Non è difficile immaginare che il processo di crescita individuale abbia qualche affinità con la dimensione conflittuale del mondo adulto, quella che confluisce anche sul piano delle relazioni internazionali nella forma bellica, nell’istante in cui e l’uno e l’altra impongono la discesa in un abisso, l’ingresso in quel pozzo profondo in cui risiedono umori e istinti che sono il lato oscuro della facciata che offriamo o delle motivazioni travestite di una improrogabile necessità che si ritaglia l’angolo del pubblico dominio nello scenario mondiale, a seconda che si guardi al singolo o all’universo politico. Lo sa bene Fabrizia Ramondino, che accosta questa potenziale biforcazione della categoria del conflitto lungo la sostanza del retroscena dello “spettacolo” già nel titolo del suo romanzo, Guerra di infanzia e di Spagna, edito per la prima volta nel 2001 per Einaudi e oggi ripubblicato da Fazi. L’autrice si espone al riguardo abbastanza chiaramente nel seguente passaggio:
“Ai bambini era proibito affacciarsi nei pozzi, ma io lo facevo; giocavo al gioco Dello Specchio E Della Morte. E mentre nei pozzi di campagna mi pareva fossero acquattati streghe, gnomi e nani, pronti a ghermirmi, in quelli del mio giardino mi pareva invece fluttuassero, con i capelli sciolti e le belle mani levate, suadenti ondine. La voce che mi tornava in un’eco dal pozzo la chiamavo «Voce dell’Anima»; e «Voce dell’Anima» chiamavo anche i rumori che, quando avevo bevuto troppo, gorgogliavano nei miei visceri. Ma l’anima del pozzo era diversa da quella dei visceri; quest’ultima la trattavo con degnazione, mi sentivo sua padrona; mentre l’anima del pozzo era più grande di me e mi faceva paura”.
Ora ciò è funzionale alla comprensione dell’esplorazione di sé collocata in un arco temporale che è l’infanzia di Titita, la piccola protagonista del romanzo narrato in prima persona, ma ci immette anche agevolmente nel piano spaziale su cui l’ottica scelta di sviluppo della narrazione, cioè prevalentemente di indagine, si concentra: non solo l’isola di Maiorca in cui lei e la famiglia trascorsero realmente diversi anni, sette per l’esattezza, della loro esistenza per ragioni legate all’attività di console del padre, ma anche il corpo il cui profondo mutamento spiazza la ignara, ma combattiva latrice del medesimo, che avverte il passaggio da quella che credeva un’inossidabile alleanza a una sorta di tradimento difficile da configurare se non nel rigore di un cattolicesimo imperante, non solo in Spagna:
“Solo le macchie di sangue mi davano smarrimento. Il mio corpo mi pareva allora simile a quei luoghi segreti delle favole nei quali era fatto assoluto divieto di entrare, e in particolare mi ricordava la stanza terribile della favola di Barbablù. Blu era il colore del sangue nelle vene che segnavano la pelle, e blu era la lama dei coltelli con i quali Barbablù sgozzava le sue mogli, blu il ferro delle catene e quello dei trabocchetti. Di nascosto odoravo le macchie di sangue quando erano ancora fresche e mi sembrava di avvertire un odore dolciastro e corrotto, come di ferro marcio, che mi dava la nausea e le vertigini”.
