Prospettiva Dostoevskij,
dove tutto appare diverso

Fëdor Dostoevskij
Il coccodrillo
A cura di Serena Vitale

Adelphi, Milano, 2022
pp. 97, € 12,00

Fëdor Dostoevskij
Il coccodrillo
A cura di Serena Vitale

Adelphi, Milano, 2022
pp. 97, € 12,00


Immaginate la Prospettiva Nevskij, la “Onnipotente Prospettiva Nevskij!” (Gogol’, 1996), una giornata di metà gennaio più rigida del solito nell’anno 1865, il Passage, prima galleria commerciale russa, e una stranezza strabiliante: un tedesco, proprietario di un negozio di animali, esibisce tra gli altri un coccodrillo, gigante, immobile, forse perfino un po’ annoiato. Elena Ivanovna, suo marito, il funzionario di Stato Ivan Matveič, e un loro amico, Semën Semënyč, a caccia di un divertimento esotico, si risolvono a fare una promettente visita al negozio del tedesco, ma la sorpresa sarà superiore a ogni previsione. Si imbattono, difatti, in un’esperienza avveniristica e profetica, grazie a cui sperimentano l’irrisione del progresso. Mentre la donna viene respinta immediatamente dalla vista di quel sonnacchioso animale, il marito decide di sfidarne la calma a suo modo. Va per solleticarne il naso e ne viene inghiottito completamente. Si apre così quella “birichinata letteraria” de Il coccodrillo di Fëdor Dostoevskij, pubblicata nel 1865, e rieditata di recente da Adelphi, per la traduzione di Serena Vitale. Che Pietroburgo fosse città dalle matte stravaganze è sempre stata cosa nota. Vladimir Nabokov si disse certo che “un tiranno geniale aveva edificato la città principale della Russia sopra una palude e sulle ossa di schiavi che vi marcivano: qui stava la stranezza, il peccato originale” (Nabokov, 1972). Però la penna provocatoria di Dostoevskij si spinge ben oltre, fino a farne luogo di un prodigium dalle impreviste metamorfosi.

Fëdor Dostoevskij visto da Ilya Glazunov (1962).

Siamo negli anni Sessanta dell’Ottocento, nell’età dell’industrializzazione, del Positivismo, della religione della Ragione e dei conseguenti fermenti progressisti in campo scientifico ed economico, delle sfide alla metafisica in nome della fisica. L’uomo si professa pronto a percorrere un pezzo di storia con passi misurati, esatti, convinti, a vincere su tutto applicando il metodo scientifico, perfino in quella Russia ancora sottoposta al regime zarista di Alessandro II. Invece, c’è chi le cose, a viverle, le sente più mute che mai, soprattutto quando troppo cariche di futuro. Forse perché dal pensiero troppo lucido, forse perché dal pensiero troppo buio, Dostoevskij fu tra quanti vollero mostrare cosa di mostruoso potesse comportare un procedere svagato e illusorio. Ne nasce l’idea de Il coccodrillo, irrisione sotto traccia dei militanti dell’utopia di un miglioramento inarrestabile, anche a prezzo del paradosso, come in questa storia. Troviamo, difatti, Matveič nella fauci di un coccodrillo, tra le esclamazioni urlate di moglie, amico e commerciante. Sopravvivere tutto d’un pezzo a un monstrum è possibile? A quale costo? È la domanda rilevante che lo scrittore russo propone tra queste pagine alla società del suo tempo.

“«Amico mio», risuonò allora del tutto inattesa, lasciandoci esterrefatti, la voce di Ivan Matveič”. Una voce umana vibra nel ventre ferino. Si sopravvive a qualsiasi monstrum, a quanto pare, ma come prigionieri di una orrenda stregoneria, quella del “principio economico”. Ai congiunti che reclamano la liberazione della vittima, anche a danno del coccodrillo, il tedesco contrappone la proposta di non muovere dito. Il pubblico sarebbe stato ancor più richiamato da simile attrazione e perfino a prezzo maggiorato del biglietto di ingresso. “«Hanno ragione», osservò con voce tranquilla Ivan Matveič «il principio economico prima di tutto»”. Un tutto che è schiacciante non solo nella reclusione ma anche nel buio a cui si vede costretto il povero funzionario, parimenti vittima e artefice di un principio che avrebbe portato capitali stranieri nella città.
Non si fa attendere la replica intorno. Dove si cerca il progresso a ogni costo con protervia e pervicacia, vale perfino la pena rimanerci fino a versare “lacrime di coccodrillo” di una tardiva consapevolezza. Chi sogna l’evoluzione deve adattarsi allo spazio sottile tra il prima e il dopo.

