C’è qualcosa nella ripetizione, nel ritornello, che somiglia a un invito. Neanche uno troppo gentile o accomodante, ma dall’aria piuttosto di un impaziente strattone al braccio che un personaggio ansioso o fiducioso ci assesta, indicando la via che dobbiamo percorrere e che sarà bene percorrere con una certa fretta. Poi, scegliere di ripetere è un atto ancora più espressivo, quasi una spinta, un’indicazione perentoria. È così che Grazia Marchianò, prima di lasciarci silenziosamente in un aprile, questo, al contrario molto rumoroso, ci spinge a metterci in marcia. Studiosa di orientalistica, monaca buddhista, autrice florida, nonché compagna in vita di Elémire Zolla e maggiore curatrice dei suoi testi, ella decide di introdurre il primo romanzo di uno Zolla appena trentenne estraendovi una citazione. Ma non una dell’autore; è Marcel Proust che parla, e che si ritrova così ad aprire sia la seconda parte (lo vuole Zolla) di Minuetto all’inferno, sia l’introduzione di quest’ultimo (lo vuole Marchianò). È il Proust giovane, qualcuno dice acerbo, dell’incompiuto Jean Santeuil. L’acerbità è una caratteristica ambivalente: essa è tanto manifesta al gusto quanto ambigua alla vista o al tatto. Ciò che risulta spiacevole alla lingua, un frutto ancora immaturo, all’occhio può apparire al contrario piacevole, i suoi colori sgargianti, la sua consistenza compatta nel palmo della mano. Un frutto acerbo è un’opera sospesa in una bellezza specifica e relativa; per Zolla, la penna di Proust genera lo sgargiante e il compatto – e Marchianò non può che ritrovarsi lì, su quel ritornello:
“In quanto al regno dello spirito, egli lo immaginava come sovrapposto alla terra, ma senza che della terra vi penetrasse mai nulla, eccetto i profumi, la pietà, la corruzione, la malinconia e i gatti.”
La ripubblicazione a opera di Cliquot Edizioni di Minuetto all’inferno, primo dei due romanzi di Zolla, porta con sé allora un valore tutto particolare, un piccolo surplus al testo, o il testo che si esprime nella penna di qualcun altro. La storia di Minuetto, soprattutto negli anni che vanno dalla sua stesura (1951-52) alla sua pubblicazione da parte di Einaudi, rappresenta bene la particolarità dell’opera. A discutere del romanzo di uno Zolla giovane, quello che poi diventerà uno dei saggisti, esoteristi, e storici delle religioni più rilevanti del Novecento internazionale, si possono annoverare figure come Italo Calvino, Beppe Fenoglio, Elio Vittorini e Carlo Fruttero – tutti raccolti attorno alla perplessità riguardo il valore del romanzo, alla sua contestualità nel dopoguerra italiano, e al suo, dicevano, possibile anacronismo. Vittorini stesso (ricordiamo, curatore editoriale severo e categorico), pur avallandone la pubblicazione per Einaudi, rimarrà interdetto nel valutare la collocazione storica ed editoriale di Minuetto. Per Cliquot, quella di Marchianò è l’ultima curatela che ella potrà dedicare al compagno. Ed è una curatela che sa di che peso si carica, nel riaccogliere un romanzo dai contorni imperscrutabili e reintrodurlo nel contesto storico odierno – una società ad alta entropia, in cui i riferimenti si slacciano, e la cultura si distanzia dalla tradizione. Per questo diventa molto rilevante la scelta di sottolineare il ritornello come punto di congiunzione ulteriore fra Proust, Zolla, e la contemporaneità – un punto da cui si genera un piano a tre vertici. Ripetuto il passaggio di Jean Santeuil, esso si arricchisce di una nuova rilevanza. Aggiungiamo un quarto punto: Claude Lévi-Strauss.
Lévi-Strauss, o sull’operare
Un anno prima che Minuetto all’Inferno venga pubblicato da Einaudi, lo storico editore parigino Libraire Plon dà alle stampe Tristes Tropiques, un’opera dal taglio autobiografico e filosofico che Lévi-Strauss sente, riluttante, di dover scrivere dopo quindici anni di tentennamenti. In questo particolare diario di viaggio, l’antropologo si concederà di osservare e riflettere con libertà assoluta sullo stato della sua disciplina, ma allo stesso tempo sulla condizione dell’uomo, della sua frammentazione socio-culturale da intendersi come ricchezza, e della sua posizione nel cosmo da intendersi come minacciata da una necessità ineluttabile. È il libro più ateo del Novecento, dirà Emmanuel Lévinas; seppure possiamo immaginare che ogni agglomerato sociale umano abbia ben dimostrato di poter sviluppare la propria vita autonomamente, senza che l’uomo moderno occidentale possa fregiarsi di una particolare autorità o sofisticata intelligenza rispetto alle altre culture – proprio dopo le due guerre mondiali, dopo l’olocausto… –, e seppure quindi l’antropologia si ritrovi a maneggiare la diversità umana come espressione di un gran creare, produrre, fare, connettere, disintegrare, forse è bene soffermarsi su ciò che la fisica ci indica: non siamo che macchine che consumano energia, acceleratori entropici, dissipiamo costantemente e violentemente la materia del cosmo.
