Per i cento anni dalla pubblicazione de La terra desolata (The Waste Land) di Thomas Stearns Eliot, Interno Poesia ripropone, con curatela di Rossella Pretto, la traduzione dell’anglista Elio Chinol, che uscì in cinquecento copie nel 1972 per i tipi di Loperfido Editore di Ravenna, con undici disegni di Ernesto Treccani, in occasione del cinquantenario dalla stampa di The Waste Land sulla rivista americana The Dial e, quasi contemporaneamente, su Criterion, fondata da Eliot e da lui diretta per quasi vent’anni.
Nel Ricordo di T.S. Eliot, Elio Chinol racconta che nel 1948 Eugenio Montale gli aveva dato una lettera di presentazione col suggerimento di spedirla a Eliot per chiedergli un incontro. Chinol lo fece e dopo circa dieci giorni ricevette una risposta dalla segretaria che gli fissava, a nome del poeta, un appuntamento alla Faber and Faber, la casa editrice di cui era direttore editoriale. Ricorda Chinol:
“Quando io lo conobbi, nell’estate del 1948, aveva già quasi sessant’anni. Molto alto, magro, il viso affilato, urbano e discreto nei modi, estremamente gentile e persino un po’ cerimonioso, aveva una certa gravità professorale e quasi un’aria da pastore protestante (non per nulla Pound l’ha chiamato «il Reverendo T.S. Eliot»). Anche nel parlare era misurato e discreto”.
Nel periodo in cui lavora su La terra desolata, Eliot vanta già un buon curriculum poetico: nel 1917 aveva pubblicato Prufrock and other observations; nel 1920 escono i Poems, che si aprono con Gerontion, che Eliot voleva riprendere come inizio de La terra desolata. Ezra Pound, il “miglior fabbro” (Dante, Purg. XXVI, 117), come recita una delle due epigrafi del poemetto, primo mentore di T.S. Eliot, lo dissuase. Ricordiamo che Pound disboscò la versione originaria del testo, che era assai più lunga dell’attuale, tagliandone interi passaggi narrativi ritenuti non essenziali. Inoltre, nel 1921 erano anche usciti i saggi de Il bosco sacro (The Sacred Wood). Possiamo, quindi, considerare La terra desolata come il culmine poetico-stilistico di una prima fase eliotiana, precedente alla sua adesione (1927) alla Chiesa anglicana.
Thomas Stearns Eliot (St Louis-Missouri 1888 – Londra 1965). Immagine realizzata da Hopfield.
Fra il 1920 e il 1921, Eliot si trovava in uno dei periodi più difficili della sua vita, afflitto dal doppio stress nervoso causato dai continui e irreversibili problemi di salute della prima moglie, cui si aggiungeva la frustrazione della sua routine di impiegato di banca, inconciliabile con le aspirazioni letterarie e i suoi impegni di conferenziere. Durante un periodo di cura, a Losanna, scrisse La terra desolata utilizzando spunti e poesie di più vecchia data. Il suo soggiorno svizzero traspare anche da questo verso del poemetto: “Presso le acque del Lemano mi sedetti e piansi”, allusione al Salmo 137 che ricorda l’esilio degli Ebrei a Babilonia.
Il simbolismo del Graal
In una delle note esegetiche redatte dallo stesso Eliot per l’edizione Boni & Liveright di New York, l’editio princeps uscita nel 1922, e ripubblicate in tutte le edizioni successive, l’autore riconduce il simbolismo di base di The Waste Land a un libro di Jessie L. Weston, From Ritual to Romance sulla leggenda del Graal, uscito nel 1920:
“Non solo il titolo, ma il disegno e gran parte dell’incidentale simbolismo del poema furono suggeriti dal libro di Miss Jessie L. Weston From Ritual to Romance (Cambridge) sulla leggenda del Graal. In verità, così profondo è il mio debito che il libro di Miss Weston potrà chiarire le difficoltà del poema molto meglio di quanto possono fare le mie note; […] Ho un debito di carattere generale anche verso un’altra opera di antropologia, un’opera che ha influenzato profondamente la nostra generazione; intendo dire The Golden Bough; mi sono servito particolarmente dei due volumi Adonis, Attis, Osiris. Chiunque abbia una certa familiarità con queste opere riconoscerà immediatamente nel poema certi riferimenti ai riti della vegetazione”.
Con The Golden Bough, Eliot allude a Il ramo d’oro di James G. Frazer, uno dei libri più stimolanti del Novecento nell’ambito degli studi antropologici e mitologici. Il simbolismo del Graal, che la Weston considerava fortemente intrecciato al ciclo arturiano, sostanzia il fondamento tematico di una composizione che non presenta, in apparenza, una linearità narrativa: “Con questi frammenti ho puntellato le mie rovine”, si legge in uno dei più famosi versi conclusivi del poemetto.
