Se vi procurate una mappa abbastanza dettagliata del Caucaso, subito a nord di Georgia, Armenia e Azerbaigian si trovano quelle che oggi vengono riunite sotto il nome collettivo di Repubbliche del Caucaso Settentrionale, e che sono giocoforza parte integrante della Federazione Russa. I pochi viaggiatori che sono passati da questi territori hanno attraversato Cecenia, Inguscezia, Dagestan, Ossezia e altri luoghi i cui nomi, all’orecchio degli occidentali, hanno da sempre rappresentato territori estremi, porte di quella immensa landa che sono le steppe asiatiche, e incontrollabili dai poteri centrali, si trattasse di Mosca, di Istanbul o di Londra. La Cecenia in particolare ha sempre rappresentato una spina nel fianco del potere zarista, che dovette esercitare tutta la sua forza militare per sottomettere i discendenti dei cosacchi del Volga. Lo stesso accadde per l’Unione Sovietica di Stalin, che represse e deportò a più riprese gli abitanti di questi territori, fino a giungere all’invasione ordinata da Boris Eltsin dopo la caduta dell’URSS, e alla forse definitiva devastazione del territorio ceceno compiuta da Vladimir Putin. Una terra quindi dove il dolore e la morte sono da sempre e in ogni momento il filtro attraverso cui si interpreta qualsiasi altro elemento. Qui non è certamente sorprendente incontrare forme di radicalismo sia politico che religioso altrove impensabili, ed è infatti qui che è potuto accadere il più drammatico ed emotivamente lacerante tra gli atti di terrorismo che il mondo ha visto, paragonabile solo al crollo delle Twin Towers: la strage della scuola di Beslan.
Beslan: vent’anni dopo
Sono passati vent’anni da quel settembre del 2004, e ormai l’unica certezza che abbiamo su quegli eventi è proprio il fatto che non sapremo mai con precisione come andarono le cose. Vi sono state commissioni d’inchiesta, più o meno organiche al governo di Mosca, sono stati scritti fiumi di parole, articoli, libri e indagini, ma si è giunti alla sola conclusione che seppur molti aspetti siano stati chiariti sono altrettanti quelli rimasti senza risposta. Nel 2007, una giovane norvegese laureanda in antropologia sociale, Erika Fatland, decise di occuparsi di Beslan come oggetto di indagine, studiando in particolare quali conseguenze avessero subito i superstiti e come la comunità avesse reagito a quegli eventi con il passare del tempo. Trascorsi tre anni dalla strage si recò lì una prima volta, e in seguito, passati altri tre anni, trascorse un secondo periodo sul campo, e così la tesi si trasformò in un volume, che uscì nel 2011. Oggi il racconto da Beslan di Erika Fatland è pubblicato in una seconda edizione, tradotto anche in italiano da Marsilio. È solo un singolo elemento, un tassello nel quadro della ricerca della verità, ma fondamentale nel comporre quel mosaico che, a partire dalle parole di Anna Politkovskaja, vuole associare il nome di Vladimir Putin ai nomi delle centinaia di bambini morti nella scuola di Beslan.
“L’ho conosciuto a Beslan, Vladimir Putin. Non l’ho incontrato di persona, ovviamente, eppure era lì, sempre, ogni giorno: era nei colloqui con le madri che avevano perso un figlio, era nelle loro lacrime, nella loro rabbia, nella loro disperazione, nelle tante domande rimaste senza una risposta. […] Putin non ha mai bleffato. Ha detto chi era e che cosa voleva. Siamo noi che non abbiamo voluto capire”.
Gli eventi
Sarebbe ingenuo pensare lo scontro tra Basa’ev e Putin in termini di buoni e cattivi: come in qualsiasi altra guerra ogni parte adotta metodi spesso assai discutibili per ottenere quanto si prefigge. La presenza di elementi wahabiti, e quindi legati ad Al-Qaeda, nelle file indipendentiste non ha certo facilitato i rapporti tra i ceceni e quell’occidente che avrebbe potuto aiutarli, e inoltre ha dato una ottima giustificazione al burocrate del KGB per eliminare alla radice ogni possibile forma di resistenza, senza che vi fossero particolari voci contrarie. Oggi la Cecenia è un deserto dominato da un dittatore, e non appare più sulle prima pagine dei giornali, salvo recentemente scoprire elementi di entrambe le fazioni impegnati nella guerra in Ucraina, ovviamente su fronti opposti.
