Dove nascono le idee, spesso ci si chiede. Capita talvolta che le migliori idee nascano da inciampi banali, magari da una varicella in età improbabile e dall’altrettanto suo trasformarsi in malattia dell’anima. Capita che un dottore, sfinito dalle telefonate di chiarimenti e rassicurazioni, suggerisca all’assistito di affidare il proprio malessere a un foglio di carta piuttosto che alle conferme della medicina. Capita che ne venga fuori un alfabeto, capovolto, per recuperare il proprio aleph. Nasce così l’idea di Sillabario all’incontrario, ultimo romanzo di Ezio Sinigaglia per TerraRossa edizioni. Romanzo giallo, si potrebbe azzardare, perché l’autore, per sua stessa ammissione, semina indizi tra le pagine alla ricerca, sua in prima battuta e poi del lettore, di un possibile assassino, il proprio imprevisto malessere. Tuttavia le pagine di Sinigaglia non hanno mai un’identità univoca, rispondono alla regola della contaminatio antica, quella mistione di forme e generi che oggi ci impone di definire queste pagine come romanzo, autobiografia, diario, saggio. Più semplicemente, una sperimentazione pari al vivere. Se al lettore è concesso fissare una propria traiettoria di lettura, in questa sede si preferisce quella dell’autobiografia e si prova a seguirne il disegno dietro i pieni e i vuoti di un alfabeto a faccia indietro.
“La salute non analizza se stessa e neppur si guarda nello specchio. Solo noi malati sappiamo qualche cosa di noi stessi”
(Svevo, 1988).
Così, il protagonista de La coscienza di Zeno, a seguito del suggerimento “Scriva! Scriva!” del suo Dott. S. Una scrittura conoscitiva, quella del personaggio sveviano, diversa da quella salvifica di Sinigaglia, ma di certo approdate entrambe a un’analisi di sé, che, sebbene parziale, consente indulgenza e levità verso il proprio essere al mondo. E di questo essere al mondo la prima lettera rappresentativa risulta la V di Vegetazione.
“[Le piante] affondano le radici nel punto che il destino ha loro assegnato. Lo accettano, il destino, senza protestare. Ne succhiano gli umori. Trovano l’acqua, anche nel deserto”.
La vegetazione è quella di Geremeas, costa meridionale della Sardegna, un affresco di mirti, ulivi, mandorli, fiori a grappoli sontuosi, slanciati, impalpabili, tra cui brilla l’asfodelo. Il gambo senza senso, ordine, principio finché un’alba di gennaio ne assiste alla trasformazione e alla redenzione: un asfodelo fa strada all’altro, il suo colore è luce che punteggia sentieri prima desolati, è esistenza che si innalza e si difende, che difende una specie di magia, il seme divino custodito alla radice. Sono le piante, per Sinigaglia, la vera traccia di divino tra noi tutti: hanno dalla loro la potenza della fissità in quella zolla di terra prescritta, da cui suggere acqua e fatica, voltare le spalle ai colpi di vento, curvarsi alla pioggia e instancabilmente tornare a svettare, perché custodiscono nel seme un progetto da realizzare, la bellezza.
Solo la vegetazione sa trasformare qualunque forma assegnatale in un’esperienza metafisica, sa attraversare lo spazio con la grazia invece diradata tra noi uomini. Da qui si può partire per capire la presenza di Sinigaglia in Sardegna negli ultimi anni. Altra lettera-chiave nel sillabario è difatti la L di Lontano, che si intreccia con la M di Mare e la U di Umanità. La lontananza è condizione dell’anima prima che di un recapito. Lontano dall’umanità Sinigaglia ci si è stabilmente sentito; ora, la distanza è semplicemente consacrata dagli scorci di mare prospettatisi tra i battenti della finestra, i varchi di un sentiero, l’oscillare delle mimose. Mare inquieto come le onde, carico come il colore del cielo, gonfio come la rabbia del vento, ma pur sempre un intervallo tra sé e il mondo.
“Lontano lo sono sempre stato: l’interposizione del Tirreno non ha fatto che svelare a tutti la mia lontananza”.
La Sardegna si riconosce, allora, come rifugio di lontananza, non solo per geografia ma anche per quel modo di concepire tipico della sua gente, capace di riservatezza, di “avvicinarsi” a qualcuno anziché “raggiungerlo”, in una prossimità che sappia, d’altro canto, rispettare l’intimità. Distanza è quella di Clara, una ragazza del luogo la cui condizione di lontananza si presta a declinazione e paradigma di vita: lontana, perché a settanta chilometri da Geremeas, perché ha un’infezione che le fa il giro delle vene, perché infelicemente intelligente ma, soprattutto, perché cerca libri e nei libri una inquadratura tutta sua per riaffacciarsi alla vita. Clara è di nessun luogo. Non di un altrove, proprio di nessun luogo. Lo status che con cautela e fatica Sinigaglia tenta di percorrere. E proprio in questo esilio sardo l’umanità si carica di significati nuovi nella percezione dell’autore.
