Felisberto Hernández:
la tastiera, la pagina, l’estro

Felisberto Hernández
Nessuno accendeva le lampade
Traduzione di Francesca Lazzarato

La Nuova Frontiera, Roma, 2024
pp. 168, € 15,00

Felisberto Hernández
Nessuno accendeva le lampade
Traduzione di Francesca Lazzarato

La Nuova Frontiera, Roma, 2024
pp. 168, € 15,00


Felisberto Hernández dedicò più tempo alla musica che alla letteratura. Il tempo lo ha trasformato in uno scrittore di culto, come tale noto soltanto a buongustai e collezionisti di letture autentiche, ma nessuno lo ricorda come musicista. Provavano per lui grande stima palati fini come Julio Cortázar, che si disse abbagliato dalla lettura di alcuni suoi racconti, o il connazionale Juan Carlos Onetti, che ritenendolo uno scrittore naïf, ne sottolineò l’incompatibilità con un pubblico di massa, oppure Carlos Fuentes che lo indicò come uno dei padri della modernità della letteratura latinoamericana, e Italo Calvino che lo presentò per primo al pubblico italiano nella Nota introduttiva che apriva il volume Nessuno accendeva le lampade pubblicato da Einaudi nel 1974. Una selezione di dodici racconti tradotti da Umberto Bonetti che sfoggiava in copertina un’opera, fuorviante a dire il vero, ma affascinante del surrealista belga Paul Delvaux, Le Train Bleu (1946).
I racconti della selezione einaudiana provenivano da tre raccolte: Nessuno accendeva le lampade (dieci racconti di cui sei vennero inclusi nel volume einaudiano), Le ortensie (dal quale provenivano altri cinque testi) e Terre della memoria presente con il racconto eponimo nel libro Einaudi. Quasi quarant’anni dopo, proditoriamente l’editore La Nuova Frontiera ha intrapreso a fine 2011 la pubblicazione integrale dei tre volumi in una nuova traduzione affidata a Francesca Lazzarato. Una preziosa operazione editoriale giunta a compimento nel 2016 con Terre della memoria e che vede oggi la ristampa di Nessuno accendeva le lampade.
Ma chi era Felisberto Hernández, nato a Montevideo il 20 ottobre 1902, che dedicò più tempo alla musica che alla letteratura, ma noto come scrittore di racconti? Un miracolo, è la risposta che sorge spontanea, un miracolo, uno di quegli eventi che separano l’impossibile dall’ordinario. Felisberto Hernández è uno scrittore impossibile, inclassificabile, “un irregolare” lo definì Calvino, un pianista che decise di diventare uno scrittore, un narratore di eventi quotidiani trasformati con poche abili mosse in situazioni e azioni a dir poco insolite, racconti che Tzvetan Todorov farebbe rientrare senza batter ciglio nel novero del fantastico strano, storie nelle quali può per esempio accadere che gli oggetti si antropomorfizzano. Clamoroso è il caso de Il balcone, che vede come stravagante protagonista una, donna che non esce mai da casa ed è intimamente legata a un balcone, che crollerà lasciandola nella disperazione. Un balcone che possiede un’anima, la condivide con lei:

“Allora lei aveva detto che gli oggetti acquistavano un’anima man mano che entravano in rapporto con le persone. Un tempo alcuni di essi erano diversi e avevano un’altra anima (chi adesso aveva le gambe, prima aveva i rami, i tasti erano stati zanne), ma al suo balcone era toccata per la prima volta un’anima quando lei aveva cominciato a viverci”.

