Che i film di mafia siano ormai un genere a sé stante, pur tra mille differenziazioni, pare considerazione oramai ovvia, anche se un saggio complessivo sul fenomeno, stranamente, mancava sugli scaffali dello studioso o del semplice appassionato. O almeno ne mancava uno scritto in italiano. In inglese infatti una studiosa statunitense, Dana Renga, aveva qualche anno fa (nel 2011 e ampliato nel 2019) curato e dato alle stampe l’interessante Mafia Movies. A Reader. Ma ora, dopo almeno un decennio di studi seri e accurati, in Italia questo vuoto è stato colmato dall’imprescindibile saggio di Emiliano Morreale, La mafia immaginaria. Settant’anni di Cosa Nostra al cinema (1949-2019).
Da leggere tutto d’un fiato, se non fosse per le dimensioni, oltre 300 pagine, con un’interessante cronologia dei film italiani sulla mafia e gli utilissimi indici dei film e dei nomi. Manca però, ed è un peccato, una bibliografia ragionata. Abbondanti sono però le note a corredo dei quindici capitoli in cui è articolato il volume, più un’introduzione e un epilogo.
L’immagine di copertina è già tutto un programma. Vi campeggia infatti, con tanto di coppola, baffetto e sguardo torvo, l’Alberto Sordi del celebre Mafioso (1962) di Alberto Lattuada. Scelta non scontata ma chiarificatrice. Una delle tesi centrali del saggio è infatti la seguente: il mafia movie è molto più interessato a giocare all’interno del sistema dei media con il genere del film mafioso e non a provare a rappresentare dinamiche del fenomeno stesso, né da un punto di vista socio-economico né attraverso una lente storico-culturale. E ancora, commentando brevemente la pellicola di Lattuada: il film di mafia rispecchia molto di più il decennio in cui viene prodotto, in questo caso i formidabili anni Sessanta, che non i progressi, le evoluzioni, le involuzioni, le trasformazioni di Cosa Nostra. E allora Lattuada non pare molto interessato a cosa stia succedendo in Italia intorno al fenomeno mafioso. Il film è molto più stimolante se lo si inquadra invece nel contesto del boom economico e della migrazione interna. Verso la fine del decennio e l’inizio degli anni settanta, poi, Damiano Damiani firma Il giorno della civetta (1968) e Confessione di un commissario di polizia al procuratore della Repubblica (1971), inaugurando il fiorente filone del genere “poliziottesco” che in quel decennio, ricorda Morreale, finirà coll’intrecciarsi fino quasi a sovrapporsi al mafia movie stesso.
Nascita dell’immaginario mafioso
Si comincia comunque, secondo la prospettiva di Morreale, da In nome della legge di Pietro Germi, anno 1949.
“Il racconto di come fu ideato e realizzato In nome della legge, primo film che esplicitamente parla di mafia nel cinema italiano del dopoguerra, ha un valore esemplare, quasi metaforico. Come ha più volte raccontato, Pietro Germi scrive il film basandosi su un romanzo di un ex pretore ambientato nei prima anni venti, e solo dopo incontra fisicamente il set. Ne ha, in apparenza, un’entusiasmante conferma, anzi quasi una moltiplicazione iperbolica del pre-giudizio. La Sicilia è esattamente così come uno se la immagina; anzi, è ancor più così. La triangolazione rimarrà tipica di molto cinema italiano ambientato nell’isola”.
La tesi è dunque la seguente: la costruzione dell’immaginario mafioso segue un processo assolutamente “interno alla storia dei media”. Detto in altri termini, a determinare le scelte stilistiche e tematiche dei film italiani su Cosa Nostra sarebbero molto più importanti gli avvenimenti interni alla storia del cinema italiano che non fatti ed eventi della mafia o dell’antimafia in quanto fenomeni a tutto tondo. Questa impostazione di Morreale offre un indubbio vantaggio epistemologico al tentativo, non facile, di presa da parte dell’immaginario di un fenomeno (reale) con il quale il mafia movie, tranne poche eccezioni, sembrerebbe proprio non voler fare i conti. Allo stesso modo, con il fenomeno mafioso non hanno voluto fare i conti né il dibattito politico né quello culturale: sui media l’unico problema di rilievo sembra essere soltanto se sia etico o meno rappresentare il rapporto e lo scontro del (cosiddetto) bene contro il (cosiddetto) male.
