Il lupo della steppa (Der Steppenwolf, 1927) è forse l’opera in cui l’esistenzialismo di Hermann Hesse emerge in maniera più convinta, e lo fa attraverso la riflessione circa una sua questione fondamentale: il suicidio. Nelle atmosfere da realismo magico che presto pervadono la narrazione – il ritrovamento casuale di un pamphlet che viviseziona l’animo del protagonista; l’apparizione di simboli e segni fra le strade della città; l’introduzione di personaggi archetipici – Hesse riflette sul valore di una vita che si percepisce straniera al proprio mondo, e sul senso di questa estraneità. Le idee dello scrittore tedesco risultano qui delinearsi in maniera differente rispetto all’Albert Camus de Il mito di Sisifo. Non c’è alcun eroismo filosofico nel quesito fondamentale del pensiero, “giudicare se la vita valga o non valga la pena di essere vissuta”. Il suicidio è piuttosto uno stratagemma arguto: la nostra possibilità di avere paura e di soffrire senza che ciò sia insostenibile. Ricordandosi che può decidere di porre fine alla sua dolorosa guerra interiore, il protagonista Harry Haller riconosce la sua libertà. Egli non è prigioniero del mondo – può lasciarlo quando e perché vuole.
In un breve passaggio della sua ultima opera, Federico Campagna si sofferma sulla medesima tematica. Cultura profetica è il seguito spirituale di Magia e tecnica, ed è a partire dalle conclusioni di quest’ultimo che Campagna sviluppa un discorso poliedrico sul dispositivo culturale, sulla nozione di mondo (e di struttura), e sulla soggettività. Proprio la questione della morte, del sapere come morire al mondo, occupa un punto cruciale nella trattazione complessa ed erudita di Cultura profetica.
Il suicidio rivela: esso è il tramite attraverso cui, ci dice Campagna, la necessità del mondo si manifesta come contingenza di un mondo, una metafisica, una canzone il cui ritmo descrive un tempo specifico e non universale. Il desiderio di porre fine alla vita è parimenti l’intuizione di qualcos’altro, “sia pure il non-essere”, in cui il soggetto può essere reintegrato. Il suicidio è, quindi, un atto di sottrazione semantica. Nell’uccidere sé stesso, il soggetto ricerca l’annullamento delle costrizioni di senso che lo imprigionano: la morte fisica, nei limiti del discorso di Campagna, viene fraintesa con la morte sociale.
Le sculture di Manfred Kielnhofer, Guardians of the time.
Le domande che ispirano Cultura profetica, accanto alla definizione di una ambiziosa teoria antropologica della cultura, sono un tentativo di delineare un framework attraverso cui forgiare gli strumenti utili con i quali un soggetto può aprirsi alla produzione di senso. Se Magia e tecnica aveva un carattere terapeutico per l’individuo – un’immersione nell’interiorità e nei paradossi del rapporto struttura-soggetto contiguo alle vicende de Il lupo della steppa –, Cultura profetica si rivolge alla politeia, la comunità, in maniera pedagogica. La profezia è sì terapeutica, ma soprattutto insurrezionale, e lo è come strumento di un programma emancipativo del soggetto. L’opera conclude il suo percorso argomentativo ritornando in grembo al testo che lo precede, affermando che “un approccio profetico alla cultura offre la possibilità a un soggetto, attraverso la propria attività di mondiazione, di rifuggire dalla prigionia in un sistema di senso prestabilito”.
L’opera è suddivisa in quattro sezioni; tre sono argomentative e hanno l’obiettivo di costruire l’edificio teorico su cui l’argomentazione poggia, mentre l’ultima, Cosmografia, è il tentativo di mettere in pratica la narrazione profetica. Chiude il testo una pregevole postfazione di Franco Berardi.