L’umana diversità, certo, è una ricchezza che abbiamo da osservare e curare, e guai a chi mai creda di poter ridurre questa diversità all’errore e alla verità, a chi sbaglia e non capisce e a chi capisce e comprende. A ridurre ci pensa il cosmo; non antropologia, ma entropologia, lo studio delle modalità attraverso cui l’uomo accelera il raggiungimento dell’equilibrio termodinamico attraverso le belle pitture e le grandi città, i pranzi frugali e le testate nucleari, poi le paure e le gioie e i viaggi al mare. Studiamo pure tutto ciò che vogliamo, ma sappiamo bene dove stiamo andando. Proprio nell’ultima pagina, però, Lévi-Strauss diventa un mistico contemplante, forse uno degli immortali del deserto di Jorge Luis Borges. La via inversa alla schiavitù di recitare il ruolo di acceleratori dell’annichilimento universale, gli stendardieri della pulsione di morte, è quella della contemplazione di un impossibile affrancamento da tale necessità:
“l’unico bene che [l’uomo] sappia meritare: sospendere il cammino; […] durante i brevi intervalli in cui la nostra specie sopporta d’interrompere il suo lavoro da alveare, nell’afferrare l’essenza di quello che essa fu e continua a essere, al di qua del pensiero e al di là della società; nella contemplazione di un minerale più bello di tutte le nostre opere; nel profumo, più sapiente dei nostri libri, respirato nel cavo di un giglio; o nella strizzatina d’occhio, carica di pazienza, di serenità e di perdono reciproco che un’intesa volontaria permette a volte di scambiare con un gatto”
(Lévi-Strauss, 2011).
Il figlio del padrone: l’archetipica di Zolla in Minuetto all’Inferno
Il piano a quattro vertici si costituisce da Proust a Zolla, poi con il ritornello, e indietro a Lévi-Strauss. E su questo piano, degli elementi curiosamente ricorrono: il profumo, un gatto, e le espressioni della consapevolezza di un apparente nonsenso. Non può non destare interesse questa via segreta che da Proust corre verso Lévi-Strauss. Per quest’ultimo, quale che sia l’affannarsi dello spirito umano a produrre e a conoscere, infine nulla gli rimane se non di fermarsi e accogliere la semplicità che adorna l’ineluttabile. Ma non siamo nel campo di un naturalismo ingenuo, né della decostruzione che Jacques Derrida mette in moto in L’animale che dunque sono. Sono tristi i tropici, e triste qualsiasi altra cosa; vieni e vedi si dice Lévi-Strauss, questo è ciò che l’umano è e continua ad essere. Nella corsa verso la morte, contempla la presenza più semplice. Sul piano dai quattro vertici, percorrendo la sua superficie, cogliamo allora qualcos’altro, l’oggetto ruvido del destino, che per Zolla ricopre un ruolo cruciale. Come riporta Marchianò, c’è una figura hegelo-nicciana che per Elémire diventa archetipo primario della sua vita, la figura del figlio del padrone, “colui che obbedisce al destino senza esserne trascinato”, come scrive nell’introduzione.
Minuetto all’inferno acquista velocemente una posizione di complementarietà con Tristi Tropici. “Odio i viaggi e gli esploratori” dice Lévi-Strauss (cit, 2011); risponde Zolla con un romanzo sospeso in uno spazio che mai cambia – nonostante una guerra mondiale, la più feroce, ne spezzi in due, ma senza particolare clamore, il procedere. Al centro, vicende umane che scivolano nelle mani di un gioco del destino incarnato nel dittatore (una proiezione rancorosa e grottesca del Dio cristiano) e in Satana. Non soltanto tutto ciò che vive condivide un amaro destino, ma nel vivere stesso si è vittime dei capricci divini.