In nome della legge di Pietro Germi, 1949.
Il racconto di Morreale si pone in maniera esplicitamente “ideologica” sul crinale molto scivoloso “tra realtà e rappresentazione” del fenomeno mafioso. Dagli anni Ottanta della serie televisiva La piovra (dal 1984, con alterni successi, fino al 2001) si passa alla fine degli anni Novanta con film molto interessanti come Tano da morire (1997) di Roberta Torre e Lo zio di Brooklyn (1995) di Daniele Ciprì e Franco Maresco. Ma nello spazio che attraversa la vicenda capitale della lotta a Cosa Nostra, il cosiddetto maxiprocesso (1986-1992), fino alle due stragi imponenti contro Giovanni Falcone e Paolo Borsellino (con Falcone morirono la moglie Francesca Morvillo e gli agenti di scorta Antonio Montinaro, Rocco Dicillo e Vito Schifani; con Borsellino, gli agenti di scorta, compresa la prima donna a far parte di una scorta a cedere in servizio, Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina); ebbene in questi anni cruciali non si ricordano film sulla mafia di particolare valore. Probabilmente il trauma del reale non poteva facilmente essere riassorbito dall’immaginario.
I primi anni Duemila vedono poi anche sotto l’impulso del progetto di Rai Cinema alcune biografie fondamentali di eroi antimafia, come I cento passi (2000) di Marco Tullio Giordana su Peppino Impastato, straordinaria figura di militante siciliano completamente dimenticato anche perché trucidato la stessa notte del ritrovamento del corpo di Aldo Moro; e Alla luce del sole (2005) di Roberto Faenza su Pino Puglisi, un parroco assassinato a Palermo, nel quartiere Brancaccio, proprio in quegli anni di vuoto rappresentativo, il 1993. Se è vero poi che fino a una certa data il mafia movie è “un capitolo nella storia dell’immagine della Sicilia, e più precisamente della ricezione degli stereotipi elaborati dalla letteratura siciliana” non ci spieghiamo però perché Morreale non abbia voluto condurre fino in fondo un’analisi comparativa con alcuni tra i più significativi prodotti audiovisivi degli ultimi anni che si occupano delle altre mafie nazionali. Pur citandoli, Morreale non si sofferma ad analizzare Galantuomini (2003) di Edoardo Winspeare, Gomorra, sia il film del 2008 di Matteo Garrone e poi la straordinaria serie TV (2014 – in produzione), che Morreale però non cita, e Anime nere (2013) di Francesco Munzi. Sarebbe stato interessante vedere dove un confronto con le non moltissime rappresentazioni sulla camorra e la ‘ndrangheta avrebbe portato l’analisi.
Il retroterra letterario
A ogni buon conto, per tornare agli “stereotipi elaborati dalla letteratura siciliana”, come ricorda Morreale, se all’origine stessa del termine “mafia” c’era la rielaborazione letteraria dell’opera teatrale I mafiusi di la Vicaria (1863) di Giuseppe Rizzotto e Gaspare Mosca, “quasi un prontuario di usi e costumi della malavita palermitana in carcere”, bisogna sempre ricordare l’archetipo degli archetipi, misto di folklore e stereotipi, ovvero la Cavalleria rusticana (1890), opera in un unico atto di Pietro Mascagni, su libretto di Giovanni Targioni-Tozzetti e Guido Menasci, tratto dalla novella omonima di Giovanni Verga. Ma attenzione, il testo cardinale per “capire” una Sicilia che non può essere redenta è Il Gattopardo (1958) di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, adattato brillantemente da Luchino Visconti nel 1963.