“La terra desolata è la terra invernale, che sembra chiudere definitivamente il ciclo della vita e che deve essere esorcizzata ritualmente perché torni la primavera arrecando la fioritura delle messi. La metafora offre un paradigma naturalistico-simbolico, e antropologico, che può essere riempito dalle più varie occorrenze storiche. Ogni epoca è diversa, ma tutte le epoche «si tengono» dentro un medesimo schema, di morte e rinascita, aridità e pioggia, radici secche e verdi foglie. Così la terra desolata ingloba l’inferno dantesco come l’alienata città baudelairiana, il deserto biblico come la terra devastata del Re Pescatore della leggenda del Graal, il gelido squallore invernale come l’arsura estiva”
(Serpieri, in Eliot 2021a).
Il vero centro della leggenda era il re del Graal, o Re Pescatore, legato alla figura precristiana del dio dei riti della vegetazione, simbolo di natura riproduttiva, sacrificato (sotterrato, affogato) per essere poi fatto risorgere simbolicamente (dissotterrato, ripescato dalle acque) come pegno della rinascita della vita sulla terra. Gli dei adorati dalle civiltà del bacino orientale del Mediterraneo (Tammuz, Osiride, Adone, Attis) erano strettamente collegati ai culti della fertilità. Il Re Pescatore ne costituisce la versione medievale.
Dal Tamigi al Gange
La terra desolata si divide in cinque parti: La sepoltura dei morti, Una partita a scacchi, Il sermone del fuoco, Morte per acqua, Ciò che disse il tuono.
“Mentre attraversiamo le cinque sezioni del poemetto, incontriamo le voci dell’aristocratica Marie, di Madame Sosostris, e del profeta Ezechiele, la donna dei giacinti, la donna middle class coi nervi a pezzi e quella perfida della working class, il pendolare-veterano della City di Londra, Tiresia, le figlie del Tamigi e Arnaut Daniel. Ai loro discorsi si uniscono gli echi delle Sacre Scritture, di Agostino giunto a Cartagine, la voce di un sermone buddista e l’annuncio di chiusura di un pub, i versi di Marvell e Verlaine, le battute dei personaggi di Webster e di Hieronimo diventato pazzo di nuovo, i canti di Wagner e di Ariel nella Tempesta shakespeariana, senza dimenticare i versi dell’usignolo, del tordo, del gallo. A questa pluralità di voci che sfumano l’una nell’altra, si aggiunge la pluralità linguistica, che raggiunge l’apice negli ultimi otto versi del poemetto. Qui Eliot condensa cinque-(sei) lingue diverse -l’inglese di una nursery rhyme, il volgare fiorentino di Dante, il latino di un carme erotico di età imperiale, il francese di un sonetto (dal titolo spagnolo) del simbolista Gérard de Nerval, e infine il sanscrito delle Upanishad -che riepilogano la cartografia della terra devastata, un territorio che coincide con lo scenario del primo conflitto mondiale e poi si allarga a est, fino a giungere in Asia”
(Gallo, in Eliot 2021b).
Il poemetto si chiude infatti con la parola sanscrita “shantih” (shantish nella versione di Chinol) ripetuta tre volte, che lo stesso Eliot traduce con “pace che sorpassa ogni intelligenza”. Ma anche l’incipit de La terra desolata è di quelli memorabili:
“Aprile è il mese più crudele: genera
Lillà dalla terra morta, mescola
Ricordi e desideri, scuote
Le radici assopite con la pioggia primaverile.
L’inverno ci tenne caldi, coprendo
La terra di neve obliosa, alimentando
Un filo di vita con tuberi secchi.
L’estate ci sorprese riversandosi sullo Starnbergersee
Con uno scroscio di pioggia; ci fermammo al Hofgarten,
E bevemmo caffè e chiacchierammo per un’ora”.
“Aprile è il mese più crudele” è un’inversione paradossale dello schema simbolico e letterario tradizionale, dove la primavera è il momento della gioia e della festa per la rinascita della vita. In questi primi versi compare il primo dei non pochi toponimi, lo Starnbergersee, il lago presso Monaco di Baviera, nel quale si era affogato nel 1886 il re folle Ludovico II, amico di Richard Wagner e fondatore del teatro di Bayreuth. Il lago introduce il tema simbolico della morte per acqua e si collega alle citazioni dal Tristano e Isotta presenti nel poemetto (cfr. I, 31-34, 42). Il ritorno della primavera è qui espresso e simboleggiato da un Aprile inquietante: mescolando “memorie” di un tempo mitico di pienezza di valori, e “desideri” (della rinascita della carne e dello spirito), la primavera turba il decorso ordinato e quieto della morte latente, dei morti-in-vita, di coloro che il poeta descrive più avanti sul London Bridge:
Città irreale,
Sotto l’oscura nebbia di un’alba invernale
Una folla passava sul ponte di Londra, ed erano tanti
Ch’io non credevo morte n’avesse disfatto tanti.
