Nella vita, tutto sommato non molto raminga (divisa sostanzialmente tra Romania e Francia), né esteriormente avventurosa, di Emil Cioran (1911-1995), spiccano due eventi miliari: il distanziamento dalla filosofia tradizionale intesa come sistema di pensiero, già a partire dal suo primo libro, il diario filosofico Al culmine della disperazione, apparso in Romania nel 1934; e l’abbandono della lingua madre, il romeno, per il francese, divorzio che si matura nel 1947, a Dieppe, in Francia, quando Cioran stava traducendo Stéphane Mallarmé. Dieci anni prima, nel 1937, Cioran era giunto a Parigi grazie a una borsa di studio dell’Istituto francese di Bucarest. Dopo cinque libri pubblicati in Romania, e un sesto, il Breviario dei vinti, scritto sempre in romeno, a Parigi, Cioran, rinunciando alla lingua madre, liquida anche il proprio passato, errori inclusi. Il Précis de décomposition (Sommario di decomposizione, suo primo testo in francese, uscito nel 1949 da Gallimard) rappresenta il punto a capo e l’inizio di una nuova fase, più matura e riflessiva.
A ripercorrere la vita e l’evoluzione del pensiero di Cioran, ci pensa la minuziosa biografia scritta da Gabriel Liiceanu, Emil Cioran. Itinerari di una vita, opportunamente tradotto in italiano e pubblicato da Mimesis, dopo l’edizione romena, francese e spagnola, in un’edizione a cura di Antonio Di Gennaro. Filosofo e scrittore romeno, Liiceanu è fondatore e direttore della casa editrice Humanitas, presso cui sono stati pubblicati in Romania tutti i libri di Cioran. Il volume è corredato da diverse immagini e si chiude con due interviste: una a Cioran (18-20 giugno 1990), l’altra (18 novembre 1994) alla compagna di una vita, la discreta Simone Boué che ha vissuto al fianco dello scrittore franco-romeno per cinquant’anni.
Un mélange di culture
Emil Cioran nacque l’8 aprile 1911, a Răşinari, piccolo borgo di pastori e boscaioli, in Transilvania, secondogenito del prete ortodosso Emilian Cioran e di Elvira Comaniciu. La Transilvania, allora, faceva parte dell’impero austro-ungarico. Nel 1924 la famiglia si trasferisce a Sibiu dove Emil frequenta il Liceo. Cioran parlerà sempre dell’infanzia a Răşinari come del periodo più felice della sua vita. A Bucarest si laurea in filosofia con una tesi sull’intuizionismo bergsoniano. Dopo una breve parentesi di studio in Germania, dove assiste all’ascesa dell’hitlerismo, e il ritorno in patria, Cioran lascia definitivamente la Romania per la Francia, nel 1937; vivrà quasi tutta la vita a Parigi, dai ventisei anni in poi, e dal 1960 nella mansarda al quinto piano di Rue de l’Odéon.
In Francia, dopo il Sommario di decomposizione, pubblica altri nove libri, in media uno ogni quattro-cinque anni, tutti con Gallimard: Syllogismes de l’amertume, 1952, (Sillogismi dell’amarezza), La tentation d’exister, 1956, (La tentazione di esistere), Histoire et utopie, 1960, (Storia e Utopia), La chute dans le temps, 1964, (La caduta nel tempo), Le mauvais démiurge, 1969, (Il funesto demiurgo), De l’inconvénient d’être né, 1973, (L’inconveniente di essere nati), Écartèlement, 1979, (Squartamento), Exercices d’admiration, 1986, (Esercizi di ammirazione), Aveux et Anathèmes, 1987, (Confessioni e anatemi).
Nei Quaderni, gli appunti scritti tra 1957 e 1972, usciti postumi, Cioran nota: “ho scritto in francese cinque libri; a parte il primo [il Sommario di decomposizione, ndr], nessuno ha funzionato” (Cioran, 2001). In Romania, i libri di Cioran furono censurati per 45 anni; quando, nel 1990, crollò il regime di Ceausescu, si vendettero del primo libro (Al culmine della disperazione) 150.000 copie. Poi le tirature si normalizzarono sulla media storica di 2.000 copie.