“Il mio rapporto con l’umanità è, al momento attuale, la negazione dell’adagio che spinge Maometto verso la montagna. Non vado io dall’umanità: è l’umanità a venire da me”.
Fatta eccezione per gli affetti irrinunciabili, Sinigaglia fa i conti con un osservatorio speciale delle relazioni umane, un’isola dove nitore e oscurità pareggiano in eccesso, in cui la vegetazione sa essere ospitale e feroce nella stessa misura, dove l’uomo sfida la natura a mete inverse. L’una ad animare profumi e cromie, l’altro a calunniare la terra con l’isterismo del cemento. Qui l’umano libera con più smisuratezza quell’istinto oscuro di dissipare la bellezza. Ecco perché tra queste coste si percepisce ancor meglio la volontà di maturare distanze dagli altri e cercarsi un tetto sotto cui riprodurre un’alternativa. L’alternativa contempla dei ruoli, tra cui innegabilmente quello di essere stato figlio e quello di essere a sua volta padre. Padre si distingue, quindi, come altro tratto di questo sillabario.
“La fermezza dei ruoli è una delle vie maestre che conducono alla meta dell’infelicità ottusa e allibita della specie. I ruoli sono l’incarnazione simbolica del talento che l’umanità ha di annoiarsi e rovinarsi la vita, inaridendola”.
Eppure Sinigaglia è padre e figlio, perdutamente ribelle allo stesso modo. Umberto è il dodicenne affidatogli perché incontri in lui il padre mai avuto. Una figura genitoriale Umberto riesce a trovarla nell’autore, ma un genitore dai confini flessibili. Sinigaglia ci racconta, difatti, di questo suo rivestire, maldestramente e tutti insieme, i ruoli di madre, padre, fratello, nonno e perfino cane, in giù a quattro zampe, a orecchie drizzate, a lingua all’aria, chino a cercare la carezza di quel bambino a cui lui pronto non era. Perché, per amare, bisogna, averne imparato le rotte e le movenze, cosa che l’autore riconosce come eredità di sua madre più che di suo padre. Ne consegue il suo esserci per Umberto nei margini di un amore più materno che paterno, nel suo esserci, appunto, sovvertendo la distanza d’amore che Sinigaglia aveva invece appreso da suo padre. I ruoli, così, si travestono di forme mobilissime, come quelle di chiunque impara la distanza, ma anche a rovesciarla dove comincia l’affetto. Affetto è ciò che lega Sinigaglia anche ai suoi libri, specie quelli inediti. La lettera I, difatti, associa l’Inedito, da sempre presenza ectoplasmatica nelle sue soffitte, all’insuccesso letterario a cui sembra votarsi l’autore nella delicata ironia del suo tono.
“Ciò che mi riesce sgradevole dell’inedito non è l’insuccesso, ma l’inedito: l’insuccesso ha anzi alcuni aspetti apprezzabili e soprattutto divertenti”.
L’atteggiamento dell’autore rispetto a quello che lui definisce “insuccesso” smaschera ulteriormente i luoghi comuni e i pregiudizi di cui si alimenta il nostro tempo e colloca lui stesso ancora una volta in una dimensione traslata. Un autore “inedito” oggigiorno è dai più accolto con la medesima pietà che si riservava qualche tempo fa ad una cinquantenne nubile, senza conoscerne indole e intelligenza:
“La si compiangeva in quanto zitella, eventualmente anche senza conoscerla, come se il suo stato civile fosse una certificazione d’infelicità ufficiale, che rendeva superflua ogni ulteriore indagine: così di me si presume ch’io soffra segretamente del mio anonimato e della mancata pubblicazione”.
Al contrario, sorridere dei valori e disvalori capovolti, considerare il proprio un insuccesso e analizzarlo con la stessa distanza riservata a persone e cose che male non fanno più, ritenersi fortunato del proprio anonimato perché punto di osservazione pacificato sulle cose che restano mentre tutti continuamente vanno, spiega l’armonia di queste pagine. Se l’ultima lettera del sillabario, A di Aldilà, è riservata a svelare la natura del malessere dell’autore, a noi lettori sembra piuttosto di aver appreso l’apertura più illuminante alla vita, quella che ti è assegnata in dono forse solo dall’aver troppo sentito e troppo patito: scavalcare il confine tra ciò per cui valga la pena e ciò per cui non valga più; slittare in un Aldilà, tutto pagano, tutto terreno, con atroce rassegnazione eppur sorprendente forza. Cosa portarsi oltre la linea di confine? Un alfabeto che sappia ancora raccontarci la bellezza degli asfodeli e il blu di un calabrone.
- Italo Svevo, La coscienza di Zeno, Mondadori, Milano, 1988.