Esalavano sospiri brevi e radi
E tutti tenevano gli occhi a terra fissi.
Salivano sull’altura e scendevano lungo King William Street,
Fin dove Saint Mary Woolnoth batteva le ore
Con un suono sordo sull’ultimo tocco delle nove.
Lì vidi uno che conoscevo, e lo fermai gridando: “Stetson!
Tu che fosti con me sulle navi di Milazzo!
Quel cadavere che piantasti nel tuo giardino l’anno scorso,
Ha cominciato a germogliare? Fiorirà quest’anno?
O il gelo improvviso ne ha danneggiato l’aiola?
Oh, tieni lontano il Cane, che è amico dell’uomo,
O lo dissotterrerà con le sue unghie!
Tu! Hypocrite lecteur! -mon semblable, – mon frère!”.
Questo è il brano finale della prima parte (La sepoltura dei morti), paradigmatico della tecnica compositiva alla base del poemetto. Non sfuggano i riferimenti danteschi nell’immagine della folla d’impiegati che scorre sul London Bridge (ed erano tanti / Ch’io non credevo morte n’avesse disfatto tanti): “e dietro le venìa sì lunga tratta/di gente ch’io non avrei creduto/che morte tanta n’avesse disfatta” (Inferno III 55-57). L’incontro paradossale con un tale di nome Stetson, compagno a Milazzo (Mylae) nel 260 a.C. nella battaglia tra romani e cartaginesi, è un pretesto per introdurre il tema del mercante fenicio, Phlebas the Phoenician (Morte per acqua, parte IV del poemetto, la più breve); non meno paradossale è il cadavere seppellito nel giardino, indiretto riferimento ai riti della fertilità con l’inumazione simbolica dell’effige del dio. Il verso “Tu! Hypocrite lecteur! -mon semblable, – mon frère!” viene direttamente dalla poesia d’apertura (Al lettore) de I fiori del male di Charles Baudelaire. Riprendendo le osservazioni della curatrice, Rossella Pretto:
“potremmo anche affermare che non sia casuale assistere, nel 1922, a una sedimentazione nell’immaginario della figura dello zombie, il morto vivente, colui che conserva, cioè, caratteristiche di entrambe le condizioni. In quell’anno, a marzo viene proiettato il film Nosferatu di Wilhelm Murnau, a ottobre esce The Waste Land e a novembre viene scoperta la tomba di Tutankhamon. Coincidenze, eppure in qualche modo significative. Il 1922 è però anche il giro di boa della letteratura modernista dal momento che proprio in quell’anno vengono pubblicati alcuni dei suoi capolavori. Tra questi, l’Ulisse di James Joyce e La camera di Jacob di Virginia Woolf, oltre ovviamente a The Waste Land, considerata un’opera di rottura che non smette di spargere semi che ancora oggi germogliano. Ci parla da vicino, quella terra, è desolata e la capiamo, è come la nostra e mette in scena il tracollo di un’intera generazione – anche se poi Eliot ebbe modo di dire che aveva un senso per lui solo, come gesto curativo, «il sollievo di una personale e del tutto insignificante lagnanza contro la vita», disse in una conferenza ad Harvard”.
La Sibilla e Tiresia
La prima delle due epigrafi che introducono La terra desolata rimanda a un episodio del Satyricon di Petronio, e ha come protagonista la Sibilla cumana; ma non la Sibilla maestosa e temibile che conosciamo tramite Virgilio nell’Eneide (libro VI), bensì una Sibilla bonsai, ridotta a miniatura in un’ampolla. Riportiamo l’epigrafe in traduzione:
“Del resto la Sibilla, a Cuma, l’ho vista anch’io coi miei occhi penzolare dentro un’ampolla, e quando i fanciulli le chiedevano: «Sibilla, che vuoi?», lei rispondeva: «Voglio morire»”
(Petronio, 1999).
