Rimini è una città di passaggio, almeno nella testa di chi pensa alle vacanze estive, a qualche raduno, o al vicino Rubicone e al suo storico attraversamento, o perché Ariminum (questo il nome latino del fiume che ispirò quello dato alla colonia) è stata crocevia di almeno tre arterie strategiche della Roma antica, ossia la via Flaminia per raggiungere il cuore dell’impero, la via Aemilia per spostarsi a occidente, la via Popilia da percorrere per raggiungere la costa adriatica. Da Rimini è passato anche Federico Fellini, perché quella romagnola è la sua città natale, dove è più volte ritornato nei suoi lavori, come ne I vitelloni. Si tratta dell’opera che vinse (ex aequo) il Leone d’argento nell’edizione presieduta da Eugenio Montale nel 1953 (lo stesso anno in cui uscì nelle sale), e per la quale Fellini ottenne la migliore regia ai Nastri d’argento l’anno successivo. I vitelloni fu anche la sua prima pellicola che varcò i confini nazionali: fu distribuito nel mondo di lingua spagnola con il titolo di Los inutiles, negli Stati Uniti con quello di The Young and the Passionate, in Inghilterra Spivs e in Francia Les vitelloni (cfr. Fava, Viganò, 1995).
I vitelloni fu il primo lungometraggio del regista romagnolo che varcò i confini nazionali. Questo è il trailer statunitense.
Rimini è una città di passaggio, s’è detto, a meno di non appartenere a quella gioventù che, nel periodo del decollo economico italiano, non partecipava alla produzione, rifiutando il lavoro e restando inchiodata al territorio (cfr. Brunetta, 2001). Una presenza, in verità, distribuita un po’ ovunque, con i dovuti distinguo, come testimonia un altro bel film, I basilischi di Lina Wertmüller: nel suo lavoro d’esordio, l’ex aiuto regista proprio di Fellini racconterà, dieci anni più tardi, le storie di sfaccendati che si muovono nel perimetro di un paesino del mezzogiorno, forse in Lucania, forse in Puglia.
I vitelloni felliniani sono ragazzi della sana provincia, con la guerra alle spalle e che trovano nelle sequenze iniziali di Roma o nell’intero Amarcord (entrambi film degli anni Settanta) una sorta di prequel, in cui sono ricordati, rispettivamente, gli anni dell’infanzia e dell’adolescenza, sebbene richiamino una Rimini di un Paese diverso, quello che ha preceduto il secondo conflitto mondiale, un’Italia sommersa da una retorica fanfarona e marziale, nella quale la ricerca delle impronte della Roma antica è funzionale, più che alla valorizzazione delle origini della città, all’esaltazione di una presunta continuità tra i miti di Romolo e di Cesare con il regime imposto nella capitale e nel resto della nazione.
I vitelloni è, tuttavia, anche un titolo che, con Il bidone, è riuscito a imporsi nel parlare comune, questo perché Fellini è stato un fenomeno, attributo che non solo esalta la particolarità dell’uomo di cinema e del suo linguaggio, ma che esprime anche la capacità di penetrazione del suo immaginario nelle indagini sul costume, della psicologia e della sociologia (cfr. Aristarco, 1954).
Nato dalle conversazioni tra il regista, Ennio Flaiano e Tullio Pinelli, “e ognuno, da bravo ex vitellone, ha un sacco di cose da raccontare[…] storie da ridere anche se alla fine delle rievocazioni succede una grande malinconia” (Verdone, 1995), ne viene fuori il ritratto di un’anima generazionale che, al di là di quell’inerzia comune, ha più facce e voci: sono quelle di Alberto (Alberto Sordi, vincitore del Nastro d’argento per il miglior attore non protagonista), personaggio incline al dileggio del prossimo, ovviamente più indifeso di lui, ma, allo stesso tempo, incapace a incassare le avversità che minano la tranquillità del focolare domestico, ossia madre e sorella, che costituiscono anche la sua fonte di sostentamento; quelle di Fausto (Franco Fabrizi, doppiato da Nino Manfredi), mascalzone e donnaiolo, lesto ai tentativi di fuga quando le cose si mettono irrimediabilmente male, tentativi scellerati quanto gli eventi da cui sono generati; di Leopoldo (Leopoldo Trieste che fu davvero drammaturgo), logorato dal sacro fuoco della scrittura teatrale, ma punito dalla sua stessa abitudine a prendersi troppo sul serio; di Riccardo (Riccardo, fratello di Federico), anche lui amante dell’arte, nel suo caso il canto, ma a differenza dell’amico, animato da quella leggerezza disimpegnata perdonata a chi pare interessato solo alla propria passione; di Moraldo (Franco Interlenghi, raro caso di attore bambino del neorealismo capace di continuare da adulto la professione con un discreto successo), quello disposto ad aiutare i compagni ma incapace a sottrarli all’errore e che rappresenta lo sguardo riflessivo e malinconico dello stesso regista.
I vitelloni è, dunque, un film corale, come del resto le precedenti esperienze di Fellini dietro la macchina da presa, quella in coabitazione con Alberto Lattuada (Luci del varietà) e quella dell’esordio in solitaria (Lo sceicco bianco), ispirati ai mondi affascinanti e illusori, rispettivamente, dei numeri d’attrazione delle riviste e delle pagine dei fotoromanzi. Se, tuttavia, la smaliziata Liliana (Carla Del Poggio) in Luci del varietà e l’ingenua Wanda (Brunella Bovo) in Lo sceicco bianco si allontanano dai loro modesti luoghi d’origine per assaporare quel sogno coltivato da tempo, i giovani di Rimini rimangono saldamente legati alle loro case, alle loro strade, alle loro abitudini. Sempre lì, a cadere ripetutamente nei loro vizi e a riproporre i conseguenti, quanto inutili, pentimenti. Tutti, eccetto uno.
- Guido Aristarco, La strada, in Cinema Nuovo, a. III, n. 46, 10 novembre 1954.
- Gian Piero Brunetta, Storia del cinema italiano. Dal Neorealismo al miracolo economico 1945-1959, Vol. 3, Editori Riuniti, Roma, 2001.
- Claudio G. Fava, Aldo Viganò, I film di Federico Fellini, Gremese, Roma, 1995.
- Mario Verdone, Federico Fellini, Il Castoro, Milano, 1995.
- Federico Fellini, Amarcord, CG Entertainment, 2016 (home video).
- Federico Fellini, Roma, Mustang Entertainment, 2016 (home video).
- Lina Wertmüller, I basilischi, Lionello Santi, 1963.