Il disgusto per il mondo
coltivato in un epistolario

Emil Cioran
Il nulla per tutti.
Lettere ai contemporanei
A cura di Vincenzo Fiore

Mimesis/Filosofie, 2024
pp. 280, € 24,00

Emil Cioran
Il nulla per tutti.
Lettere ai contemporanei
A cura di Vincenzo Fiore

Mimesis/Filosofie, 2024
pp. 280, € 24,00


Il titolo del volume curato da uno dei massimi esperti italiani di Emil Cioran, Vincenzo Fiore, Il nulla per tutti, è tratto da questa lettera (pubblicata nel volume) che il filosofo di origine romena inviò a Colette:

“Cara Colette, come comprendo i tormenti della sua solitudine! Contemplando l’immenso silenzio di questo volto, di questo ultimo addio, penso all’abisso di solitudine in cui è sprofondata. Un’unica consolazione: il nulla per tutti, la vacuità degli istanti, il fallimento di tutto ciò che respira, l’eternità sicura di ciò che non è più. Sono complice di tutto cuore del suo abbattimento”.

Più che di fronte a lettere nel senso più banale del termine (e anche i carteggi dei cosiddetti grandi della letteratura sono spesso un’accozzaglia di cascami letterari, una noiosa pispilloria di quisquilie), siamo di fronte a veri e propri stralci di letteratura, piccoli saggi lirici da cui filtrano lo stile, la rassegnazione, l’ironia, il cafard e lo scetticismo dissacrante dell’autore romeno. Testimonianze che permettono di addentrarsi nei retroscena delle opere e della vita di Cioran. Questo viaggio attraverso la corrispondenza con alcuni dei grandi filosofi, scrittori e artisti del secolo scorso o anche con persone che sono state fondamentali nella vita del pensatore di Rășinari, rischia di generare nel lettore la stessa fascinazione che le epistole di Madame du Deffand suscitavano su Cioran stesso. Come si legge in Il nulla per tutti:

“Sono isolato e piuttosto malvisto nei circoli letterari, che detesto in assoluto. Gli scrittori non presentano alcun interesse, la conversazione di cinque minuti con una puttana vale infinitamente di più che intrattenersi con loro. Gli incontri che mi hanno segnato sono avvenuti fuori dalla letteratura”.

Di Cioran si è pubblicato molto in questi ultimi anni, forse anche troppo. Come tutti gli scrittori di moda, cioè quelli entrati a corte (malgré moi, direbbe Cioran) l’editoria, soprattutto italiana, tende a riproporre la qualunque (frattaglie di frammenti, pinzillacchere di pensieri-aborti, brani di prova-prova-prova, ecc.) di un autore pur di cavalcare l’onda del mercato. Questo non è mai il caso di Vincenzo Fiore, serio e competente conoscitore del pensiero cioraniano come si è detto. Non che le lettere in sé e per sé siano sempre documenti interessanti anche nel caso dei grandi scrittori. Ma, come nel caso già citato di Madame du Deffand, apprezzata da Cioran, l’epistolografia può essere un’altra maniera di fare filosofia, come già ci insegnano Seneca (Lettere a Luciilio) ed Epicuro, per non parlare di Epitteto. Il volume raccoglie lettere inedite inviate da Cioran a intellettuali del calibro di Samuel Beckett, Ernst Jünger, Gabriel Marcel, Carl Schmitt, Elie Wiesel, Marguerite Yourcenar, María Zambrano, o a destinatari meno noti, ma ugualmente importanti e decisivi nella sua fitta rete di contatti e di relazioni. Tra le righe di queste pagine sottratte all’oblio, ritroviamo un Cioran intenso e lirico, osservatore delle dinamiche storico-culturali del Novecento, teorico del declino dell’Occidente. Possiamo leggerne l’ammirazione verso Ernst Jünger che si oppone alla “tracotanza delle menti scientifiche” e verso Erwin Chargaff che ammira per lo stesso sforzo di tenersi lontano dall’arroganza di molti scienziati. Possiamo constatare come Cioran reagisce all’etichetta di pensatore reazionario affibbiatagli da Alain de Benoist perché la svolta storica alla quale stiamo assistendo è talmente decisiva da mandare in soffitta le vecchie categorie di destra e sinistra (sembra scritto oggi…). Alcuni stralci da queste lettere restituiscono appieno la profondità espressa in ogni riga, autentiche perle di filosofia. Ne la Lettera a uno sconosciuto, datata 10 maggio 1957, leggiamo:

“Lei sa bene quanto me che è possibile esprimere l’amore in termini negativi, e anche che di solito lo si fa per pudore. Ma c’è di più: lei sostiene che gli attacchi che ho rivolto a me stesso sono solo una forma indiretta di auto-infatuazione. Perché allora non vedere in quelli che ho rivolto al mio Paese l’espressione di un attaccamento che non si osa ammettere? L’aggressività non è mai stata segno di indifferenza o di odio. Come lei sa, sono sempre stato ossessionato dalla Romania; se fosse stato altrimenti, l’avrei denigrata così ferocemente e tristemente? Ci sono molti modi di amare, io ho scelto quello che castiga; ma punendo le mie origini e il mio popolo, punisco me stesso. Se avesse fatto un piccolo sforzo di oggettività, avrebbe intuito quanta sofferenza si nasconde dietro i miei attacchi. Ma no, ha preferito prendere la via più facile, interpretando alla lettera tutto ciò che ho detto.
Se vuole a ogni costo che io sia un mostro di egoismo, sono d’accordo, lascio a voialtri la libertà di essere dei puri e di credere di esserlo.
Con una coscienza così pulita e leggera, si possono ovviamente redigere delle accuse in tutta tranquillità. Per quanto mi riguarda, accetto di essere sgradevole ma non senza compatire un po’ il suo onore e la sua felicità. La prego di non pensare che io nutra del rancore nei suoi confronti. Capisco la sua solitudine e la compatisco tanto quanto lei compatisce me”.

Oppure in questa scritta a Ben Amí Fihman il 2 agosto 1979:

“Quando ci si porta dietro un fondo di scetticismo, dove si può trovare l’energia per combattere un male temibile? Eppure, anche solo per spavalderia, per provocazione o… per gioco, bisogna provare a combattere. E se vince questa battaglia, avrà diritto più di chiunque altro di disprezzare la vita, poiché avrà fatto sforzi inauditi per preservare il nulla che è. Bisogna vivere per potersi esercitare nell’inaudito. Il suicidio pone fine a tutto questo, è il mio unico rimprovero che le rivolgo.

E sempre a Ben Amí Fihman il 22 settembre di quell’anno:

“Come lei ben sa, un uomo è un uomo soltanto quando smette di stare bene. Di tutto quello che ho vissuto, solo i momenti in cui ho sofferto sono ancora presenti nella mia mente. Ne deduco che gli altri non mi sono serviti a nulla. Fa molto bene a tenere un diario, che sarà necessariamente un modo per vincere le sue sofferenze. A che cosa serve l’espressione? A dimostrare che non si lascia abbattere e che è al di sopra delle sue miserie. Inoltre, lei ha in più il senso del ridicolo e questo dono renderebbe tollerabile anche l’inferno. Ho sopportato il mondo e il mio orrore per il mondo, facendomi beffe sia del mondo sia dell’orrore che non ha mai mancato di ispirarmi”.

C’è un aforisma, di Werner Helwig, che entrò nel cuore di Cioran: “Non so per quanto tempo farò ancora uso di me stesso”. Nel 1989, sei anni prima di andarsene, scrisse a Vincent La Soudière

“Bisogna guardare le cose in faccia: sono vecchio, e questa è un’umiliazione costante. Niente più progetti, niente più voglia di viaggiare, più niente. È ovviamente saggezza, ma la saggezza è una riduzione e praticamente una sconfitta”.

Ecco di nuovo il niente e il tutto, il niente come tutto. L’inconveniente di essere nati non è soltanto un magnifico titolo di un libro, è anche la constatazione di un dato di fatto che ancora oggi la cultura imperante e l’educazione retorica, aiutati dalle religioni, si rifiutano di accettare.

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