Nella visione dello scrittore palermitano così come in quella del regista milanese, la mafia è un fenomeno inestirpabile dalla Sicilia, e dall’Italia, ne rappresenta parte del DNA o se si vuole ne è un aspetto peculiarmente antropologico. Ovviamente la mafia è tutt’altro che un fenomeno irredimibile. Ce lo ricordava Falcone, con un aforisma diventato oramai celebre: “La mafia è un fenomeno umano e come tutti i fenomeni umani ha un principio, una sua evoluzione e avrà quindi anche una fine”. E ancora Falcone: “Se vogliamo combattere la mafia, non dobbiamo trasformarla in un mostro, dobbiamo riconoscere che ci assomiglia”. Esattamente su questo versante demitizzante si pone il lavoro di Morreale.
Quei bravi fratelli
Uno dei capitoli che brillano maggiormente nell’imponente studio è quello dedicato al cinema statunitense, “I figliocci del Padrino”. Il film di Francis Ford Coppola, del 1972, inaugura un filone che avrà le sue migliori declinazioni nei film di Martin Scorsese e Abel Ferrara. Ma se Il padrino è davvero un film “etnico” capace di raccontare lo spaccato italo-americano è altrettanto vero che la pellicola vuole raccontare l’American way of life. In particolare, poi, nel Padrino parte II (1974) vediamo il personaggio di Michael, interpretato da Al Pacino, fronteggiare una commissione governativa; poi ci spostiamo a Cuba prima della rivoluzione; le conseguenze della rivoluzione rompono le uova nel paniere dei mafiosi; ne consegue la solitudine e il declino del boss, così come gli Stati Uniti che avevano trionfato dopo la Seconda guerra mondiale devono cedere il passo ai cambiamenti degli anni sessanta. Insomma, nei film di Coppola è evidente un parallelismo tra Cosa Nostra e America.
Inoltre, come ricorda Morreale, a Coppola non interessava fare tanto un film sulla mafia, ma raccontare un “romance su un re con tre figli”, o meglio, un racconto shakespeariano sul potere, come la recente Gomorra – La serie. “È un film sul potere”, continua Coppola citato nel libro, “si sarebbe potuto trattare dei Kennedy”. E se è davvero così, il successo del film lo si deve al fatto che Coppola ha saputo centrare il suo discorso, via Mario Puzo, su uno degli aspetti fondamentali dell’identità americana, in una sorta, anche e non solo, di ritorno ai valori, o pseudo-valori, della famiglia e dell’ordine patriarcale scosso dal ’68. Vito Corleone rappresenta insomma “il sogno di un ordine perduto”, in una chiara chiave di tipo nostalgico e melodrammatico. A detta di Morreale, e concordiamo appieno, Il padrino è in grado di raccontare “fedelmente un mondo, e nello stesso tempo è una costruzione mitica”, di derivazione, aggiungiamo noi, come prima accennato, shakespeariana, o anche da tragedia greca. Il film si fa da subito, quindi, “mito e modello per molti mafiosi, in una specie di effetto rebound, e insieme riferimento imprescindibile per raccontare la mafia dall’interno”.
Nel terzo capitolo della saga coppoliana (1990) si fa ritorno a casa base. Il centro del film è infatti l’Italia e più precisamente la Sicilia. Il film ha lo straordinario merito di far cortocircuitare con efficacia tutta una serie di personaggi e istituzioni che chiaramente rimandano a politici e persone realmente esistite. Michael Corleone vorrebbe uscire dagli affari mafiosi e mettersi a lavorare con il Vaticano attraverso una società che si chiama “Immobiliare”. Eh già. La Società Generale Immobiliare era esattamente il nome dell’impresa vaticana rilevata da Michele Sindona, banchiere associato alla P2 e mandante dell’omicidio di Giorgio Ambrosoli, nel 1968 e fallita nel 1987.
