Una delle fatiche maggiori per i lettori attenti, abituati a non scindere la letteratura dalla categoria dell’esistente umano, che si trovano, per volontà del caso, a vivere questo tempo senza volerlo fuggire, è certamente l’opportunità di rintracciare tra le pagine di un libro contemporaneo il suddetto parallelismo a cui associare lo scatto di una più profonda comprensione del presente e di un conseguenziale stato di maggiore coscienza. Congiunge bene le due istanze la recente (in Italia) raccolta di racconti, Una volpe a mani nude, di Emmanuelle Pagano, edita da L’Orma, che nel racconto dal titolo La bugia dei piallatori di parquet rivela la complessità dell’operazione, accennandola in veste amletica:
“Mi chiedo se raccontare sia comunque vivere, se sia aver vissuto, oppure soltanto fingere di averlo fatto”.
La scrittrice francese, tradotta in diverse lingue, ma non conosciuta in Italia quanto meriterebbe, ha alle spalle studi di estetica del cinema e di arti visive che confluiscono in forma estremamente naturale e piuttosto evidente nella ricchezza del suo immaginario che rappresenta uno degli elementi cardine per cogliere della sua poetica il dinamismo espressivo che ne restituisce una molteplicità di senso. L’universo di Emmanuelle Pagano è, infatti, suscettibile di più di una lettura, probabilmente perché contiene tessere di un puzzle composito in cui convergono l’inquietudine esistenziale, la solitudine delle vite ai margini, la resistenza del paesaggio, l’intelligenza erotica francese mai scissa da quel terreno provincialismo che scardina le convenzioni e qui riporta più marcatamente agli istinti che scorrono oltre la perfezione malinconica dei corpi parigini.
Non stupisce che la scrittrice sia solita collaborare con artisti di varie discipline, dalla danza al cinema, dalla fotografia fino all’illustrazione, facendosi evidentemente influenzare da tutte, non solo nell’amplificazione della portata dell’oggetto del suo mondo creativo, ma anche nell’azione, agile, con cui innesta relazioni sull’iniziale fissità degli elementi in cui quell’oggetto si traduce. Ricchezza e movimento sono, pertanto, l’approccio qualitativo ideale e necessario nel processo di identificazione del suo efficace immaginario alla luce delle nostre premesse. Non meraviglia che questa sua predilezione per il caos generatore di vita, non solo nell’ispirazione, ma anche nel frutto della medesima, trovi palesemente spazio in alcuni passaggi della raccolta, come questo tratto da Voci di gole:
“Ma tanto a me piacciono le interferenze, gli intrusi, le stravaganze, mi piace quando un mondo estraneo s’intrufola nel nostro, come quei tacchi sul bordo dello strapiombo, o dei brillantini da bambina sorpresi tra le pagine di un libro difficile preso in prestito in biblioteca. Quando giro le pagine spero sempre di imbattermi in una tenera ingerenza, in un’interazione, nell’inatteso. Talvolta non serve neppure girare pagina, basta stare in ascolto”.
Passaggio fondamentale, quello appena citato, perché, oltre a rivelare la predisposizione per le soglie varcate e il mescolarsi dei flussi del sapere nell’ottica del caos a cui si è fatto cenno, riporta la nostra riflessione sull’interazione stretta tra letteratura e vita, senza cui, verosimilmente, il valore dell’atto creativo si attesterebbe intorno a criteri di un’estetica fine a sé stessa. Il passaggio successivo di una simile constatazione è la ricerca di un canone che offra l’opportunità di un discernimento e di una conseguenziale valutazione alla luce di un parametro che si muova negli spazi della connessione tra realtà e finzione, laddove la letteratura raccoglie le istanze della vita e le consacra in una forma tale da non fuggirle restituendole, al contrario, ai lettori in un’eco amplificata dalla coscienza e dall’insospettabilità di margini poetici che si credevano perduti per sempre. Il canone è prevalentemente paesaggistico, involge la natura, le acque, il mondo animale e vegetale ed è non solo elemento funzionale alla creazione di un sistema di valori, ma anche punto finale del pensiero esposto, poiché, pur nella deturpazione di cui è vittima per volere umano, resiste nel margine poetico che dona allo sguardo attento del lettore che non si ferma alla comoda rinuncia apocalittica del nostro tempo. Recita un passaggio del medesimo racconto prima citato:
“Tutto sembra così vicino adesso, adesso che lui non c’è più, tutto è così marcato che ho l’impressione di non riuscire a respirare. Tocco l’etere con la punta delle dita e lo sento che mi brucia nella gola. Vedo un piccolo nido di insetti aperto accidentalmente, loculi di eumeni tranciati nei cespugli, non ne resta che il favo inferiore, la precisione dei loro alveoli mi ferisce. Tutte le mie percezioni sono eccessi di nervi. Tutte le cose e i loro colori, suoni, materia, sono lanciati allo zenit. Inghiotto l’aria senza alcun piacere e mi sento a fior di pelle. Soffoco”.