Le sezioni dell’opera
La prima sezione, Tempo, fa le veci di un’introduzione il cui scopo è definire gli elementi teorici essenziali. Campagna apre con un’analisi della nozione di tempo al fine di modellare una teoria dei mondi e della cultura; discute, attraverso efficaci esempi tratti dall’antichità Greca, Romana, Egizia, di cosa accada allo scomparire di quella che l’autore definisce “canzone del mondo” e di come si produca, o fallisca a prodursi, una nuova cosmologia. Questo è il luogo in cui viene formulata la domanda che anima l’intenzione dell’opera: una volta che questo mondo – che Campagna chiama Modernità occidentalizzata – si sgretolerà, cosa rimarrà fra le mani di coloro che verranno dopo? E cosa è giusto che rimanga? Tale preoccupazione è motivata dal fatto che dopo ogni ‘apocalisse’ è attesa un’Età di Mezzo, un periodo di riassestamento che un soggetto può o non può essere in grado di sopportare. È in Altri mondi, la seconda sezione, che Campagna pone in evidenza qual è effettivamente la posta in gioco dell’opera. È bene notare, infatti, che la posizione profondamente critica nei confronti della Modernità occidentalizzata che Campagna assume sia in quest’opera che nella precedente, manifesti un doppio intento alla base delle domande di Cultura profetica. La preoccupazione per i figli dell’apocalisse è un nostro dovere morale: offrire ai posteri gli strumenti per costruire attraverso aperture di senso più ampie possibili significa, per noi, fare i conti con la nostra cosmologia. È necessario imparare a morire bene, a essere dei nobili morituri. A partire dalla premessa per cui il nostro tempo è materialmente fragile – la carta dei libri, i server che sorreggono lo spazio digitale, i palazzi di cemento e sabbia – Campagna inizia a delineare il fulcro maggiormente teoretico della sua opera, aprendosi al dialogo con René Guénon, per esempio, e con la nozione di Tradizione. Proprio quest’ultima, intesa come l’arte tramandata di costruire sistemi di senso, fa da sfondo all’unica prescrizione che l’autore decide di mettere in campo, rivolta al noi della Modernità occidentalizzata: è necessario mentire. Dobbiamo tessere belle falsità perché i posteri si trovino in mano materiale in cui avere fede, invece che macerie, paradossi, atrocità. Come mezzo per far ciò, Campagna offre un tetrapharmakon, una medicina per il soggetto della fine dei tempi, nella forma di quattro “figure cosmologiche” che interpretano in maniere differenti la questione del tempo, del senso, e del passaggio. Esse sono il metafisico, lo sciamano, il mistico, e il profeta.
Protagonista della terza sezione, il profeta è la figura cardine di Cultura profetica, possibile latore della redenzione di cui il passaggio fra cosmologie ha, secondo Campagna, bisogno. Tale figura viene comparata all’adolescenza, nel suo essere momento di passaggio fra il darsi di un mondo già costituito e la definizione di un sé autonomo. Facendosi strada attraverso l’arte, la teologia e l’angelologia, le riflessioni su memoria e informazione, Campagna arriva a descrivere il ruolo della narrazione profetica come il compito di educare al processo di far-mondo (worlding). Il profeta è colui che sa riconoscere nell’apparente inequivocabilità del fatto un’apertura alla contaminazione di diverse influenze, piuttosto che una chiusura oggettiva. Tale figura è da intendersi come posizione che trasforma l’esperienza a livello fenomenologico e che “prende forma nella Caduta”, cogliendo ciò che sorpassa la graniticità delle strutture e si pone come ponte fra la fine di un mondo, di un’epoca, e l’inizio di qualcos’altro.
L’ultima sezione, Cosmografia, ripercorre quanto discusso nella trattazione mostrando il percorso profetico in atto. La struttura e il contenuto del testo si fanno simbolici ed enigmatici, nel chiaro intento di recuperare un registro linguistico oracolare ed evocativo. Cosmografie si occupa di gestire una complicata questione che infesta l’opera e le sue figure: come rappresentare qualcosa che si fonda sulla frizione tra significato ed ‘esistenza pura’? Campagna non può, infatti, rischiare di ridurre la sua fatica a un manuale per profeti.
Cultura profetica è un testo ambizioso, di non sempre facile lettura, e che richiede una certa dimestichezza con la mole di riferimenti che ne compongono il mosaico. Il lavoro di Campagna è un crocevia di prospettive; dal perennialismo al tradizionalismo, dalla filosofia all’etnologia e all’antropologia, fino a testi sacri di diversa matrice. L’autore dimostra nuovamente di possedere, dopo Magia e Tecnica, l’erudizione necessaria a definire le ambiziose questioni poste in campo.