Una salutare camicia di forza
Cioran evidenzia spesso il contrasto tra lo spirito razionalista e sistematico del francese e la struttura grammaticale più libera e flessibile del romeno. Ha paragonato più volte la lingua francese a “una camicia di forza” dagli effetti taumaturgici:
“Sì, proprio come la camicia di forza che calma un pazzo. Il francese ha agito su di me come una disciplina, sortendo un effetto positivo. Limitandomi e obbligandomi a non esagerare, mi ha salvato. L’accettazione di una tale disciplina linguistica ha temperato il mio delirio. Pur non essendo una lingua adatta a me, da un punto di vista psicologico mi ha aiutato. Il francese è diventato alla fine una lingua terapeutica. (…) Qualcuno ha detto che il francese è una lingua onesta: non è possibile imbrogliare in francese. La disonestà intellettuale è quasi impraticabile”(Cioran in Liiceanu, 2018).
Nonostante lo stesso Cioran abbia ammesso la difficoltà di scrivere in una lingua d’adozione che pur parlava da tempo, il Précis de decomposition, il suo primo in francese, viene subito salutato con entusiasmo dalla critica, a partire dall’articolo di Maurice Nadeau (intitolato Un «penseur crépusculaire») apparso sul quotidiano Combat (29 settembre 1949) e primo articolo scritto in Francia su Cioran, come l’opera di un maestro anche nello stile, nella scrittura: una cosa che ha dell’incredibile, e che non accadde in Inghilterra per Joseph Conrad, né in Germania con Elias Canetti o in America con Vladimir Nabokov. Tanto più incredibile se pensiamo che nel 1949 in Francia suonavano già come fanfare od orchestre i nomi di Jean Paul Sartre e Albert Camus, del tutto indigesti (soprattutto il primo) a Cioran.
Sull’onda dei riscontri positivi e acclamatori suscitati in Francia dal Sommario di decomposizione, Cioran non è più visto solo come un eterno studente fuori corso alla Sorbona, un drop-out che pranza alle mense universitarie, e coltiva la mistica del fallimento con l’orgoglio di chi indossa la divisa trionfale dell’autenticità; il profeta dell’infelicità necessaria per chi vive con gli occhi spalancati sull’assurdo della vita, colui che dichiara di sentirsi “più sicuro accanto a un Pirrone che a un San Paolo” (Cioran, 1996), comincerà a mietere i primi successi confermati da una serie di premi letterari tutti rifiutati, tranne il primo, il Rivarol, nel 1950, assegnato a un libro, il Sommario di decomposizione, appunto, che solo un anno prima il comitato di lettura aveva ritenuto troppo pessimista.
Gli effetti del nenoroc
La costante Unzufriedenheit (insoddisfazione, ndr) che opprime Cioran sin dall’adolescenza, l’autorità tanatologica che lo scrittore romeno si attribuisce, novello Egesia del Novecento, già verso i vent’anni, e la persistenza del nenoroc, la sventura, sia a livello quotidiano sia metafisico, possono essere considerate quali premesse biografiche al pessimismo cioraniano; che però non è solo ed esclusivamente il distillato di un lungo malessere personale, anche se Cioran non ha mai negato, anzi ha più volte ammesso, la funzione catartica e liberatoria della scrittura, quasi che i suoi libri fossero tutti uno sfogo, un tentativo di alleviare l’insostenibile peso della Unzufriedenheit e del cafard.
L’autobiografismo cioraniano, sul solco di un’alta tradizione di Privatdenker che va da Seneca a Montaigne, da Blaise Pascal a Søren Kierkegaard, è ben lungi dal limitare soggettivamente la verità: anzi, la certifica e la corrobora con il sigillo della propria dolorosa esperienza o testimonianza. “C’è un solo problema: quello della morte. Discutere di altro significa perdere tempo, dimostrare un’incredibile futilità. Le religioni lo hanno capito benissimo. Di qui la loro superiorità sulla filosofia” (Cioran, 2001). Il distacco dalla filosofia tradizionale è già maturato nel periodo di stesura di Al culmine della disperazione:
“Ho cominciato a scrivere in gioventù, a 21 anni, dopo aver terminato gli studi in filosofia. All’epoca smisi di credere alla filosofia, che fino a quel momento rappresentava tutto per me. Ah, la filosofia, soprattutto quella tedesca, i grandi sistemi filosofici… In quel periodo, però, compresi che la filosofia non avesse nulla da dire agli uomini in preda a un disagio interiore. Insegna a porre problemi e domande, ma poi ti abbandona, poiché le sue risposte sono sempre discutibili”
(Cioran in Liiceanu 2018).
