Non bisognerebbe mai frugare nell’intimità biografica di chi scrive, si è soliti ammonire in ogni forma di approccio letterario, sin dagli esordi comuni dell’ingresso nel piano immaginario mediato dai meccanismi della finzione.
Non bisognerebbe, si dice, perché ciò che è sancito dalla carta, in qualche modo, vive di vita propria, nell’istante in cui trovando forma e spazio fuori dalle segrete dell’autore si fa terreno condiviso, dominio che oltrepassa il personale, divenendo eredità lasciata in balìa dello spirito eretico del lettore che spodesta il creatore e se ne fa inevitabile nuovo artefice, seppure nei limiti tracciati dal proprio vissuto e dal condizionamento che esso ha operato sul suo modo di stare al mondo e di fronte alla pagina.
Dunque, non bisognerebbe per rispetto a quel processo di quotazione universale in cui confluisce la bellezza dell’arte poetica e narrativa nel rispetto di una logica che è composta delle molteplici singolarità che vi accedono per attrazione o respingimento, conformemente al piano disconnesso degli amori, generando un gioco di riflessi che rimanda in ultimo alla fonte senza un finale che sia di identificazione, ma di un’unicità più ricca che in partenza.
Risiederebbe in ciò il valore dell’opera letteraria, nell’ineludibilità dell’altro occhio che ne suggella una declinazione quasi oggettiva del bello messo al mondo. La più recente creatura di Filippo Tuena, La voce della Sibilla, edita da Il Saggiatore, sovverte lo spirito delle nostre premesse, abbatte consolidate verità, mette in discussione atavici ingranaggi e conduce negli angoli intimi della scansione in atti del processo creativo relegando, ma solo in apparenza, il lettore al ruolo di indiretto testimone di una storia che parrebbe solo di altri. Chi siano questi altri lo rivela, l’autore, sin dagli esordi, con il sostegno pittorico delle loro sagome, quasi speculari l’una all’altra: da un canto Ezra Pound “ritratto di tre quarti su una poltrona dai braccioli di legno / Gli occhi chiusi quasi fosse addormentato o perduto / In pensieri che lo rasserenano piuttosto che preoccuparlo”, dall’altro Thomas Stearns Eliot che “guarda fisso nel vuoto qualcosa fuori dalla cornice”, dentro la quale “quel che nello sfondo del ritratto di Pound / È movimento qui diventa stasi così come / La persona ritratta non può socchiudere gli occhi / E abbandonarsi al movimento onirico / Suggerito dagli occhi chiusi di Pound”. Dunque, “la rilassatezza meritata / Del vincitore” a cui si contrappone, in un perfetto bilanciamento di spiriti consustanziali, la resa quasi plastica di un rimpianto.
Manoscritto di The waste land con le annotazioni di Ezra Pound (particolare).
È un modo piuttosto diretto di andare al cuore della vicenda e, a ben guardare, l’intero testo è attraversato da una sincerità spoglia di qualsiasi travestimento, salvo farsi necessariamente beffa dell’ingenuità del lettore, che si ritenga erroneamente fuori dai giochi, in una stratificazione della narrazione in cui, unitamente alla vicenda principe che vide Pound ed Eliot alle prese con quello che sarebbe stato il capolavoro del secondo in grado di rivoluzionare la poesia del Novecento, scorre un rivolo che bagna la voce narrante da una sponda e il lettore dall’altra.
Certamente domina la scansione in atti di La terra desolata (The Waste Land) si affacciano con forza i caratteri dei due nell’altalenante intreccio relazionale, insieme al vissuto che ne condiziona l’atteggiarsi rispetto alla vita. Si restringe – parrebbe – il campo creativo dell’immaginario del lettore, quasi circoscritto dalla volontà di indagine psichica dei due grandi, manifestata sin dagli esordi dall’autore e portata avanti con una documentata serie di prove, eppure si insinua un altro piano che attraverso l’intero testo restituisce al lettore la sua posizione egemone, senza che se ne renda perfettamente conto. È il rivolo che nasce dall’amore della voce narrante per la storia dei due, è una storia nella storia, è lo sguardo malinconico del ricordo del balenare della vita di chi scrive questa storia nella storia e che, rivolto al lettore, lo rende testimone agente della propria intimità che a quella dei due si affianca e regala il senso dell’anima di questa insolita pubblicazione. Scrive Tuena:
“Perché il lettore è al pari dell’autore responsabile di quel testo e parla a lui proprio come parla all’autore. È semplicemente una questione di punti di vista: essere di qua o di là del testo”.
Quell’unicità, dunque, più ricca di cui abbiamo detto e che, quale legge generale, non sfugge alle esigenze narrative, alla fungibilità quale prova della resistenza della struttura portante del racconto neanche in un testo come questo che stiamo trattando. Testo che è prosa, talvolta poetica, saggio e diario in una miscellanea che non si concede agevolmente a un’eventuale critica di disgregazione dell’oggetto del narrato, perché l’osservazione potrebbe semmai essere letta nell’ottica di una complessità o, meglio, di un potenziale di declinazione che risente del confronto di apparenti antinomie.