Quell’educazione intrisa di colpa, da cui né padre né madre, nonostante efficacemente racchiusi in una bolla di modernismo liberale e avanguardista, riescono a discostarsi nel profondo e dentro cui urge, per sopravvivenza all’irruenza degli stimoli emotivi, spegnere gli ardori di un’infanzia potente e ballerina, quasi preludio di uno scoppio dalle inimmaginabili conseguenze di cui l’adolescenza potrebbe essere l’ideale continuum. E qui i due piani accostati sin dal principio si impongono ancora prepotentemente all’attenzione del lettore: non solo gli anni passati sull’isola racchiudono un anticipo temporale di quello che verrà e che scaturirà inevitabilmente dalla prima fase di vita trascorsa in quei luoghi, dentro cui riecheggia il confine “superabile” caro ad Arturo nell’isola di Elsa Morante, ma, alla luce di uno sguardo più ampio, le vicende di Maiorca e, più in generale, della Spagna degli Trenta preparano il terreno al conflitto mondiale del periodo immediatamente successivo, offrendo l’occasione ideale dell’ingresso in scena e l’opportunità di una prima collocazione politica e di una sperimentazione tattica e militare delle potenze più direttamente coinvolte nello scoppio della Seconda Guerra Mondiale. In tutta la prima parte, l’eco della dimensione bellica è percepita in lontananza, in forma indiretta, quasi in ottemperanza al protagonismo assoluto che l’infanzia esige dalle sue creature e che nel romanzo è reso perfettamente nella scansione dettagliata dell’intimità di Titita attraverso monologhi dalla fantasia liberatoria e ingenuamente dissacrante spesso orientati verso un punto di fuga:
“Mi struggevo dal desiderio di fuggire da quel letto, da quella stanza, da quella casa; e anche dal mondo tutto che conoscevo. E fantasticavo di farlo proprio su di una barchetta a vela! E questa fuga la immaginavo come uno scivolare via. Chiamavo la barca delle mie fughe Pinta; non volevo infatti fuggire in un mondo astratto e incolore, ma nel cuore stesso delle cose, che è tutto colorato”.
Quell’eco, però, avanza più spavaldamente nella vita della non più piccola protagonista e dei suoi interlocutori familiari (e non solo) verso l’epilogo dove la cattura del padre disgrega l’unità familiare, genera l’assenza e impone un principio di costruzione di un canone sostitutivo che offra la forma di un compromesso tra vecchie istanze e nuovi bisogni, senza vincoli e oppressioni:
“Dovevo camminare? Ebbene avrei camminato. Cioè avrei vissuto. Rifiutai la mano di mamita. Non per dispetto, come forse credette. Se dovevo camminare avrei camminato da sola”.
Ricerca di una forma di libertà soggettiva, dunque, collocata in un momento storico di affermazione di regimi dittatoriali che riflettono in tono abnorme il facile travalicare della necessità normativa quale contenimento al sopruso e possibile orientamento nella fuga nel bosco in limitazione della libertà collettiva e personale. Come introiettare il buono della regola senza essere vittime delle derive dispotiche di chi la pone? Come imparare a riconoscere il bene e il male fuori dalle legittimazioni autoritarie e formalmente autorevoli? Narrazione di una precarietà, potremmo anche dire, che è transitorietà verso un periodo estremamente complicato per la storia dell’umanità, ma anche difficoltà singola di identificazione in cui l’essere e l’avere si confondono (“«Ma come si fa», pensavo, «a non avere e a non essere niente?»”) dentro un processo di crescita e trasformazione che genera movimenti tellurici in cui ciò che è sotto, che sia desiderio o paura, viene fuori, si mescola alla realtà, produce l’urgenza di una ricomposizione della conoscenza che non si appigli all’esclusivo processo razionale, non ancora alimentato a sufficienza e maturo a tal punto da dominare, ma si adatti al vecchio e al nuovo, compiendo salti e balzando a terra, volando alto mentre giù un qualcosa di morbido potrà garantire all’incauto esploratore dei cieli la sopravvivenza senza che questa abbia necessariamente fattezze materne.
Tema caro, quest’ultimo, alla scrittrice napoletana che dedica, in Althénopis, al rapporto con la madre una delle pagine più struggenti che siano mai state scritte al riguardo dove alla conflittualità del passato si sostituisce il maturo sguardo di una figlia che consegna, animata da un senso di profonda pietas, alla propria storia e all’esistenza che fugge via, la oramai piccola figura materna risucchiata dalla violenza del tempo che passa sulle nostre vite spegnendo, nella distanza del ricordo, il male del passato.