I grandi sistemi filosofici cui allude Cioran sono principalmente quelli della speculazione tedesca da Kant a Hegel e Fichte, dei quali lo stesso Cioran si era imbevuto e inebriato da studente universitario. In una conversazione con Irene Bignardi (Cioran cavaliere del malumore, in La Repubblica, 13 ottobre 1982) Cioran attribuisce la sua stanchezza per la filosofia alle lunghe crisi d’insonnia:
“Avevo sempre creduto ciecamente alla filosofia, ero affascinato dai grandi sistemi – Kant, Hegel, Fichte. Ma a partire dal momento che qualcosa mi costringeva a restare sveglio tutta la notte, che per me notte e giorno erano la stessa cosa, che, mentre per gli altri ogni mattino cominciava un’altra vita, per me si era creata una continuità assoluta, esasperata, esacerbata dal tempo, ho scoperto che la filosofia non trovava una risposta agli interrogativi creati da questa mia esperienza, che era fatta per gente senza temperamento e senza storia. E l’ho abbandonata, per l’esperienza, le cose vissute, la follia quotidiana” (ibidem).
Oltre all’insonnia, avrà anche contato l’influsso di Nae Ionescu, suo professore di logica e filosofia a Bucarest, nella scelta di una Lebensphilosophie fondata su quella che lo stesso Cioran definisce una metafisica dell’esistenza, alternativa e opposta a quella modalità scientifica (o pseudo-tale) di fare filosofia, accompagnata spesso da un linguaggio così astratto e lambiccato da rasentare il non-senso, tipico dei sistemi speculativi e che Cioran vedeva prolungarsi anche nelle opere di grandi pensatori del Novecento come Martin Heidegger e Sartre. D’altronde, la scelta di trattare, senza scappatoie teoretico-arzigogolanti, i temi essenziali dell’esistenza umana, come la morte, l’assurdità e l’inutilità del vivere e soprattutto del nascere, la noia, il tempo, Dio e la fede, è dettata dall’impulso fenomenologico di andare alle cose stesse (il “Zu der Sache selbst” husserliano) e quindi a ciò che più preme e angoscia l’umanità.
L’indifferenza cioraniana per l’accademia e la filosofia dei professori è parente stretta dell’avversione di Schopenhauer – fra i filosofi più amati da Cioran – verso Hegel e un certo modo (oscuro e pretenzioso) di fare e scrivere filosofia. Per questo Cioran adotta la frammentarietà fulminante e profonda dell’aforisma, lo stile della letteratura, della prosa d’arte, della poesia, della confessione, dell’anatema, nella direzione più empatica e autobiografica che Cioran stesso definisce “indiscrezione astratta”:
“Quando si scrive, lo si fa pensando realmente alle proprie miserie. Chi legge si riconosce in esse, e ciò che sembra egoismo è in realtà una forma di carità, di altruismo, perché in queste miserie personali gli altri vi si rispecchiano. Lo dico, soltanto perché spesso mi è stato rimproverato di occuparmi solo di me stesso. Ebbene sì. Coloro che parlano di problemi generali mi appaiono, il più delle volte, vuoti. E se vuol saperlo, con la filosofia accade la stessa cosa: nel suo profondo, essa è vuota” (ibidem).
Una “febbre” dell’anima
La Bucarest degli anni Trenta era la capitale della cultura nei Balcani e il leggendario Caffè Capşa in Calea Victoriei “riuniva le virtù del Caffè Florian di Venezia, della sala da tè Rumpelmayer e dell’Hotel Sacher di Vienna” come ricorda Paul Morand in Bucarest (Morand, 1990).
Al Caffè Capşa, Cioran incontra intellettuali come Mircea Eliade (che in quel periodo era “l’idolo della muova generazione” come lo definisce Cioran stesso in Esercizi di ammirazione, nuova generazione di cui fanno parte lo stesso Cioran e Constantin Noica); Benjamin Fondane (discepolo di Lev Šestov ed Edmund Husserl, morì ad Auschwitz nel 1944), e Victor Brauner. Uno dei personaggi che Cioran considera fra le grandi figure dell’epoca è Petre Ţuţea, di cui Cioran parla spesso come un genio, una personalità fuori dal comune.
C’è una fase della vita e dell’attività intellettuale di Cioran – un periodo poi rinnegato dal successivo e nuovo Cioran francese e parigino – che anche i cioraniani più fedeli conoscono poco: ci riferiamo all’estremismo e al fanatismo nazionalista imbevuto di posizioni antisemite che prende corpo soprattutto in Schimbarea la faţă a României (La Trasfigurazione della Romania) pubblicato nel 1936 dalle edizioni Vremea, un libro mai tradotto in Italia. Parlando di questo libro a distanza di tempo, in una lettera ad Arşavir Acterian, 10 settembre 197 Cioran lo assocerà alla parola “febbre”:
“Proprio come te, mi sono definitivamente ripreso dalla febbre di gioventù. Quando ci ripenso… che errore! Siamo stati rimbecilliti da un vento di follia!” (ibidem).
