Sull’aereo che dal Kenya la sta riportando a Londra, la giovane Elizabeth è una creatura spezzata: è allo stesso tempo stordita dal dolore per la morte improvvisa del padre, re Giorgio VI e annichilita dalla prospettiva di un futuro immediato, che le si presenterà appena scesa a terra, costringendola a essere altra, all’improvviso e per sempre. Scrive così, la Regina Mary nella sua lunga lettera alla nipote, annunciandole un lutto duplice e l’urgenza di una vita nuova in cui riconoscersi:
“Mentre piangi la morte di tuo padre, devi anche piangere qualcun altro, Elizabeth Mountbatten. Perché ora è stata sostituita da un’altra persona, la Regina Elizabeth. Le due Elizabeth saranno spesso in conflitto tra di loro. Il punto è che la Corona deve vincere. Deve vincere sempre”.
Nell’Introduzione di Manicomio 1914, un libro che raccoglie le lettere di Adalgisa Conti, donna dalle qualità umane e intellettive non comuni per l’Italia dei primi del Novecento, rinchiusa a soli 26 anni nel Manicomio di Arezzo e mai più dimessa, si racconta di un corpo femminile, sociale e non solo fisico, costretto da ruoli fissati rigidamente, considerati naturali e, dunque, mai messi in discussione. In questa narrazione la donna è sempre e solo l’oggetto di una funzione sociale o il soggetto di una relazione: la madre, la sorella, la moglie, la figlia di. L’essenza stessa del suo essere persona, la sua realizzazione identitaria, non è che il risultato di un intervento esterno senza il quale la donna semplicemente non esiste. La prima stagione di The Crown, ideata da Peter Morgan per Netflix, mette in scena proprio la ricostruzione dolente e affannosa di un corpo femminile, prima di tramutarsi nel corpo politico e mediale di una sovrana, guardato da tutti e da tutti giudicato, prima di essere la lente attraverso cui leggere la Storia e le storie di un regno immenso.
Un solo corpo, fisicamente minuto e dall’incedere incerto, che viene educato, progressivamente e non senza conseguenze, all’autorità, alla misura sapiente di gesti e parole, spogliato di ogni emozione comprensibile e vestito di altra routine, obbligato, come si fa con i corpi dei soldati, a un’innaturale immobilità e disciplinato a resistere stoicamente all’istinto della fuga, della ribellione, della follia.
La realizzazione identitaria di Elizabeth come sovrana è un processo di moltiplicazione e sottrazione, insieme. Moltiplicazione dei ruoli sociali che la definiscono e che guidano la narrazione; c’è, infatti, una Lilibeth figlia, sorella, c’è una Elizabeth amica, moglie, madre, ne esiste un’altra regina, che abbraccia, soffocandole, tutte le altre, relegando la loro esistenza a pochi momenti di rara normalità. Ed ecco la sottrazione. Di intimità. Di sentimenti. Di verità. È in questo proliferare confuso di funzioni e aspettative, così come nella detrazione impietosa di umori e affetti, che la donna nella sua interezza si perde senza rimedio.
“Sii una donna in carne e ossa”, le rimprovera il marito Filippo, ricordandole che esserlo vuol dire comunque essere qualcos’altro: “Una sorella. Una figlia. Una moglie”.
Nei panni del personaggio La Regina
Peter Morgan e Stephen Daldry raccontano di una metamorfosi simile a quella che avviene per i supereroi, quando Peter Parker non è ancora Spiderman, nonostante il costume e i salvataggi dell’ultimo minuto, e di come tale trasformazione si compia solo nella totale e risolutiva rinuncia dell’identità passata, con tutto il carico umano che essa porta con sé. La trasfigurazione di The Crown ha, però, una portata più drammatica e non solo, com’è ovvio, perché racconta personaggi reali, ma perché il sacrificio cui Elizabeth (interpretata da un’impeccabile Claire Foy) si piega è, prima di tutto, un sacrificio di genere, antico come la Terra. Che sia tutto, la vergine, la guerriera, l’amazzone, la strega, la madre, fuorché donna. Travestimenti che se, da un lato, tentano di dissimulare o giustificare l’ovvietà della forma, dall’altro la rafforzano. Leggenda vuole che nel 1588 a Tilbury, prima che l’esercito inglese si scontrasse con la temibile Armada Spagnola, Elizabeth I si presentò alle sue truppe su un cavallo bianco, vestita come una creatura mitologica, una “androgina vergine guerriera”, pronunciando quelle che resteranno forse le sue parole più celebri: “So di avere il corpo di una donna debole e fragile, ma ho il cuore e lo stomaco di un re e per di più di un re d’Inghilterra”.