L’orizzonte concettuale
Alcune nozioni centrali allo sviluppo di Cultura profetica si collegano a un orizzonte concettuale appartenente a quella che viene definita la svolta ontologica dell’antropologia. Le risposte che l’opera si prefigge di offrire passano attraverso la definizione di concetti cruciali come mondo e processo di mondiazione. L’influenza di autori come Tim Ingold, Eduardo Viveiros de Castro e Philippe Descola emerge chiaramente, accanto al lavoro di Ernesto de Martino – di cui Campagna è grande estimatore (cfr. Bellini; Campagna, 2021) – e di riflessioni filosofiche da Aristotele fino a Gilles Deleuze. In particolare, è la nozione di worlding, far-mondo o mondiazione, a risultare fondamentale per lo scheletro teorico del testo. Tale concetto, nel contesto dei nuovi materialismi e dell’antropologia (cfr. Descola, 2014), intende un processo attivo di produzione di un orizzonte ontologico – un mondo, appunto – e del suo sistema di senso. Nel far-mondo, ogni elemento in un dato orizzonte entra in contatto, incorpora, modifica e a sua volta viene modificato da ogni altro; ambiente e soggetti ‘crescono’ assieme (cfr. Ingold, 1989). Nel pensiero di Descola, worlding è il modo attraverso cui descrivere il processo di stabilizzazione alla base di ogni fenomeno culturale. Ciò muove dalla radicale critica della cosalità (cfr. Descola, 2014), per cui un oggetto deve essere inteso come “un vasto insieme di qualità e relazioni che possono essere attualizzate o meno dagli esseri umani” (Descola, 2005), e non come qualcosa di dato e reale interpretato secondo diverse prospettive.
Il processo di mondiazione è inferenziale ed esperienziale, fissa i fenomeni all’interno di schemi, seziona il Reale e stabilizza il disordine in quella che è una cosmologia – un discorso sull’ordine di quel mondo a cui un soggetto particolare partecipa. Anche la nozione di tetrapharmakon, sempre nell’ambito etno-antropologico, la si può intendere influenzata da quanto sviluppato da Ernesto De Martino in Morte e pianto rituale. Se l’antropologo individua nelle pratiche rituali di lutto un pharmakon necessario a evitare la frammentazione dell’io di colui che soffre la perdita, e a far senso della e nella morte, Campagna espande la questione della scomparsa dell’individuo alla scomparsa di sistema di senso.
In questo quadro di riferimento, l’opera di Campagna si collega anche al lavoro dello storico delle idee John Tresch e alla sua interpretazione della nozione di cosmogramma. Cosmogramma è un concetto neutro, che si riferisce a una classe di produzioni umane che opera rappresentando l’universo intero (cfr. Tresch, 2014); esempi possono essere templi, libri, una canzone, un mito (cfr. Koot, Grootveld, 2015). La forma in cui Campagna descrive non solo i mondi, ma ciò che li supera, li raccoglie, e li attraversa, anche se mai soffermandosi concretamente sul valore e il significato delle singole produzioni culturali, fa certamente da eco a una visione della cultura contigua a quella di Tresch, per cui è attraverso la materializzazione delle idee cosmologiche che mondi diversi e distanti possono trovare un canale di comunicazione. Campagna comprende, infatti, il problema dell’incommensurabilità dei mondi/paradigmi alla base di questi quadri teorici: nel formulare la sua domanda su ‘chi saranno coloro che verranno dopo la fine del mondo?’ riconosce l’inconsistenza di qualsiasi tentativo di risposta.
