi, verso la fine del XIX secolo, iniziarono a uscire testi che magnificavano i nuovi progressi della tecnica; ma, tra questi, apparvero anche alcuni libri di tipo diverso, come The Unseen Universe (1875) dei fisici Balfour Stewart e Peter Tait, che cercavano di proporre una visione anti-materialista della nuova immagine dell’universo prodotta dalla scienza.
Sul fronte francese, qualcosa di simile fece l’astronomo Camille Flammarion, mescolando nuove scoperte scientifiche (Astronomie populaire, 1880) con speculazioni di tipo metafisico (Des Forces naturelles inconnues, 1865). Questa “ibridazione” è continuata anche nel corso di tutto il XX secolo. Da un lato è stata in grado di produrre opere di grande attrattiva scritte da rigorosi scienziati, come Science and the Unseen World di Sir Arthur Eddington (1929) o The Mysterious Universe di Sir James Jeans (1930), che hanno reso popolari per la prima volta al grande pubblico i paradossi della fisica quantistica; dall’altro, ha generato anche molte opere al confine con la pseudoscienza, soprattutto durante la grande ondata di libri divulgativi che uscirono negli anni della controcultura, capitanati da un classico intramontabile come Il Tao della fisica (1975) di Fritjof Capra, che riprendeva quell’attrazione popolare per il mondo surreale della meccanica quantistica fondendola con la fascinazione per il misticismo orientale.
Ebbene, è qui che dobbiamo andare a indagare se vogliamo capire cosa Federico Guglieri intenda per “nuovo sublime”. Beninteso, non si troverà nel suo canone nessun libro di sapore pseudoscientifico, ma solo opere rigorose. Al tempo stesso, però, si troveranno anche molte opere che propongono idee nuove e bizzarre, teorie radicali e spesso non ancora affermate, che tuttavia rappresentano il genere di scienza più consumato dal grande pubblico.
L’esempio paradigmatico è il secondo del canone di Guglieri, Dal Big Bang ai buchi neri di Stephen Hawking (1988). Il libro di Hawking non è uno tra i tanti testi di letteratura scientifica, ma il testo per antonomasia. Altri libri, in passato, avevano ottenuto grande notorietà. Per esempio Cosmos di Carl Sagan (1980), uscito insieme all’omonimo show di enorme successo in America, che rimase per oltre settanta settimane nella classifica dei best-seller del New York Times; o I primi tre minuti del premio Nobel Steven Weinberg (1977), che è il primo nella lista di Guglieri. Ma i loro risultati scompaiono se comparati alle dodici milioni di copie vendute dal libro di Hawking solo nei primi dieci anni dalla sua uscita, con 234 settimane di seguito nella classifica dei dieci libri più venduti nel Regno Unito. Da allora, il libro non ha mai smesso di essere ristampato ed è presente anche nelle più piccole librerie di paese. In confronto, un altro successo di quegli anni, La mente nuova dell’imperatore del matematico e fisico Roger Penrose, collega di Hawking, vendette poco più di 100.000 copie nello stesso lasso di tempo. Nell’editoria scientifica si dice che c’è il libro di Hawking “e poi tutto il resto” (Leane, 2007).
In cerca del nuovo sublime
Raccontando della sua passione per questo libro, Guglieri sostiene che i buchi neri rivestono oggi nell’immaginario di massa lo stesso ruolo dei luoghi ancora inesplorati tra XIX e primo XX secolo. Un fascino esotico, misterioso, che produce il “nuovo sublime”. Esattamente come quelle storie di esplorazioni generavano i grandi romanzi di avventura divorati dai giovanissimi di quegli anni – tra tutti, i romanzi di Emilio Salgari – così dalla seconda metà del XX secolo sono le nuove scoperte scientifiche a generare le storie di fantascienza divorate da generazioni di adolescenti. Guglieri compara le teorie sul tempo di Hawking a quelle di Philip K. Dick, in particolare al romanzo Noi marziani (1964) in cui il protagonista è in grado di viaggiare nel tempo. “A pensarci bene è un’idea romanzesca geniale, una di quelle che, quando le leggi, ti ribaltano il cervello: in un certo senso, almeno nella fantasia di Dick, era come se la causa venisse dopo l’effetto!”. Qui l’autore si riferisce alla trama del romanzo, ma potrebbe riferirsi anche al contenuto del libro di Hawking, dalla sua teoria del tempo immaginario ai paradossi che si producono intorno ai buchi neri. Una simile impressione, quella di “ribaltamento del cervello”, la ritroviamo nell’ultimo capitolo del libro, quando Guglieri ha lasciato i misteri dell’universo per dedicarsi a quelli, purtroppo più prosaici, della Terra nell’Antropocene.
Introducendo La grande cecità di Amitav Gosh (non a caso forse il miglior libro sui cambiamenti climatici, ma scritto non da uno scienziato, bensì da “uno degli scrittori più importanti del mondo”, come lo giudica Guglieri), ci parla di una scena del film L’impero colpisce ancora del ciclo di Star Wars, quella in cui l’equipaggio del Millennium Falcon scopre di non essere dentro una caverna in un asteroide, ma nella pancia di un mostro spaziale. È una scena tipica delle storie di avventura, fiabesca, persino archetipica (da Pinocchio al Giona biblico), che produce “la stessa emozione che ci prende quando, in una foresta, un ramo a terra all’improvviso spalanca gli occhi e si rivela essere un serpente”. Leggere la scienza produce, nel lettore, questo stesso effetto, secondo Guglieri:
“Sono quei momenti in cui tutto si ribalta all’improvviso, le categorie che usavamo per ordinare il mondo, per classificarlo, di colpo si rovesciano nel loro opposto, quelle vecchie diventano inutili, quelle nuove mancano all’appello. Non si sa dove aggrapparsi. È come un terremoto, o un’alluvione: manca la terra sotto i piedi”.