Secoli dopo, a Buckingham Palace, Elizabeth II è seduta sulla sua poltrona accanto al camino, l’abito viola, un giro di perle al collo, le mani congiunte con i pollici a tormentarsi i dorsi, di fronte a lei il primo ministro Winston Churchill, stanco e visibilmente sofferente, convocato con urgenza in udienza privata. Non un nugolo di soldati in armi, bisognoso di essere rassicurato sulle doti di condottiera della propria sovrana, ma il leader di governo in doppiopetto, convinto dell’inadeguatezza politica della giovane regina che gli siede davanti, a cui ha volontariamente nascosto la verità sul suo stato di salute, contravvenendo al sacro patto di fiducia tra il Palazzo e il numero 10 di Downing Street.
“Sono solo una giovane donna agli esordi nel servizio pubblico e non avrei mai pensato di dover dare a un uomo molto più grande di me e che ha dato così tanto a questo Paese, una lezione”.
Quella lezione è racchiusa in un vecchio quaderno rosso, su cui dieci anni prima la piccola Lilibeth aveva annotato i principi della Costituzione, custodendo in quelle pagine tutto il sapere necessario a regnare, poiché ciò che è concesso ai sovrani si riduce a nozioni di cucito, di letteratura o di equitazione, ché “nessuno vuole un intellettuale o un docente universitario come sovrano”, tanto più se donna. Impreparata ad affrontare un mondo sull’orlo della catastrofe – la miseria del secondo dopoguerra e la corsa agli armamenti nucleari – il personaggio, per sopravvivere, si trova obbligato a ripudiare la persona, ad anteporre la funzione all’essere, per mostrarsi sufficientemente idoneo al ruolo ereditato, proprio come era successo sul campo di battaglia quattrocento anni prima:
“Winston, vi chiedo ora se la vostra salute è idonea per governare. Valutate la vostra risposta alla luce del rispetto che il mio rango e la mia istituzione meritano e non sulla base di quello che la mia età e il mio sesso suggeriscono”.
Dopo quell’incontro Churchill, rispondendole con un laconico “Voi siete pronta”, si ritirerà per sempre dalla scena politica inglese. Ogni episodio della serie riesce ad affrontare con grande onestà la frantumazione, il conflitto, l’implosione e la necessaria ricostruzione di sé, l’altalena di sentimenti e l’accettazione della perdita, rendendo la figura di Elizabeth, così lontana per status, vicinissima a noi per anima. La forza attrattiva del carattere risiede, infatti, nel genere, prima ancora che nel suo destino politico. È un racconto che, spogliato di tutti gli orpelli e il colore cui la casa Windsor negli anni ci ha abituato, non fa che mostrare quante e quali maschere una donna è costretta a indossare per giustificare a sé stessa e al mondo di esserci, quanto coraggio e abnegazione le serve per non vacillare di fronte a scelte che hanno l’insopportabile peso di un salomonico dilemma.
Quando nel 1936 Edoardo VIII sceglie di abdicare al trono per sposare l’americana Wallis Simpson, borghese e divorziata due volte, ad Alberto, timido, remissivo e di salute cagionevole, viene imposto, suo malgrado, di indossare la corona da re, con il nome di Giorgio VI. L’egoismo di Edoardo, la sua condotta libera, ma sconsiderata, segna la fine di ogni futuro rapporto con il fratello e semina all’interno della famiglia un livore che non svanirà mai. Per questo, il nuovo monarca fa giurare alle sue figlie, l’esuberante Margaret e la coscienziosa Lilibeth, di non permettere che nulla e nessuno spezzi la loro sorellanza. La realtà dei fatti sarà, però, ben diversa, perché un voto è un voto solo quando non c’è una regina di mezzo. Così, come se qualcuno avesse riavvolto il nastro della storia, un altro amore appassionatissimo e sconveniente viene a minare la solidità dell’istituzione e la sacralità del sangue.
Scontro frontale tra i poteri forti
Elizabeth prova a mantenere fede alla promessa fatta, sostenendo, contro il Parlamento e contro la Chiesa, il matrimonio della sorella con il colonnello Peter Townsend, più grande di lei e divorziato. È una battaglia estenuante tra due forze impareggiabili, la sua famiglia, da una parte, e il potere che lei stessa incarna e rappresenta, dall’altro. È uno scontro schizofrenico che miete molte vittime, ma che lascia sul campo un solo cadavere dilaniato, quello della bambina che aveva dato la sua parola di figlia e di sorella e che non era riuscita a mantenerla, fallendo nel ruolo e tradendo, così anche sé stessa. Alla nonna che, prima di morire, le aveva ricordato il suo dovere regale: “Non fare niente è il lavoro più duro, poiché essere imparziali non è naturale, non è umano. La gente vorrà sempre che tu sorrida, annuisca o disapprovi. E nel momento in cui lo fai, avrai preso una posizione. E quella è l’unica cosa che come sovrano non sei autorizzata a fare”, lei aveva risposto: “Questo può andare bene per la Sovrana, ma cosa dovrò fare io?”, con tutta l’angoscia e l’apprensione per una metamorfosi che dovrà essere in grado di sopportare e sostenere nel tempo, qualunque cosa accada. Confusa e insoddisfatta dell’immagine che gli occhi degli altri le rimandano, Elizabeth si rivolge all’unica persona in grado di comprendere davvero ciò che prova, la stessa che l’ha condannata a un’esistenza di silenzio e regole prestabilite, lo zio Edoardo:
“Sei una strana creatura ibrida, come una sfinge o Gamajun. Come io sono Ganesha o il Minotauro. Siamo persone a metà. Strappate via da qualche bizzarra mitologia, i due lati dentro di noi, l’uomo e la corona, impegnati in una feroce guerra civile che non ha mai fine. E che segna ogni azione umana come fratello, marito, sorella, moglie, madre. Comprendo la tua agonia e sono qui per dirti che non ti lascerà mai […] L’unica differenza con me è che tu hai un regno e devi proteggerlo!”.