In linea con la lettura antropologica che Tresch dà dei paradigmi kuhniani (cfr. Tresch, 2001), Campagna espande strategicamente la questione dell’opacità ai fenomeni culturali per poi evidenziare come sussistano dimensioni pre-linguistiche, analizzate più a fondo in Magia e tecnica, attraverso cui è possibile costituire ponti fra soggetti afferenti a diversi mondi. La riconcettualizzazione della dimensione e del ruolo del profeta passa certamente da un sincretismo filosofico che si collega tanto all’Oriente (i discorsi relativi a relazionalità/non-relazionalità, esistenza pura come presenza a sé e al Reale, fanno da eco al neoconfucianesimo di Mou Zongsan, ad alcune istanze della Scuola di Kyoto, al Daoismo classico, e al misticismo Sufi), quanto a diverse forme di misticismo Occidentale (da Eckhart a Pavel Florensky, passando per Guénon, per il neoplatonismo e per lo gnosticismo). Il fatto che queste influenze non siano maneggiate attraverso un’analisi storico-critica può essere un pregio, lasciando l’argomentazione libera da vincoli e debiti, ma può anche rischiare di indebolire gli argomenti, soprattutto in alcuni passaggi più complessi e pericolosi in cui la questione della narrazione come strumento di (auto)legittimazione non viene affrontata con l’attenzione necessaria. Nel suo Cultura di destra, Furio Jesi afferma che “non si può dedicare un certo numero di anni allo studio dei miti o dei materiali mitologici senza imbattersi più volte nella cultura di destra e provare la necessità di fare i conti con essa” (Jesi, 1993). Tale considerazione vale certamente anche per il lavoro di Campagna. Intellettuale formato da un ambiente di sinistra, in Cultura profetica non soltanto ‘si imbatte’, ma dialoga febbrilmente con un orizzonte storicamente reclamato dalla destra intellettuale. Tradizionalismo e perennialismo, così come la mistica e la mitologia, hanno fatto da fondamento a una certa impostazione che Campagna riesce quantomeno a rimettere in discussione, tentando di traghettarla verso le sue posizioni.
A chi è diretto Cultura profetica? Questa domanda è forse il fardello più pesante che il testo si porta sulle spalle. Al fine di valutare la portata filosofica, politica, pedagogica, scientifica di un’opera, bisogna chiedere: a chi parli? Che può voler intendere: chi ti ascolta? E ancora, forse cinicamente – ma per un testo di tale ambizione non si è fuori posto –: a chi (oppure: a cosa) servi? Il problema della collocazione di un’opera non è mai solamente un intellettualismo. Le domande di un testo che si pone l’obiettivo di porre domande e offrire risposte fanno riferimento a ritroso al fatto che il testo stesso sia una domanda che precede quelle di cui, e attorno a cui, argomenta. Il più appropriato quesito da porre è allora: a cosa rispondi?
L’ottava serie di Logica del senso è uno dei tanti luoghi in cui Gilles Deleuze osserva e manipola la nozione caleidoscopica di struttura. È Claude Lévi-Strauss il punto di partenza del breve e intenso passaggio in cui Deleuze tenta di determinare “certe condizioni minime di una struttura in generale” (Deleuze, 2017). La struttura, nozione in cui anche il mondo di Campagna ricade, è sempre composta da minimo due serie, significante e significato, che stanno l’una con l’altra in una relazione di eterno squilibrio. Nella struttura, la serie significante eccede sempre quella del significato – una società si dà necessariamente “tutte le regole a un tempo”, mentre “la sua conquista della natura, senza la quale non sarebbe più una società, avviene progressivamente…di oggetto in oggetto” (ibidem). La nozione di mondo che fa da terreno fertile all’edificio di Cultura profetica non può che muoversi da questo paradosso – il paradosso di Robinson, lo chiama Deleuze – per operare nel suo orizzonte argomentativo. La frizione che si dà necessariamente fra la struttura-mondo come intero significante dato e l’esperienza diretta nel Reale – la frizione come «emissione di singolarità», oggetto a un tempo eccessivo e a un tempo difettivo – è il campo in cui è possibile l’insurrezione del profetico. Nonché tutta la theoría (nel significato greco più puro di consultazione oracolare, e poi contemplazione) di cui il profetico è composto e da cui scaturisce. Poco dopo aver enunciato il paradosso di Robinson, Deleuze scrive:
“il rivoluzionario vive nello scarto che separa il progresso tecnico e la totalità sociale, inscrivendovi il suo sogno di rivoluzione permanente. Ora questo sogno è per sé stesso azione, realtà, minaccia effettiva per ogni ordine stabilito, e rende possibile ciò di cui egli sogna.”