Nel frattempo nel 1986, dopo la condanna all’ergastolo, Sindona si suicida in carcere con un cocktail al cianuro. Se l’unico personaggio ad essere chiamato per nome è papa Giovanni Paolo I, tra le morti eccellenti del film si riconoscono quella di Roberto Calvi, banchiere fatto trovare impiccato sotto il ponte dei Frati Neri sul Tamigi; quella di un arcivescovo troppo simile allo statunitense Paul Casimir Marcinkus, coinvolto anch’egli nello scandalo del crack del Banco Ambrosiano e salvatosi solo grazie al passaporto vaticano; quella di un fantomatico politico Licio Lucchesi, interessante crasi di Licio Gelli, fondatore della P2, e Giulio Andreotti (a cui Paolo Sorrentino ha dedicato nel 2008 Il divo, anch’esso analizzato da Morreale), di cui viene citato non a caso il motto: “Il potere logora chi non ce l’ha”. Il film ha un’escalation finale al cardiopalma con in parallelo la rappresentazione della già citata, e non è un caso ovviamente, Cavalleria rusticana di Mascagni. Altro che melodramma: “Siamo in Sicilia. È l’opera”.
Vorremmo terminare questo breve excursus sul prezioso studio di Morreale citando un altro film americano, straordinario anch’esso, pur dovendo saltare a piè pari la magnifica produzione di Scorsese. Si tratta di The Funeral (da noi tradotto con il neutrale Fratelli), capolavoro del 1996 di Abel Ferrara che si concentra sulla hybris nichilista della cultura mafiosa di cui Ferrara intuisce la sostanza lugubre, funeraria, e ancora una volta sulla dimensione nera del tragico e di un irredimibile “disagio della civiltà”. Coppola, Scorsese e Ferrara hanno insegnato molto ai recenti film italiani sulla mafia, molto di più dei precedenti film italiani stessi. E allora il buio che domina Il traditore (2019) di Marco Bellocchio ci sembra che abbia davvero un’ascendenza ferrariana. Da incubo. Buona visione.
- Autori vari, La piovra, Stagioni 1-10, Rai Cinema, 2013 (home video) .
- Marco Bellocchio, Il traditore, Rai Cinema, 2020 (home video).
- Daniele Ciprì, Franco Maresco, Lo zio di Brooklyn, Filmauro, 2011 (home video).
- Francesca Comencini, Claudio Cupellini, Stefano Sollima, Gomorra. La serie (Stagioni 1-3), 20th Century Fox, 2018 (home video).
- Francesca Comencini, Marco D’Amore, Gomorra. Stagione 4, Universal Pictures, 2019 (home video).
- Damiano Damiani Il giorno della civetta Medusa Home Entertainment, 2013 (home video).
- Damiano Damiani Confessione di un commissario di polizia al procuratore della Repubblica, Euro International Film, 1971.
- Roberto Faenza, Alla luce del sole, 20th Century Fox, 2013 (home video).
- Abel Ferrara, Fratelli, Eagle Pictures, 2004 (home video).
- Francis Ford Coppola, Il padrino (Trilogia), Paramount, 2015 (home video).
- Matteo Garrone, Gomorra, Rai Cinema, 2008 (home video).
- Pietro Germi, In nome della legge, Mustang, 2008 (home video).
- Marco Tullio Giordana, I cento passi, Rai Cinema, 2014 (home video).
- Alberto Lattuada, Mafioso, Filmauro, 2007 (home video).
- Francesco Munzi, Anime nere, Cg Entertainment, 2015 (home video).
- Roberta Torre, Tano da morire, Terminal Video, 2014 (home video).
- Luchino Visconti, Il Gattopardo, Medusa, 2018 (home video).
- Edoardo Winspeare, Galantuomini, Terminal Video, 2009 (home video).