“È proprio qui che voglio arrivare. Noi ci diamo da fare per attirare i capitali stranieri nella nostra patria, ed ecco, giudicate voi: non appena il capitale del coccodrillo si è raddoppiato grazie a Ivan Matveič, invece di proteggere il proprietario straniero vorremmo sbudellare quel suo capitale. È ragionevole? Penso che Ivan Matveič, come vero figlio della patria, dovrebbe addirittura essere felice e orgoglioso di aver raddoppiato, se non triplicato il valore del coccodrillo straniero. È necessario per attirare i capitali stranieri, capite? Se va bene al primo, vedrete che un secondo arriverà con un coccodrillo, e un terzo ne porterà due e tre in una volta sola, e intorno a loro si raggrupperanno i capitali. Ed ecco che nascerà la borghesia!”.

Con questi tratti Dostoevskij spennella le novità progressiste con le fattezze di una mostruosa cavità, completamente vuota, pronta a fagocitare chiunque si presti agli entusiasmi avventati. Ivan Matveič si lascia travolgere dalla megalomania di ambizioni dorate e prende a sognare in grande anche lui.

“Ma io dimostrerò che anche un fannullone – anzi, di più – che soltanto un fannullone può capovolgere le sorti dell’umanità. […] Ora inventerò tutto un sistema sociale – non puoi immaginare quanto sia facile! Basta ritirarsi da qualche parte, lontano, o almeno finire in un coccodrillo, chiudere gli occhi, ed ecco che ipso facto inventi tutto un paradiso per l’umanità”.

Come non incontrare in queste parole la traccia della teoria degli uomini speciali Raskol’nikov in Delitto e castigo?

“[…] gli uomini, per legge di natura, si dividono, in generale, in due categorie: quella inferiore (gli uomini comuni), cioè, per così dire, il materiale, che serve unicamente per la procreazione di altri esseri simili a sé, e gli uomini veri e propri, aventi cioè il dono o la capacità di dire nel loro ambiente una parola nuova. […] La prima categoria è sempre signora del presente, la seconda categoria è signora dell’avvenire. I primi conservano il mondo e lo aumentano numericamente; i secondi muovono il mondo e lo guidano verso la meta”
(Dostoevskij, 1983).

Per il benessere dei più, è necessario il sacrificio di pochi a opera degli “oltreuomini”. Nella fattispecie, in Delitto e castigo, il protagonista è un uomo vero e proprio nell’atto stesso di uccidere un’usuraia, pronta a vessare lui e non solo lui. Eppure, quella felicità dei molti ad opera di pochi eletti porta a una e una sola meta: il delirio di Raskol’nikov, quella pena che l’omicida si autoinfligge fino alla distruzione. Cui prodest scelus? Nemmeno a chi lo ha commesso, a dirla tutta. La coscienza imprigiona l’assassino, la parola nuova suona amara, l’avvenire slitta su di un piano di lontananza. Gli uomini speciali sono fagocitati dal vuoto del loro stesso tormento. Non a caso, l’al di là del bene e del male, per Dostoevskij non è categoria proponibile.

Ne Il coccodrillo Ivan Matveič appare come l’immagine satirica di questo mondo di prescelti. Inimitabile, non perché irraggiungibile ma perché deprecabile. Segno di una certezza nel progresso che incespica all’accostarsi al banco di prova. In fondo, l’umorismo tagliente dello scrittore russo confuta proprio le teorie deterministiche del tempo, quella sequela di conseguenze a data causa, nelle pagine di Dostoevskij ribaltate sempre e in ogni dove. Compare l’imprevisto a sparigliare convinzioni e prove, tra l’altro in una Russia che imita goffamente modelli occidentali prossimi, ma ancora troppo avvinta nei lacci di una società chiusa tra zar e ranghi, carente di un reale progressione negli spazi necessari. Ecco perché, quando professa che questo suo breve racconto sia teso alla sola risata, alla maniera de Il naso di Gogol’, risulta difficile stargli dietro. In primo luogo, perché nelle stesse pagine di Gogol’ un naso che si emancipa dal proprietario per aggirarsi nelle vie di Pietroburgo sotto forme inaspettate, riesce come una macchietta e una bordata nei confronti dell’egemonia della Ragione sette-ottocentesca, incapace però di spiegare qualsiasi fenomeno illogico pur esistente.
In secondo luogo, perché nel racconto di Dostoevskij prevale il sorriso amaro verso un uomo votato alla totale rinuncia di sé per via del profitto collettivo. D’altronde, se il serio e il comico si fondono inequivocabilmente, Il coccodrillo presto si ribalta nel suo contrario, in quell’altro capolavoro assoluto di Dostoevskij pubblicato appena un anno prima, Memorie dal sottosuolo. Il protagonista, nel suo intenso monologo interiore della prima parte del testo, in quella rabbiosa disamina della società del tempo a partire dalle nevrosi del suo animo, si sbilancia a tal punto contro l’ingenua fede nel progresso positivistico da arrivare a pensarla in modo per così dire capriccioso contro ogni principio illuminato:

“[…] il due più due fa quattro, signori miei, non è la vita, bensì il principio della morte. […] Ammettiamo che l’uomo altro non faccia se non inseguire questo due più due fa quattro, che solchi gli oceani e sacrifichi perfino la vita in questa ricerca. Eppure di trovarlo, trovarlo sul serio, in certo modo ha paura. Il fatto è che egli sente che quando avrà trovato non ci sarà più nulla da cercare. […] Io posso pure ammettere che due più due fa quattro è una cosa stupenda, ma se vogliamo dare a ciascuno il suo, ebbene, anche due più due fa cinque qualche volta può essere una cosetta graziosissima”
(Dostoevskij, 2004).

Considerazione seria di quanto ne Il coccodrillo diventava irrisione: l’uomo moderno non può ridursi alla sua ragione e confidare grazie a essa nella conquista di ogni possibile di verità. L’uomo è libertà, è creatività, è nevrosi, è sottosuolo, è indeterminato, illimitato, incomprimibile nella prigionia del due più due fa quattro. Perché quest’ultima operazione, formalmente corretta, non tiene conto della complessità umana. Rimanere nel ventre del coccodrillo raffigura il sacrificio della propria straripante autodeterminazione in nome di un angusto calcolo, del principio economico, nella fattispecie. La confessione dal sottosuolo, viceversa, si propone come critica al razionalismo e al determinismo, per i quali siamo “tasti di pianoforte” suonati secondo una scansione inderogabile. Nei due scritti in questione, pertanto, Dostoevskij incoraggia una lotta di riaffermazione della persona nella sua totalità, a partire dagli aspetti più indecifrabili ma più fortemente umani.

“Ecco voi, per esempio, vorreste insegnare all’uomo a correggere le sue vecchie abitudini e a modificare la propria libertà in osservanza alle leggi della scienza e del buon senso. Ma come fate a sapere non soltanto che è possibile, ma anche che è necessario modificare in tal modo l’uomo? Come siete giunti alla conclusione che è assolutamente indispensabile correggere il volere umano? Insomma come potete sapere che una simile correzione apporterà effettivamente un vantaggio all’uomo?”
(ibidem).

La domanda brucia lì, tra quelle pagine in cui si rivendica la nostra diversità di uomini, il nostro vantaggio nel diritto all’immaginazione svincolata dalle strettoie della logica. E quella stessa domanda ci respingerà pure nel sottosuolo, fatto di oscurità e paura, ma quantomeno ci affrancherà dalla riduzione a un’addizione aritmetica. “Io sono solo, e loro sono tutti” (ibidem), è riflessione amaramente desolante per chi non si identifica in quell’età piena di un falso sé, in quel “secol superbo e sciocco” (Leopardi, 2016), come ne La ginestra, o fiore del deserto Leopardi definì l’Ottocento, per il suo miope ottimismo. Eppure, alla solitudine di chi resiste alle mille promesse della Ragione, Dostoevskij giustappone qualcosa che sa molto di più di una consolazione: “[…] cercare salvezza in tutto ciò ch’è bello e sublime, e cioè nelle fantasticherie” (ibidem).
In fondo, basta partire proprio dalla Prospettiva Nevskij, dove “tutto è inganno, tutto è sogno, tutto è differente da quel che appare” (Gogol’, 1996).

Letture
  • Fëdor Dostoevskij, Ricordi dal sottosuolo, Feltrinelli, Milano, 2004.
  • Fëdor Dostoevskij, Delitto e castigo, Bur, Milano, 1983.
  • Nikolaj Gogol’, Racconti di Pietroburgo, Mondadori, Milano, 1996.
  • Giacomo Leopardi, Tutte le poesie e tutte le prose, Newton Compton Editori, Roma, 2016.
  • Vladimir Nabokov, Nicolaj Gogol’, Mondadori, Milano, 1972.