È la lettura attenta che ribalta le apparenze e rende l’uno coessenziale all’altro: questo perché, nel porsi Pound di fronte a Eliot e viceversa, essi assumono o riacquistano dall’amorfo appiattimento, sempre in agguato, tutta la consistenza caratteriale e la dignità, talvolta smarrita, dell’esistenza restituendo indirettamente al lettore il piano concreto di una bellezza che non è negazione degli opposti, ma l’armonia dei medesimi in un delicato equilibrio tra vettori caparbi.
Non è, in questa logica, assolutamente casuale che l’autore prenda quale iniziale spunto di navigazione la dedica ad Ezra Pound che, nella terza parte di Poems 1909-1925 (Geoffrey Faber, Londra 1925), compare rendendogli un tributo nella menzione che lo qualifica come “miglior fabbro”. Dice al riguardo Eliot:
“la frase, non solo come l’ha utilizzata Dante, ma anche per come io stesso l’ho citata, ha un preciso significato. Non volevo suggerire che Pound fosse solo questo (un modello); ma, in quel momento, desideravo rendere onore alla maestria tecnica e all’evidente abilità critica dimostrata nel lavoro da lui svolto, poiché ha contribuito così tanto nel trasformare La terra desolata da un guazzabuglio di passi buoni e scadenti in poesia”.
Non è, però, solo questo, cioè il riconoscimento di quella escissione senza la quale il componimento non sarebbe pervenuto nelle attuali forme, riuscendo il medesimo per formule e ingranaggi strutturali di rara potenza innovatrice, lungo un intervento che agisce sulla meccanica, senza aggiunta.
Si tratta, invero, anche di un omaggio ai canti provenzali, alla poetica medievale, alla Provenza-Dordogna, ma anche all’Italia, passioni verso cui convergevano i due in un unico vettore, attraverso il ricorso a un adattamento dei versi con cui Dante, per il tramite di Guido Guinizelli, celebra Daniel Artaut (nel canto XXVI del Purgatorio) e i poeti occitani nel Purgatorio. La dedica di Eliot (“Per Ezra Pound il miglior fabbro”) compare dopo l’esergo a sua volta prelevato dal Satyricon di Petronio (“Nam Sibyllam quidem Cumis ego ipse oculis meis vidi in ampulla pendere, et cum illi pueri dicerent: Σίβυλλα, τί θέλεις; respondebat illa: ἀποθανεῖν θέλω”) e neanche questo è casuale. Ci dice Tuena:
“Per un fatto singolare, forse una svista o forse una volontà dell’autore, la dedica segue l’esergo come se quell’atto di ringraziamento facesse parte dell’opera, o come se il desiderio di scomparire che l’esergo manifesta valesse sia per l’autore che per il dedicatario”.
Dunque, potremmo quasi parlare di una convergenza in un unico vettore, anche qui, che parte da un’intima disposizione d’animo verso il vivere e la sua fine e trova la sua manifestazione più consona, in relazione al mondo culturale di appartenenza, all’immaginario e agli interessi dei due, in un punto preciso della storia della letteratura a cui si ancorano entrambi di fronte alle disillusioni della vita, ben oltre quelle di una generazione, che incedono a passi diversi nel corso delle due esistenze, ma che, con la medesima forza corrosiva della resistenza alla decadenza, si atteggiano in direzioni solo in apparenza diverse. Sono, alla fine, i due sguardi di un medesimo e profondo attaccamento alla vita. E La terra desolata si offre quale terreno ideale per l’esplorazione del loro universo, trattandosi dell’opera dell’uno, a cui l’altro mette sapientemente mano:
“Dunque il progetto è andare a svelare / Le motivazioni affettive di un’opera d’arte / E sollevare il velo del riserbo che ogni autore stende / Su quel che fa / Poiché questo è il paradosso dello scrittore: / manifestarsi celandosi e mimetizzandosi / Tra le parole che adopera / E per questo scopo The Waste Land va bene / Come ogni altra poesia / Come ogni altra opera d’arte”.
Essa è per Eliot “il ristoro di un personale e insignificante borbottio contro la vita”, “un brano di brontolio ritmico” attraverso cui celebrare non solo l’insensatezza della vita facendo procedere per categorie poetiche le frustrazioni, il lavoro in banca svolto per necessità, il conflitto col padre, la fatica di ammettere a sé stesso e alla famiglia l’appartenenza intima al mondo delle cui categorie si serve, l’ambiguo atteggiarsi del femminile, il suo movimento letto quale instabile ponte verso il desiderio, ma anche la bellezza, della vita, il suo togliere, dopo averne concesso quello che alla fine è, per velocità di passaggio, solo un assaggio di cui rimane il sapore nelle terre desolate del tempo che passa sui corpi segnati, ma ancora attraversati dallo spettro del desiderio.