(Deleuze, 2017)
Nell’opera di Campagna, lo scarto che costituisce la struttura rappresenta lo spazio in cui la comunicazione profetica può concretizzarsi. Definire il contenuto del messaggio nella bottiglia – e di uno così cruciale, che assurge a essere la chiave per la costruzione di senso dopo l’apocalisse – in modo tale che esso non sia informazione, insieme di dati (parziali) relativi al mondo, ma neanche, riprendendo Jesi, “la deliberata evocazione di miti compiuta dai tecnicizzatori della mitologia” (Jesi, 2018) al fine di produrre una legittimazione dei discorsi di potere e d’identità. Campagna riconosce un fatto fondamentale del mythmaking: come afferma Carl Gustav Jung, un soggetto non può creare i propri valori da solo; lo stesso vale per i propri miti, e la propria cosmologia. Il mito è prodotto in uno spazio liminale, è un discorso necessariamente collettivo che emerge dall’intreccio, dal setaccio, e dalla levigazione delle diverse prospettive all’interno di una collettività di soggetti, e che proviene da un’esteriorità – non per forza trascendente – con cui ci si relazione tramite credenza. Campagna sottolinea – e deve farlo – come il profeta non sia una figura autoriale, ma ispirata da ciò che in un orizzonte semantico costituito eccede quest’ultimo. Il mito è una costruzione condivisa di credenza (sul mondo, sul cosmo) in cui la soggettività è sempre decentrata ed esterna: la narrazione si costituisce attraverso di noi.
Il ruolo del profeta non è quindi già di intercettare o recuperare – il che presupporrebbe una postura attiva – ma di aprirsi all’influenza dei discorsi che gli fluiscono attorno. La metafora con cui Berardi conclude la postfazione restituisce così un’immagine chiara ed evocativa: il profeta è come i polmoni che hanno imparato la non scontata arte della respirazione. Ne Il lupo della steppa, Harry Haller segue “la divina traccia d’oro” (Hesse, 2016); Hermine, la figura che gli fa da guida, saprà svelargli la natura di quella traccia come intuizione del “regno al di là del tempo e della parvenza» in cui «non esistono posteri, soltanto contemporanei”. Sebbene l’esser-contemporanei sia interpretato da Campagna come la cifra dell’abitare un tempo esaurito, incapace di procedere, la stessa considerazione della divina traccia anima la nascita di Cultura profetica. La contemporaneità di cui parla Hesse è quell’intuizione d’esser parte di un sostrato “eternamente umano” (Jesi, 2018), che Campagna ricerca già in Magia e tecnica. Con la sua ultima opera, egli muove invece già da un arrivo – il sostrato – per (insegnare a) costruire. Il profeta è colui che, essendo entrato in contatto con la dimensione magica (cfr. Campagna, 2021), può ora condividere gli strumenti con coloro che vorranno farne uso. Il profetico risiede dove è sempre risieduto – nella casella vuota, nello squilibrio continuo, nell’eccesso paradossale e costitutivo delle strutture; l’opera di Campagna tenta solo di rigettarvi luce sopra. Cosa che oggi, fra proclamata fine e manifesto rinvigorimento della storia, è quantomai necessaria.
- Andrea Bellini, Prophetic Culture: vivere la fine del mondo. Una conversazione con Federico Campagna, Flash Art, 23 giugno 2021.
- Federico Campagna, Magia e tecnica, Tlon, Roma, 2021.
- Philippe Descola, Modes of Being and Forms of Predication, in HAU: Journal of Ethnographic Theory, vol. 4, n. 1, estate 2014.
- Philippe Descola, Oltre natura e cultura, a cura di Nadia Breda, Raffaello Cortina, Milano, 2021.
- Gilles Deleuze, Logica del senso, Feltrinelli, Milano, 2017.
- Herman Hesse, Il lupo della steppa, Mondadori, Milano, 2016.
- Tim Ingold, Ecologia della cultura, a cura di Cristina Grasseni, Francesco Ronzon, Meltemi, Roma, 2016.
- Furio Jesi, Cultura di destra, Garzanti, Milano, 1993.
- Furio Jesi, Germania segreta, Nottetempo, Roma, 2018.
- Liesbeth Koot, Menno Grootveld, Interview with John Tresch on Cosmograms, Sonic Arts Research Series 20, 2015.
- John Tresch, On Going Native: Thomas Kuhn and Anthropological Method, in Philosophy of the Social Sciences, vol. 31 n. 3, estate 2001.