Nel 1933, poco dopo la laurea, e un anno prima della pubblicazione di Al culmine della disperazione, Cioran è a Berlino come borsista della Fondazione Humboldt e quindi è testimone del clima nel quale si compie l’ascesa al potere di Adolf Hitler. A quel tempo Cioran è convinto, come una parte del mondo intellettuale europeo, che la democrazia sia un sistema politico definitivamente compromesso. L’hitlerismo, di cui segue in diretta l’ascesa a Berlino e a Monaco, appare ai suoi occhi come “un nuovo stile di vita”, in cui il culto dell’irrazionale e l’esaltazione della vitalità assumono un ruolo decisivo. “Chissà se la vitalità di questo popolo non ci costerà cara”, annota in modo premonitore nel dicembre del 1933 (ibidem).
In Germania, Cioran iniziò a studiare il buddismo per non lasciarsi contagiare o intossicare dall’hitlerismo, come scriverà lui stesso nel 1937 su Vremea del 21 marzo, un quindicinale di estrema destra. Come tutti gli individualisti pessimisti, è scioccato dalla visione di una società trasformata in “selva fanatica”, di un intero popolo di automi che si getta nelle braccia di un aguzzino travestito da salvatore. Tuttavia, sarebbe disonesto tacere che in quel periodo, tra il 1930 e il 1935 circa, Cioran respirava un clima diffusissimo di inquietudine politica e sociale che permeava trasversalmente, senza distinzioni, tutte le fasce della popolazione, a destra e a sinistra, dall’alto al basso:
“Quando nel 1935 rientra in patria, Cioran è contagiato dall’idea secondo cui la storia non sia altro che l’opera dei popoli destati dal loro torpore, di visionari capaci di «introdurre l’assoluto nel loro respiro quotidiano». Quest’idea – di un’Europa che a molti appariva apatica – aveva superato i confini della Germania e dell’Italia, ed era condivisa dagli intellettuali di destra e di sinistra (…) Cioran testimonia più tardi di aver vissuto «una fase patologica» caratterizzata da una fascinazione per gli estremi. È convinto che Lenin o Hitler facciano la storia perché riescono a ispirare «la mistica di una mobilitazione collettiva nazionale»” (ibidem).
In questa cornice psicologica va inquadrato il sogno cioraniano di una trasfigurazione nazionale incarnata dal movimento legionario di Codreanu, il capo carismatico di una delle formazioni politiche più singolari dell’Europa di quel tempo, che univa all’inclinazione per il fascismo una forte e distintiva impronta religiosa e ascetica.
Cioran si butterà alle spalle quella fase di ubriacatura dell’entusiasmo (che – come dirà poi – è sempre una forma di delirio), di mistico sogno della rinascenza nazionalistica, pentendosi della sua caduta nella storia: il Sommario di decomposizione rappresenta il punto e capo sotto questo aspetto e Cioran in opere successive come Storia e utopia liquiderà il fanatismo e il furore dell’entusiasmo, non solo come portati fisiologici dell’adolescenza e della gioventù, ma anche come maschere di fervore e di energia che nascondono una “tristezza bestiale”.
- Emil Cioran, Al culmine della disperazione, Adelphi, Milano, 1998.
- Emil Cioran, Sommario di decomposizione, Adelphi, Milano, 1996.
- Emil Cioran, Sillogismi dell’amarezza, Adelphi, Milano, 1993.
- Emil Cioran, Il funesto demiurgo, Adelphi, Milano, 1997.
- Emil Cioran, L’inconveniente di essere nati, Adelphi, Milano, 1999.
- Emil Cioran, Un apolide metafisico (Conversazioni), Adelphi, Milano, 2004.
- Emil Cioran, Quaderni 1957-1972, Adelphi, Milano, 2001
- Emil Cioran, L’intellettuale senza patria, intervista con Jason Weiss, Mimesis edizioni, Milano-Udine, 2014
- Emil Cioran, Al di là della filosofia, conversazioni su Benjamin Fondane, Mimesis, Milano-Udine, 2014
- Emil Cioran, La speranza è più della vita, intervista con Paul Assal, Mimesis, Milano-Udine, 2015
- Paul Morand, Bucarest, Plon, Parigi, 1990.
- Arthur Schopenhauer, Sulla filosofia da università, Tea, Milano, 1992.
- Fabio Ciaralli, Emil Cioran, Odissea della lucidità, La scuola di Pitagora editrice, Napoli, 2017.