La scienza genera questo effetto. Non solo la scoperta degli incredibili paradossi quantistici, ma anche cose più “banali”, come lo stretto rapporto tra esseri umani e mondo naturale che il libro indaga nell’ultima parte, o la genesi dell’universo (su cui si concentra invece la prima sezione), o i misteri dell’evoluzione, o ancora le sorprese della matematica. Leggendo un libro come L’ordine del tempo di Carlo Rovelli (autore che in Italia ha bissato, con le sue Sette brevi lezioni di fisica, il successo di Hawking), è facile imbattersi in questo genere di ribaltamenti, come in questo brano riportato da Guglieri:
“Ogni corpo rallenta il tempo nelle sue vicinanze. La Terra è una grande massa, e rallenta il tempo vicino a sé. Più in pianura e meno in montagna perché la montagna è un po’ più lontana dalla Terra. (…) Se le cose cadono, è a causa di questo rallentamento del tempo. Dove il tempo scorre uniforme, nello spazio interplanetario, le cose non cadono, fluttuano senza cadere”
(Rovelli, 2017).
Il senso del meraviglioso scientifico
Così lo chiama anche Francesco Guglieri: il senso del meraviglioso scientifico, che richiama il sense of wonder della fantascienza. È quello che generano i libri del suo canone. C’è il Big Bang, con Steven Weinberg e Stephen Hawking, e ci sono i buchi neri, con Buchi neri e salti temporali di Kip Thorne (il libro che ha reso popolare i wormhole di cui oggi è piena la fantascienza sui paradossi temporali, come Interstellar – di cui Thorne è stato consulente – o Dark) e La guerra dei buchi neri di Leonard Susskind, James Gleick con il suo Viaggi nel tempo, libri strani e paradossali come Gödel Escher Bach. Un’eterna ghirlanda brillante di Douglas R. Hofstadter o La quarta dimensione di Rudy Rucker, libri sull’origine della vita come Origini di Jim Baggott o La vita meravigliosa di Stephen Jay Gould, teorie eterodosse sulla natura, come Plant Revolution di Stefano Mancuso sull’intelligenza delle piante, o il discusso Il gene egoista di Richard Dawkins; il best-seller mondiale di Yuval Noah Harari Sapiens (2014), che ha venduto in cinque anni ben 15 milioni di copie, dimostrando che applicando l’effetto Hawking alla storia si può vendere bene (anche se agli storici la cosa non è piaciuta); il controverso La scimmia nuda di Desmond Morris, il capolavoro del neurobiologo Oliver Sacks L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello, da cui è stata tratta un’opera con le musiche di Michael Nyman e una trasposizione teatrale di Peter Brook; il libro di Andrea Wulf L’invenzione della natura sulle straordinarie avventure scientifiche di Alexander von Humboldt, La sesta estinzione di Elizabeth Kolbert (vincitrice del premio Pulitzer) e l’ormai celeberrimo Spillover di David Quammen, trasformato in best-seller dalla pandemia di Covid-19.
Se vogliamo trovarci un elemento in comunque, dobbiamo cercare quello che alcuni di questi libri hanno avuto in comune. Un nome sconosciuto, un agente letterario americano di nome John Brockman. Quest’uomo, che è stato agente di Stephen Hawking e Steven Weinberg, di Rudy Rucker e Richard Dawkins, di James Gleick e Leonard Susskind, è più di tutti l’artefice del nuovo sublime. Negli anni Ottanta, in una tenuta di trenta ettari nel Connecticut, fondò il Reality Club, poi trasformato nel sito Internet Edge.org. La giornalista scientifica e scrittrice Amanda Gefter l’ha descritto così:
“Il sito era un salotto intellettuale, una sorta di virtuale Tavola Rotonda dell’Algonquin, dove i più brillanti scienziati, scrittori e pensatori discutevano e dibattevano su tutto, dalla coscienza e l’origine della vita alla teoria dei giochi e gli universi paralleli. In bacheca c’erano le ultimissime del pensiero scientifico, come se questo si dispiegasse in tempo reale in un mondo che qualsiasi non addetto ai lavori potesse capire, ma senza abbassarne il livello o confezionarlo in frasi a effetto”
(Gefter, 2015).
Uomo leggendario (sembra che una volta, letto un articolo sulle onde gravitazionali, negoziò via fax in 24 ore dal Giappone un contratto per un libro con un editore spagnolo), Brockman è stato forse il primo a capire il senso del meraviglioso scientifico, il nuovo sublime, e a trasformarlo in un mercato editoriale fiorente e immaginoso. Non una scienza pop, né una divulgazione per ingegneri in pensione che vogliono scoprire la teoria del tutto, ma una vera e propria branca della letteratura, di cui, dopo il libro di Francesco Guglieri, ogni critico letterario moderno che si rispetti dovrà tenere conto.
- Isaac Asimov, Popularizing Science, Nature n. 306, 10 novembre 1983.
- Amanda Gefter, Due intrusi nel mondo di Einstein, Raffaello Cortina, Milano, 2015.
- Elizabeth Leane, Reading Popular Physics: Disciplinary Skhermishes and Textual Strategies, Ashgate Publishing, Farnham, 2007.
- Carlo Rovelli, L’ordine del tempo, Adelphi, Milano, 2017.