Il narratore ci confida nelle prime battute che la vicenda si svolge in una cittadina dove si recava spesso per dare concerti, uno dei numerosi echi autobiografici risuonanti in queste storie. Difatti, lo si è detto, sulle prime Felisberto Hernández si guadagnava da vivere come pianista, andava in giro a dar concerti in Uruguay e nei confinanti Brasile e Argentina, lavorava anche per il cinema allora muto accompagnando la proiezione delle pellicole al piano. Iniziò a cimentarsi con la scrittura già ventenne, ma prese a far sul serio nei primi anni Quaranta e nel frattempo continuava a sposarsi e a essere sempre più in preda a intemperanza culinaria. Al termine della sua vicenda terrena, quando si spense nel gennaio 1964 per via di una leucemia acuta, era ancora più conosciuto come pianista che come scrittore. Lui stesso pronosticò che sarebbe occorso almeno mezzo secolo prima di diventare famoso come scrittore. Quanto alla sua voracità, assecondarla equivalse a un suicidio perché la leucemia acuta che lo uccise era figlia di eccessi gastronomici. Quando morì, narra un aneddoto, dovettero calarlo da una finestra perché il corpo abnorme non passava dalla porta e al momento di seppellirlo gli addetti del cimitero dovettero lasciarlo a terra e mettersi ad allargare la fossa. Abbondò anche con le mogli, se ne contarono sei alla fine. Difficile capire, invece, se abbia lasciato autentici eredi letterari o non sia rimasto un’impossibile maestro. L’architettura delle sue storie fa propendere per quest’ultima ipotesi.

Hernández le costruisce con una manciata di elementi, ma anche un musicista a e ben vedere, alla fin fine usa soltanto sette note… DI norma disegna un protagonista/narratore che nella maggior parte dei casi percepisce la realtà in modo differente, talora in virtù uno spiccato egocentrismo, al punto che tutto, oggetti, idee e perfino le storie stesse, prendono vita all’interno del proprio io. Il racconto eponimo e Le due storie, pongono il raccontare al centro della storia, per esempio. La scena che i suoi personaggi abitano e descrivano vede di sovente sfumare le barriere tra l’animato e l’inanimato, provocando anche non poca perplessità nel corso della lettura. Sembra di assistere alla messa in scena del lavoro operato da Edmund Husserl e Maurice Merleau-Ponty nella prima metà del secolo, quella sistematica messa in discussione del rapporto tra soggetto e realtà fenomenica, ma qui tutto è svagato, senza presunzione, fintamente ingenuo. Il tipico personaggio di Hernández presenta caratteristiche caratteriali reiterate a loro volta: è piuttosto tranquillo, sognante, triste, rassegnato, accomodante, solitario, pessimista, fantasioso, privo di origini certe, senza passato. Inoltre, è quasi sempre un musicista, perlopiù un pianista, insomma somiglia al suo autore in modo inverecondo. Per provarlo è sufficiente stralciare da alcuni racconti inclusi in Nessuno accendeva le lampade nei quali ci si imbatte ripetutamente in un pianista in azione (si fa per dire):

“Mi chiesero di suonare il piano. Quando tornai nel salone, la vedova dagli occhi affumicati era capo chino e ascoltava quello che le stava dicendo la sorella, con insistenza. Il pianoforte era piccolo, vecchio e scordato. Io non sapevo che fare…”.
(Nessuno accendeva le lampade)

“Cercai di ricordare i tasti da usare per i primi accordi; ma poi ebbi il presentimento che per questa strada mi sarei imbattuto in qualche accordo dimenticato. Allora mi decisi ad attaccare la prima nota. Era un tasto nero; ci misi sopra il dito e prima di abbassarlo ebbi il tempo di rendermi conto che tutto stava per cominciare, che ero pronto e non dovevo indugiare oltre”
(Il mio primo concerto)

“Per alcuni mesi, il mio lavoro è consistito nel suonare il piano in una sala da pranzo buia. Ad ascoltarmi c’era una sola persona. Non le interessava sentir suonare proprio me. E io, d’altra parte, suonavo molto di malavoglia. Ma nella pausa che separava le esecuzioni dei vari pezzi – pausa durante la quale nessuno dei due parlava – regnava un silenzio che faceva lavorare i miei pensieri in modo insolito”.
(La sala buia)