Dunque, l’immaginario si popola di elementi provenienti dal mondo della natura non solo allo scopo di generare un parametro valutativo che sia di congiunzione tra piano esistenziale e condotto narrativo, ma anche, come in questo caso, per raccontare l’inquietudine delle nostre vite o la solitudine di quelle ai margini che invadono lo schermo visivo di un fantomatico e illuminato regista della nostra quotidianità e che il nostro occhio relega agli angoli per consentirci di ripetere, in eterno e indisturbati, atti della meccanicistica insensatezza del sistema capitalistico, incluse le risposte, da esso sapientemente sollecitate, a bisogni inesistenti. Lo denuncia l’autrice chiaramente anche in questo passaggio tratto da I bambini della Società degli asfalti:
“Eravamo poveri perché mamma non aveva bisogno di niente. Aveva bisogno soltanto di leggere e di scrivere o sognare, non voleva lavorare, lavorare le avrebbe tolto ciò di cui andava fiera, e con cui ci viziava, il tempo”.
L’attenzione per l’esterno, anche nella forma della critica sociale, non genera, però, mai uno squilibrio, poiché Emmanuelle Pagano non trascura il piano intimo della percezione, il vissuto e le specificità del singolo che, ancorandosi alla memoria di un tempo passato attraverso l’elemento paesaggistico, non cede alle celebrazioni di un certo, quasi futile, romanzo borghese. La natura sovviene a fornire il substrato collettivo al ricordo di più generazioni, di un tempo incontaminato, di una dimensione interlocutoria con il mondo animale e vegetale in grado di animare la solitaria condizione esistenziale del bambino. Ma oggi quello stato puro delle cose non esiste più e la solitudine appartiene anche agli adulti configurandosi spesso come scelta e come scelta di un’autodeterminazione ancora possibile che, paradossalmente deve muoversi fuori dalle relazioni, dalle derive manipolatorie del vivere insieme dentro a un sistema di potere che non lascia margini a un esistere che non sia coerente ad esso, salvo il rischio e la libertà di finirne fuori. Emblematico al riguardo un passaggio da Il gemito a metà pendio:
“Ripeteva che nessuno le credeva, nessuno credeva alla sua storia, era diventata talmente libera che nessuno poteva più crederle, tanto da essere diventata sola”.
La scrittrice francese traccia quasi una sorta di fierezza dell’emarginazione, della differenza, e lo fa anche attraverso una modalità di costruzione del racconto che supera il monadismo imposto dalla società e dal potere: ciò che la vita ancora non realizza, la letteratura lo anticipa, non nell’atto creativo di storie che fuggono le distorsioni del presente, ma suggerendoci, attraverso il piano della costruzione narrativa, che esiste un filo sottile che unisce le anime di chi attraversa il pianeta. Ogni racconto contiene uno o più dettagli che si raccordano a un altro o ad altri.
Il pezzo di una singola storia non è mai esclusivamente tale, ma si rivela parallelamente funzionale allo sviluppo di un’altra o di diverse altre. L’effetto finale è quello della indiretta percezione di uno stato di infinito la cui resa è garantita dalla dimensione circolare che domina conseguentemente la raccolta. Qualcosa che resiste alla facilità della visione apocalittica, che, nel degrado delle periferie, nell’alienazione dei luoghi abbandonati, nell’alterazione dell’equilibrio del pianeta, nella potente negazione del bello classicamente inteso, si affaccia alle nostre coscienze in quello spirito curioso di attraversamento di certe realtà dell’orrore con cui solo i bambini e le anime libere esplorano l’esistente.
Emmanuelle Pagano (1969). In Italia sono stati tradotti anche due suoi romanzi: Gli adolescenti trogloditi anch’esso pubblicato da L’Orma Editore e L’assenza degli uccelli acquatici (Barbès).
Lì, nello sguardo fuori dalle coordinate e dalle logiche del sistema, sorge ancora e inaspettatamente la poesia, nel punto in cui non guarda quasi nessuno. E se la natura, nella memoria di un passato di dialogo possibile con l’umano, offre il canone di un bello da rivisitare con gli occhi di chi è scarto del sistema, chi vi è dentro, quando non è un automa, si accorge di vivere solo attraverso una crepa che quasi d’improvviso si apre nell’ordinaria quotidianità fino a diventare inquietudine, un sentimento d’angoscia che passa dal corpo rivelandone il turbamento profondo.
Un attrito, un dolore, una ferita, una nevrosi. E, oltre, un desiderio che si perde nel sogno di terre incolte e boschi rigogliosi, tra gli istinti di una libertà che ostinatamente cerca un varco per accedere alle vite di chi ha incominciato a vedere, ma che, non più bambino né ancora scarto, non sa in quale forma farvela entrare senza rinnegare sé stesso. Siamo noi. Sono le nostre vite a metà.