Sono passati solo pochi decenni dai fatti drammatici che hanno portato alle due guerre cecene, ma l’Europa dalla memoria corta ha completamente rimosso certi eventi, così come le guerre in Iraq, la questione siriana, quella curda, la battaglia contro l’ISIS. Troppo difficile comprendere da che parte stare, quasi nessun elemento determinante, alleanze apparentemente incomprensibili che si formano per poi disfarsi in poche settimane: tutto ciò non funziona nel mondo Instagram del fruitore occidentale, che è ben contento quando Zero Calcare gli dice che i curdi sono i buoni, e respira sollevato. Erika Fatland, al contrario, ha cercato proprio la complessità, e per far ciò, donna, giovane e sola, si è avventurata in territori dove ogni famiglia possiede almeno un Kalashnikov. Insistentemente si è imposta di parlare con le persone: i sopravvissuti, le madri, chiunque avesse potuto raccontarle qualcosa. Certamente ha trovato la sofferenza e il dolore, ma anche conflitto e separazione: si tratta, come nelle sue parole, di una storia oscura.
Gorod Angelov
“Il cimitero di Beslan è il più curato di tutta la Russia, poco ma sicuro. Il marmo delle lapidi, allineate in filari paralleli, scintilla nella luce dorata del pomeriggio. Ancora una volta rimango sconvolta dal numero di quelle sepolture. Sono tantissime. Intere famiglie che riposano fianco a fianco. […] Una delle pietre tombali è impreziosita con palloncini rosa, verde e blu. Li vedo fluttuare allegramente nella brezza della sera. Il nome inciso sulla lapide è Irina Berezova. La foto è quella di una scolara sorridente, con i capelli ricci tenuti corti. Ieri avrebbe compiuto ventitré anni. Ma avrà nove anni per sempre”.
Gorod Angelov, la città degli angeli, questo è il nome che gli abitanti di Beslan hanno dato al cimitero, dove su ciascuna lapide c’è il ritratto di un defunto, anche di tutti i bambini. Luogo in cui si concentrano le poche energie dei sopravvissuti, che vivono nel ricordo. Pochi quelli che sono riusciti a rifarsi una vita, a ricominciare da capo, a non annegare nel dolore o nell’alcool. Fatland, come se seguisse pedissequamente una lacerante contabilità, li intervista uno a uno, li cerca e chiede conto, chiede di raccontare, e tu lettore a volte ti chiedi perché non li lasci in pace, nella loro sofferenza. Difatti molti degli intervistati sono restii, si allontanano, non vogliono ripetere l’esperienza, forse sanno che non servirebbe a nulla, o più tristemente non credono di poter essere compresi, chiusi nel loro dolore. Forse noi invece non possiamo fare altro, se non tessere testimonianza, con una rete che ogni giorno ricordi ogni dolore, perché nulla venga dimenticato, nemmeno il più piccolo e insignificante bambino. Fatland è una giornalista, oltre che un’antropologa, e non è un caso se oggi, dopo mille giorni di guerra in Ucraina, abbia voluto riproporre al mondo la prima delle sue pubblicazioni, non quelle che le hanno dato il successo, venuto in seguito, nel tempo, ma questa su Beslan, il primo studio, dove una ragazza di vent’anni ha incontrato tutta la crudeltà del mondo.
- Anna Politkovskaja, Cecenia. Il disonore russo, Fandango, Roma, 2004.
- Anna Politkovskaja, La Russia di Putin, Adelphi, Milano, 2005.
- Anna Politkovskaja, Per questo, Adelphi, Milano, 2009.