A bene vedere è proprio quest’ultimo “modo insolito” il tipico procedimento seguito da Hernández nello strutturare le sue storie, così inimitabilmente sghembe nel loro procedere, spostandosi lateralmente, come se stesse

“sempre inseguendo un’analogia che ha fatto capolino per un attimo nell’angolo piú fuori mano dei suoi circuiti cerebrali, una immagine che preannuncia la corrispondenza d’un’altra immagine poche pagine piú avanti, un accostamento incongruo che gli serve a cogliere una sensazione molto precisa; e per raggiungerli deve avventurarsi su passerelle gettate nel vuoto.”
(Calvino, in Hernández,1974).

Calvino si atteneva a quanto lo stesso Hernández confessava in Spiegazione falsa dei miei racconti: “I miei racconti non hanno strutture logiche. Nonostante la continua e rigorosa, anch’essa mi è sconosciuta” (Hernández, 2014). Un altro tratto ricorrente delle storie hernandiane è rappresentato dalla ritualità che talora struttura l’inusitata vicenda. Le disposizioni, le regole da osservare scrupolosamente. Per esempio in Tranne Julia, ci si deve attenere alle istruzioni del padrone di casa ideatore di uno strano gioco, tattile per eccellenza, che consiste nel dover individuare persone e cose attraversando un tunnel oscuro bendati e ricorrendo soltanto al contatto con le mani. Oppure nel succitato La sala da pranzo buia, tutto è regolamentato per l’esibizione al pianoforte del protagonista, anche l’intervallo tra un brano e un altro, “lo stesso intervallo del caffè giapponese”. Nel racconto contenuto in Le ortensie, ovvero La casa allagata, si osserva con altrettanto rigore un iter quotidiano e d’altronde l’unica salvezza dal caos che regge il mondo è l’artificio delle regole. Altrove si verificano fenomeni inspiegabili, per esempio ne La maschera, il protagonista acquista progressivamente la capacità di emettere un fascio di luce salvo poi perderla altrettanto misteriosamente. Il mondo di Hernández segue proprie regole. Potrebbe essere qualcosa di più di una congettura supporre che si tratti di meccanismi più affini alla musica che alla letteratura in senso stretto. Le associazioni, le svolte improvvise, le ripetizioni, tutto lascia pensare che sotteso al testo ci sia uno spartito che lascia ampio spazio anche all’improvvisazione. D’altronde Hernández la sapeva lunga anche se la sua carriera da pianista sembra dirci il contrario. C’è un passaggio nel racconto Il balcone che sembra anticipare le intuizioni di John Cage riguardo a suono e silenzio, una riflessione che la dice lunga non solo sulla spericolatezza dello scrittore Hernández, ma anche sul valore di quel pianista da caffè che qui si dimostra tutt’altro che uno sprovveduto:

“Al silenzio piaceva sentire la musica; ascoltava fino all’ultima risonanza e poi si soffermava a pensare a quello che aveva sentito. I suoi giudizi erano lenti. Ma una volta che il silenzio era entrato in confidenza, interveniva nella musica: passava tra i suoni come un gatto con la sua gran coda nera e li lasciava pieni di intenzioni.”

Qualche anno dopo Cage propose 4’33”, il brano in cui l’esecutore non fa assolutamente niente per quattro minuti e trentatrè secondi, in pratica non offrendo altro che del silenzio o del rumore involontario di fondo. In seguito, scrisse che “non esiste silenzio che non sia pregno di suono” (Cage, 2023). Che impossibile concerto avrebbero mai tenuto i due assieme?

Letture
  • John Cage, Un anno, a partire da lunedì. Dopo il silenzio, Shake Edizioni, Milano, 2023.
  • Italo Calvino, Nota introduttiva, in Nessuno accendeva le lampade, Einaudi, Torino, 1974.
  • Felisberto Hernández, Le ortensie, La Nuova Frontiera, Roma, 2014.
  • Felisberto Hernández, Terre della memoria, La Nuova Frontiera, Roma, 2016.