Il romanzo di Zolla è asimmetrico. Si sviluppa dapprima lungo due linee, seguendo la nascita e le vicende dei due personaggi principali, Giulia Pautasso e Lotario Copardo, per poi intrecciare le due vite in incontri e partenze, attese e incomprensioni – le quasi pedanti passioni umane. Questa prima parte, che comprende due terzi della lunghezza del romanzo, è ambientata a Torino e nei dintorni, e segue un orizzonte temporale che parte prima della seconda guerra mondiale, nel pieno dell’epoca fascista, quella in cui la virtù era di
“pensare come tutti gli altri invece di cercar sempre di far colpo, […] stigmatizzare l’insipida opera dei degenerati che cercassero di impedire che i cuori di tutta Italia battano all’unisono”.
E prosegue nell’attesa della pace da parte di una borghesia benestante e ritirata nelle colline care a Cesare Pavese, per poi affacciarsi al dopoguerra. La seconda parte di Minuetto, quella aperta dalla citazione di Proust, non lascia Torino, ma la osserva dall’eternità dei cieli: Zolla introduce Dio, “il dittatore”, che egli dipinge come il padrone del destino, che richiede perentoriamente e ottusamente solo fede e null’altro dalle sue creature, e poi Satana, il signore dell’artificio e dello strumento. In questa seconda parte i personaggi principali, ora apparenti vittime, scalano di posto: Giulia viene assimilata nelle pertinenze di Lotario, e a diventare obiettivo insieme a quest’ultimo dei desideri d’ordine di Satana e di Dio è Edmeo Nepote, marito di Giulia. Il secondo, pacifico e bonario, lo si vuole rendere nichilista assoluto; il primo, cinico e distaccato, lo si vuole far rapire dalla fede. Checchessia la risoluzione di queste vicende, Zolla ammonisce il lettore con una brillante chiusura: nell’eternità giocano gli esseri divini e si convincono ciascuno della bontà delle proprie idee, e le passioni umane non sono che una recita di dolore, e il mondo sarà sempre il migliore dei mondi possibili, che la proporzione la faccia un oscuro Diavolo, o un luminoso Dio. Non c’è altro che da recitare il ruolo del figlio del padrone. Fra gatti e profumi, sul nostro piano a quattro vertici Lévi-Strauss e Zolla si ritrovano nell’acerbità di Proust a convenire che sì, quale che sia la via o la scala d’osservazione, l’amaro traguardo è sempre lo stesso – eppure un cammino, dal primo all’ultimo dei giorni, è dato.
Tre anni dopo la pubblicazione di Minuetto, nell’epigrafe a Eclissi dell’intellettuale, Zolla citerà Nilo Abbate: “Colui che si disperde nella moltitudine ne torna crivellato di ferite” (Zolla, 1959). La consapevolezza del destino, che sia individuale o cosmico, non può significare un’arrendevole passività tanto quanto non può limitarsi al “lavoro da alveare” (Lévi-Strauss, 2011). Anche nello scegliere di percorrere il cammino, seppure obbligato, è necessario affermare una certa consistenza. Minuetto registra ciò, attraverso i personaggi di Giulia e Lotario, come lo registra l’antropologo disperso in Brasile a osservare gli indigeni attraversare le loro giornate. Non è impotenza, quella davanti all’apparente nonsenso di una vita; l’esistenza stessa del romanzo, o del diario, o dell’opera incompleta, testimoniano di qualcosa al di là della pulsione di morte, e del principio del piacere. Recitare una vita, ecco il Proust che fa da pietra angolare del nostro piano a quattro vertici.
Sospesi fra materia e spirito: l’ombra
Quando Sigmund Freud scopre quel che chiama pulsione di morte, la psicoanalisi smette potenzialmente di essere una pratica medico-terapeutica (cfr. Freud, 1977; Reshe, 2023). Tutta la materia organica tende spontaneamente a riadagiarsi su uno stato precedente di inorganicità, teorizza il neurologo austriaco, mentre è tempestata di pulsioni contrarie, schiave del principio del piacere. Questo è la vita per Freud: un fiume attraversato da due correnti opposte. L’una che tende verso la quiete, che ama la dissipazione entropica, e l’altra che corre verso una complessificazione diretta dalla moltiplicazione del piacere: non-vita e più-vita. Per come Freud la delinea, la Todestrieb è però chi la fa da padrone – il vivere-per-la-morte, che Lévi-Strauss reinterpreta cosmologicamente come accelerazione entropica. La psicanalista Julie Reshe (2023) discute di questa realizzazione freudiana come la sconfitta assoluta della disciplina come terapeutica, e la sua vittoria perfetta come comprensione della vita umana nella sua essenza. Freud comprende il nocciolo della questione: per quanto un essere umano possa essere trattato in analisi per mitigare la sua sofferenza, nessun miglioramento è davvero possibile, perché la nozione stessa di miglioramento è dalla psicoanalisi stessa – dalla Todestrieb – resa impossibile. Che fare? Dice Reshe: bisogna abbracciare questa postulazione e riconoscerne la verità. Nessun progresso è possibile, nessun betterment, solo la condivisione, la riscoperta dell’altro come colui che patisce la stessa condizione.