La Sibilla è decrepita, avendo ottenuto da Apollo il dono dell’immortalità, ma non dell’eterna giovinezza, e desidera solo morire. Il tradizionale antro in cui vive e vaticina nei poemi classici si riduce a un’ampolla. È la degradazione ironica, paradossale, dei grandi miti alla meschinità del presente, dell’attualità: anticipa le figure di Madame Sosostris, la cartomante, e del vate antico Tiresia che nel III movimento (Il sermone del fuoco) si presenta così:
“Io, Tiresia, benché cieco, palpitante fra due vite,
Vecchio dal grinzoso seno di donna, vedo
Nell’ora violetta, l’ora serotina che s’affatica
Al ritorno, e riconduce a casa il marinaio dal mare,
La dattilografa a casa all’ora del tè: sparecchia la colazione del mattino,
Accende la stufa e prepara sul tavolo cibi in scatola”.
Il “grinzoso seno di donna” del Tiresia eliotiano allude a una vicenda narrata da Ovidio nelle Metamorfosi (III, 320-338). Eliot ne cita il testo in latino in una delle sue più lunghe note, e definisce Tiresia la figura più importante del poemetto, che conferisce unità a tutte le altre parti. L’indovino Tiresia fu trasformato in donna perché aveva osato disgiungere l’accoppiamento di due serpenti. Rimase femmina per sette anni, prima di tornare al genere maschile, ma l’esperienza di entrambe i sessi gli conferisce l’autorità per rispondere a un quesito sul quale Giove e Giunone si erano messi a litigare: sul piano del godimento sessuale è più fortunato l’uomo o la donna? La donna, rispose Tiresia, attirandosi le ire di Giunone, sostenitrice della tesi opposta, la quale lo punisce con la cecità. Giove lo ricompensa di questa grave menomazione con il dono della preveggenza. Ma ne La terra desolata
“L’indovino è destituito della sua funzione, arcana e sacra, perché l’unico futuro, diverso, che può prevedere, e che gli è negato dal suo destino mitico, è la morte: come per la Sibilla dell’epigrafe. L’unica vera alternativa alla veggenza sconsolata di Tiresia è la metafisica: è il messaggio di Budda e Agostino, alla fine di questa parte, e di Cristo nella Parte V”.
(Serpieri, in Eliot, 2021a).
L’altra versione moderna e degradata della Sibilla e di Tiresia è la cartomante, Madame Sosostris, la celebre chiaroveggente che legge il futuro tramite i tarocchi, nella prima parte, La sepoltura dei morti:
“Madame Sosostris, la famosa indovina,
Aveva un forte raffreddore, tuttavia
È nota come la più saggia donna d’Europa
Col suo diabolico mazzo di carte. Ecco qui, disse,
La vostra carta, il Marinaio Fenicio annegato,
(Sono perle ora i suoi occhi. Guardate!)
Ed ecco Belladonna, la Signora delle Rocce,
La Signora delle situazioni.
Ecco l’uomo con le tre aste, ed ecco la Ruota,
Ecco il mercante monocolo, e questa carta,
Che è bianca, sta per qualcosa che porta sulla schiena,
E m’è vietato di vedere. Non trovo
l’Impiccato. Guardatevi dalla morte per acqua”.
Ecco la nota di Eliot in merito a questo passaggio:
“L’Impiccato, che appartiene al mazzo tradizionale, si adatta al mio scopo in due modi: perché lo associo nella mia mente al Dio impiccato di Frazer, e perché lo associo alla figura incappucciata nel passo dei discepoli che vanno a Emmaus nella parte V. Il Marinaio Fenicio e il Mercante appaiono più avanti; anche le ‘folle di gente’, e la Morte per Acqua si compie nella Parte IV. L’Uomo dalle Tre Aste (che appartiene effettivamente al mazzo di Tarocchi) lo associo, del tutto arbitrariamente, allo stesso Re Pescatore”.
Madame Sosostris non trova la carta dell’Impiccato che nei riti di vegetazione rappresentava il dio sacrificale e redentore. La mancanza di questo simbolo di rigenerazione prepara il monito “Guardatevi dalla morte per acqua”.
“Il miglior fabbro”
La seconda epigrafe de La terra desolata recita: “Per Ezra Pound, il miglior fabbro” e associa alla figura influente – in generale e per Eliot in particolare – del poeta americano dei Cantos, il ricordo di un celebre verso dantesco del Purgatorio, nel quale si rievoca la maestria del poeta provenzale Arnault Daniel (Arnaldo Daniello), indicato dall’anima di Guido Guinizzelli a Dante stesso:
“«O frate»” disse «questi ch’io ti cerno
col dito», e additò un spirto innanzi,
«fu miglior fabbro del parlar materno […]”
(Purg. XXVI, 115—117).