Non c’era spazio lì per l’accoglienza di derivazione materna e, in fondo, neanche qui, dove l’attenzione della propria madre è rivolta a sé stessa o agli altri che non sono lei, mentre Dida, la balia, e la servitù intera compensano le altezze algide materne e la introducono al mondo felice del corpo, qui dove la relazione attinge, per chiarirsi agli occhi di Titita, dal mondo animale, quasi fossero due fiere, madre e figlia, in un perenne impari confronto, aggravato dalla contesa rivolta alla conquista dello stesso uomo: quel padre premuroso e allegro che regala all’ortodossia delle regole della casa il calore e il clamore di un’infanzia non dimenticata del tutto. Quel padre che però concede solo all’altra figlia una dignità pienamente femminile, spodestando Titita dal ruolo ufficiale di figlia femmina, pur in un’anomala complicità in cui maschile e femminile si combinano pericolosamente, contribuendo alla sua precarietà che diventa anche di genere e declinandosi nel corso del romanzo in un’infinità di forme. Nel rapporto con la femminilità del fratello, per esempio, nell’emozione all’ascolto de La Traviata che, complice la nonna, la apre alla complessità e all’apparente contraddittorietà del mondo femminile unitamente al rischio del fascino delle sue “devianze” che, quasi in un gioco di scatole cinesi, a volerle scoprire, si finisce sull’orlo delle cose, al confine netto degli opposti in cui tutto si mescola e, poco oltre, in quegli abissi da cui siamo partiti.
Accade che ciò che parrebbe un trionfo di vita, attraverso la sovrapposizione di memorie che intrecciano l’infanzia della piccola con le storie degli altri dentro uno spazio che è anche fortemente fisico, soprattutto nella dettagliata rigogliosità della natura che esplode intorno alla casa (“E quella casa a forma di chiesa e convento, da cui mi venivano regole e cure, si opponeva al mondo del giardino nel quale crescevo come i fiori e le piante.”), celi il principio della sua stessa fine, non solo suggellata a un certo punto dal necessario trasloco, preludio del successivo abbandono dell’isola, ma in qualche modo anticipata, accennata, sussurrata, sognata da Titita, dalla sua paura di essere mangiata, dall’urgenza delle spine che proteggano dalla dolcezza che potrebbe attirare l’orco affamato, dall’implacabile associare, quasi per legge divina intrisa di colpa, ad ogni dolcezza un’amarezza, da quel senso di perfezione non più perfettibile che, alla fine dei giochi, ne sancisce il termine ultimo o il senso di intrappolamento qualora si provi a uscirne. In sostanza, la prova inconfutabile dell’assenza di vie di fuga, dell’illusorietà parziale del libero arbitrio, il tradimento del desiderio di fuga a opera della vita stessa e della sua costruzione, dentro la quale l’Eden è “solo” un lontano giardino di infanzia.
Guerra di infanzia e di Spagna è, però, anche un romanzo che, come già anticipato, ricompone gli estremi di una conoscenza altra possibile, fuori dagli interessi e dalle logiche nefaste e manipolatorie del mondo adulto, l’opportunità di concepire la realtà attraverso la ricchezza di un immaginario infinito, popolato di creature fantastiche e di animali selvatici, di sviste provvidenziali e di dettagli raccolti dove gli altri non vedono più, di parole desuete o nuove, di apertura all’ignoto e paura di esserne travolti, il cui collante è quella sottile piega che, in barba alla ragione, lascia entrare l’imponderabile regalandoci il respiro che oggi, con una guerra potenzialmente mondiale all’orizzonte, manca a tutti.
Non è assolutamente casuale che il romanzo si apra con il racconto di una storia al padre di Titita da parte di una donna, colei che nel tempo diventerà un riferimento costante della giovane protagonista, un’improvvisata madrina legata alla piccola da una rivelazione quasi fiabesca in cui l’animalità, intesa come profanazione delle regole consacrate dalle istituzioni umane, congiunge punti in apparenza lontani e offre il pretesto di una ricerca fuori dalla morale lecita. Non siamo di fronte al capolavoro della Ramondino, ma è inevitabile constatare come, nonostante le sperimentazioni di un periodo diverso da quello a cui appartiene Althénopis, la scrittrice riesca a scavare un solco nel nostro processo di memoria, un canale libero che mette in comunicazione presente e passato, che lascia un vuoto, genera il senso di un’assenza, rimescola le carte restituendoci la bellezza drammatica dei nostri percorsi.
- Elsa Morante, L’isola di Arturo, Einaudi, Torino, 2014.
- Fabrizia Ramondino, Althénopis, Einaudi, Torino, 1995.