Irrequieti entrambi, ma in veste diversa, mirano all’orizzonte qualcosa che non esiste più, un passato travolto dalla catastrofe bellica. Pound, “sempre soltanto di passaggio” agli occhi di Eliot, facile agli “entusiasmi nevrotici”, sospeso tra stupore del nuovo e disillusione, ed Eliot perennemente incerto, incapace di “creare un interesse attorno a sé”, come invece è in grado di fare l’altro, sono entrambi esuli dagli Stati Uniti in cerca di un loro posto in un mondo irriconoscibile, rapidamente trasformatosi, in rapida discesa verso l’inferno.
Thomas Stearns Eliot, Ezra Pound.
Ciascuno bisognoso dell’altro: Eliot del sostegno di Pound, questi della risonanza geniale della sua inquietudine che i versi di Eliot procurano ai suoi sensi. Condividono perdite e malinconie, occupano marginalità del mondo poetico, con fatica, seppure diversamente e in tempi non coincidenti, accedono al grande pubblico, si rispecchiano nell’“ombra fluttuante” di una Parigi “mobile”, foriera di opportunità, di occasioni di cambiamento, coerente al loro spirito apolide e irrequieto, ma anche memoria di una dimensione di accogliente romanticismo che, nel moto perenne che la contraddistingue, ferma il tempo e genera sembianze fugaci e dense di un’assenza, una famiglia, una casa, un amore, riuscendo il tempo a plasmare la limitatezza dello spazio. È proprio quest’ultimo, la relazione tra le due dimensioni del nostro universo, che l’autore porge all’attenzione del lettore quale stimolo di una riflessione che insegue Pound ed Eliot senza dimenticare la confluenza della poetica nel vivere perché “la delusione della terra guasta è esperienza condivisa tra autore e lettore”.
Ora è proprio il vivere che impone la duplicità dello sguardo, rivolgersi al passato senza dimenticare il futuro, coscienza dell’esperito e spensierato porsi di fronte all’imprevedibile. Dunque, ambivalenza necessaria dell’atteggiarsi d’animo rivolto al tempo lungo il delicato svolgersi dell’equilibrio delle loro e delle nostre vite, seppure nella tendenza malinconica all’arresto nella perdita delle cose che il fluire dell’esistenza trascina con sé. Ma lo scrittore è lì, è indietro, è contro il tempo che deve andare, tornare alla fonte del dolore, recuperarla, ripercorrerla, fermarla, narrarla in bilico tra desiderio e realtà, mentre il cerchio si chiude solo con il passaggio di testimone al lettore che incarnando il futuro porta a compimento il processo ambivalente, restituisce il pezzo mancante, offre respiro alla chiusa del male riattraversato, lo eterna, che passi o meno da una soluzione di senso, ché non è affatto lì il punto, ammesso ne esista uno o uno soltanto.
Il tempo, però, trova, nello svolgersi dell’indagine di Tuena, un’altra accezione, collocandosi quale terreno su cui si gioca il rapporto dei due nella valutazione delle istanze che ciascuno individualmente reca con sé rispetto all’arte e alle sue lusinghe: l’uno in perenne movimento, soggetto di un percorso che è un raccordo tra mete, non unidirezionali aspirazioni di conquista, sete di vita, bottino desiderato e ottenuto e goduto, l’altro è l’emblema della provvisorietà, l’incerto che avanza titubante e che, rimanendo un passo indietro, si sottrae illusoriamente al rischio plateale del fallimento e all’ambizione che proietta nel futuro, garantendosi la certezza di “un’eterna contemporaneità”, tentando di sfuggire al tranello della bellezza e della sua fine. Così tornano nella poetica di Eliot la morte e l’amore, la paura della prima e quella per le donne, il desiderio e la decadenza dei corpi.
L’esergo lo dice bene, rievocando esso il banchetto di Trimalcione e la memoria della Sibilla Cumana che ai ragazzi che le chiedevano cosa volesse manifestava un desiderio di sparizione, traccia del mito secondo cui la sacerdotessa, dimenticandosi di chiedere ad Apollo la giovinezza, finì condannata a un’immortalità dolorosa e sterile.
In un’intervista del 1973 a Enzo Biagi pare che Vittorio Gassman dicesse della morte: “L’angostura, la goccia di amaro, il catalizzatore di tutto il resto. Poche chiacchiere: una gran fregatura. Un errore di calcolo del Padre Eterno”. Seppure in quel finale senza appello, il noto attore, che trascorse gli ultimi anni della sua vita affetto da una grave forma di depressione, ammesso si possa ridurre in questi spogli termini medici la fatica della memoria di un’antica vitalità nell’approssimarsi della fine, riconosceva essere proprio la morte il catalizzatore di tutto, ciò che ne restituisce in qualche modo il senso. Ora, se questo è vero per le vite di tutti, lo è forse di più per chi come Eliot ne ha fatto, di questo stare in bilico, l’origine del genio inseguito da Pound e l’anima di una verità che danza in parallelo con la celebrazione della vita. Anche di quella di Pound.
- Dante Alighieri, Divina Commedia, Purgatorio, Einaudi, Torino, 2021.
- Thomas Stearns Eliot, La terra desolata, Interno Poesia, Latiano, 2022.
- Petronio, Satyricon, Einaudi, Torino, 2015.