La citazione è un tributo da parte di Eliot non solo a Dante Alighieri, ma anche al magistero tecnico di Ezra Pound, che lesse il poemetto e intervenne con tagli e correzioni portandolo alla forma e alla lunghezza che noi conosciamo. Alla fine de La terra desolata ritorna il canto XXVI del Purgatorio, con la citazione del verso “Poi s’ascose nel foco che gli affina” ripreso testualmente (con la differenza di “gli” per il più corretto “li”) da Purgatorio XXVI, 148. Il riferimento dantesco è sempre ad Arnault Daniel, che, prima di scomparire nel fuoco purificatore della lussuria, rivolge una preghiera in provenzale a Dante:
“Ieu sui Arnaut, que plor e vau cantan;
Consiros vei la passada folor,
E vei jausen lo joi qu’esper, denan.
Ara vos prec, per aquella valor
Que vos guida al som de l’escalina,
Sovenha vos a temps de ma dolor!”
(Purg. XXVI, 142-147)
Ovvero: “Io sono Arnaldo, che piango e vado cantando (l’inno Summae Deus Clementiae); pensoso vedo la passata follia e vedo giubilante la gioia che spero nel futuro. Ora vi prego (Ara vos prec) per quel valore che vi guida al sommo della scala, ricordatevi del tempo del mio dolore”. Il verso dantesco “Poi s’ascose nel foco che li affina” è il primo di una serie di citazioni e frammenti che chiudono La terra desolata:
“Poi s’ascose nel foco che gli affina
Quando fiam uti chelidon – O rondine, rondine
Le Prince d’Aquitaine à la tour abolie
Con questi frammenti ho puntellato le mie rovine
Bene, allora vi sistemerò io. Gerolamo è pazzo di nuovo.
Datta. Dayadhvam. Damyata.
Shantish shantish shantish”.
Potrebbero essere le parole di una nuova glossolalia contemporanea, lo specchio verbale, apparentemente spezzato, di un destino dell’umanità. Hanno il fascino di un messaggio in codice. Riassumono i termini essenziali di una crisi personale, storica e culturale, ma anche una possibile rinascita. In questo senso, La terra desolata è l’antitesi de La Sagra della primavera di Igor Stravinskij dove la musica trasmette l’esplosione della vita, dei colori, la rinascita della Terra, un risveglio fauve, sensuale. Qui, invece, ne La terra desolata, cioè sterile, abbandonata da Dio, dall’amore, dal sesso, dalla salute, “Presso le acque del Lemano mi sedetti e piansi…”
La terra desolata esercita tuttora il suo fascino, anche nella musica pop-rock, a partire per esempio dal più eliotiano dei dischi dei Genesis, Selling England by The Pound (1973). Nel suo Knights of the Green Shield Stamp, Giovanni De Liso apre il capitolo dedicato a questo album con un brano de La terra desolata, quello dal Sermone del fuoco (III, 222-227) nel quale si descrive la dattilografa che sparecchia la colazione del mattino e prepara sul tavolo cibi in scatola (De Liso, 2009). Nel brano The Cinema Show, oltre alla dattilografa, ridenominata ironicamente Juliet, c’è anche Tiresia che rievoca le sue peripezie e trasformazioni. The Cinema Show si conclude sfumando e confluendo direttamente in un altro brano (The Aisle of Plenty) ambientato in un supermercato: da Romeo e Giulietta e Tiresia alle promozioni di Tesco! Nel brano Dancing with the Moonlit Knight i Cavalieri dagli scudi verdi (“Knights of the Green Shield stamp…”) alludono sia al Graal e a Re Artù sia ai bollini premio che allora l’industria dei supermercati cominciava a distribuire per incentivare gli acquisti. Tutto questo è molto eliotiano.
- Genesis, Selling England by The Pound, Universal Music, 2009.
- Dante Alighieri, La Divina Commedia, a cura di Roberto Mercuri, Einaudi, Torino, 2021.
- Giovanni De Liso, Genesis. Once upon a time. Testi commentati (1969-1974), Arcana edizioni, Roma, 2009.
- T. S. Eliot, La terra desolata, a cura di Alessandro Serpieri, Rizzoli-Bur, Milano, 2021a.
- T. S. Eliot, La terra devastata, a cura di Carmen Gallo, il Saggiatore, Milano, 2021b.
- James George Frazer, Il ramo d’oro, Bollati Boringhieri, Torino, 2012.
- Ovidio, Metamorfosi, Einaudi, Torino, 2015.
- Petronio, Satyricon, Bur, Milano, 1999.
- Jessie Weston, From Ritual to Romance, Princeton University, 1993.