Margaret non sposò mai il suo Peter. Non tutte le principesse riescono a sposare il loro principe azzurro. Eppure Elizabeth lo aveva fatto. Aveva sposato, dopo un fitto scambio epistolare, l’uomo dei suoi sogni, il principe Filippo di Grecia e Danimarca, e ciò nonostante una diffusa antipatia per questo ufficiale della marina, ortodosso e inglese solo a metà. Un matrimonio felice, normale, prima di trasformarsi nel laccio che deve tener salda l’intera Monarchia. È probabilmente l’aspetto della narrazione più affascinante e meglio raccontato nella serie, quello in cui Elizabeth ha il ruolo di moglie, poiché a renderlo tale è la sua straordinaria controparte maschile. Più lei è modesta, risoluta, lucida, più lui è borioso, impaziente, irascibile. “Il mio lavoro è la marina, non sorridere come una scimmia demente, mentre tu tagli i nastri” aveva detto alla moglie. Per questo, durante una battuta di caccia, re Giorgio lo aveva ammonito: “I titoli e la nobiltà non sono il tuo lavoro. È lei il tuo lavoro. Il tuo dovere è amarla, proteggerla. Potrebbe non esistere un atto più grande di patriottismo o amore”. Potrebbe non esistere, certo, ma inginocchiarsi di fronte alla propria moglie non è impresa facile da accettare.
Sono le donne, di solito per consuetudine della storia, a stare un passo indietro, a muoversi nell’ombra, ad arrivare dopo, quando c’è da intrattenere o distrarre. E per un matrimonio che non ha mai contemplato il divorzio, questo scambio di parti diventa subito una terribile prigionia. Si è reggenti sempre, coniugi ogni tanto. E ogni tanto c’è il rancore, l’insoddisfazione e la gelosia. La macchina da presa si muove verso Elizabeth fino a incollarsi sulla faccia – è il nono episodio della serie – Filippo, appoggiato ai piedi del letto, le ha appena rinfacciato l’intimità di una sua vecchia amicizia, quella con Henry Herbert, responsabile delle scuderie. In quella scena, l’uno è il riflesso rovesciato dell’altra. Se il corpo della sovrana è rigido come se stessimo guardando un dipinto, quello del principe è quasi accasciato, abbandonato, molle. Ma sono le parole, più di ogni altro indizio, a rivelare un differente battito, un’altra pelle:
“Non ho niente da nasconderti. Niente. ‘Porchy’ è un amico. E sì, alcuni avrebbero preferito che sposassi lui. In effetti, il matrimonio con lui sarebbe stato più facile. Forse avrebbe perfino funzionato meglio del nostro. Ma con rammarico e frustrazione di tutti, l’unico che abbia mai amato sei tu. Puoi guardarmi sinceramente negli occhi e dire lo stesso? Puoi?”.
In quel momento di totale verità Elizabeth appare per quello che è: una donna affrancata dal dovere e slegata da qualsivoglia aspettativa. Non durerà. La camera è di nuovo su di lei. Filippo è volato in Australia senza salutarla. Il Paese ha conosciuto un nuovo nemico e una nuova crisi, quella di Suez. Il fotografo le chiede di non muoversi.
“Non si muove. Non respira. La nostra Dea assoluta. La nostra Gloriana. Ora dimenticatevi Elizabeth Windsor. Esiste Elizabeth The Queen”.
Letture
- Federico Boni, Il corpo mediale del leader. Rituali del potere e sacralità del corpo nell’epoca della comunicazione globale, Meltemi, Roma, 2002.
- Elena Favilli, Francesca Cavolo, Storie della buona notte per bambine ribelli, Mondadori, Milano, 2017.
- Luciano Della Mea (a cura di), Adalgisa Conti, Manicomio 1914. Gentilissimo Sig. Dottore, Questa è la mia vita, Mazzotta, Milano, 1978.
Visioni
- Stephen Frears, The Queen, Granada Productions, Pathé Renn Productions, BIM Distribuzione, France 3 Cinéma, Canal+, 2006.
- Shekhar Kapur, Elizabeth, PolyGram Filmed Entertainment, Working Title Films, 1998.