La teoria di Freud sulla Todestrieb è stata spesso tacciata di bigiotteria intellettuale, eppure la sua risonanza sul pensiero del Novecento è indubbia. Verrebbe da chiedersi se valga il senso di aggiungere Freud al nostro piano a quattro vertici, in quanto formulazione metapsicologica della distanza assoluta che divide l’inerte materia dalla rigogliosità dello spirito – e dell’umano come sospeso, strattonato, straniero. Emergerebbe un pentacolo, se si vuole, o una brillante stella. Minuetto all’inferno, coi suoi personaggi leggeri eppure densi, arriva proprio a questo piano pentagonale, la stella del dittatore e il pentacolo di Satana, in una continua rotazione e specchiatura sopra le teste di Lotario, Giulia, Edmeo e gli altri. Ma è un arrendevole nichilismo che Zolla ci propina, l’immagine della povera specie umana nel suo vacuo lavoro d’alveare, nella sua recita? No di certo, non rispecchierebbe in alcun modo la vita, il pensiero, lo studio, la fatica di una delle menti più interessanti del Novecento. Non rispecchierebbe il senso dell’esistenza del romanzo. E allora cosa? La politica del romanzo e dell’opera di senso in generale – Zolla lo sa bene, forse meglio di Lévi-Strauss – non è quella di svelare la realtà più elementare; non è una politica platonica di uscita dalla caverna. L’opera di senso è un teatro delle ombre, e la sua politica è interna al dominio di questo teatro e dei suoi inconsistenti, eppure presenti, attori. Lo spettacolo va rinnovato, va rimesso in scena; è un dominio intrinsecamente “sterile”, senza alcuna fisica che ne tracci cause ed effetti, eppure il romanzo vive una vita tutta sua, e contribuisce a trasformare la realtà in maniere imperscrutabili. La copertina di Minuetto è chiusa da una considerazione fondamentale di Zolla:
“Il romanzo è miracoloso che possa vivere, e proprio perciò occorre scriverlo come se dovesse vivere”.
Non speculare sulla materialità del senso, proporne una fisica, ma neanche ridurlo a illusione o ad allucinazione. È una via mediana quella che traccia Zolla nel suo romanzo, il dominio dell’epifenomeno, il come se di idee e immagini che operano non da filtri ottici o lenti colorate che mediano col reale, ma come trasformazioni della retina emerse dall’interazione con una certa frequenza di luce.
La questione così definita, nel campo del come se, trascende la tensione fra morte e piacere, fra non-vita e più-vita – rifiuta ogni riduzione del mondo di senso del romanzo o dell’opera a cause ed effetti, evitando di pensarlo come materia ulteriore. Proust, acerbo frutto sgargiante, lo vede bene: è nel passaggio fra il pentacolo e la stella, nella trasformazione topologica, nel cammino fra la materia e lo spirito, ciò che è sospeso in questo cammino, i profumi, i gatti, i ritmi del passaggio, che il figlio del padrone trova il suo spazio vero e proprio. Satana e Dio, prodotti del senso, restituiscono in conclusione un relativismo insopportabile, proprio per questo immateriale. Zolla non offre più che questo, che è il più necessario: qualsiasi forza possa incedere sull’esistenza, sta a Edmeo, o a Lotario, o a Giulia, ricordarsi che essi possono, come dice Lévi-Strauss, sospendere il cammino, e girare e rigirare, espandere o ridurre il piano come essi credono meglio. In Volgarità e dolore Zolla suggerisce:
“Non cercare il bene che ti consoli, ma contempla il male che ti dispera e esploralo fino agli estremi confini. Se la critica sarà costante l’occhio vedrà in purezza non ciò che vuole che sia ma ciò che è, e la mano traccerà il romanzo che lo rappresenta perfettamente”
(Zolla, 1962).
È qui che si mantiene e si rinnova quella porosità fra la materia e lo spirito a cui si riferisce Proust, la vita mediana, né la non-vita della materia né la più-vita dello spirito, che Zolla scopre durante il periodo di malattia in cui scrive il suo primo romanzo. Minuetto all’inferno è un’opera di sospensione; un oggetto, questo romanzo, che vive e fa vivere le ombre.
- Sigmund Freud, Al di là del principio di piacere, Bollati Boringhieri, Milano, 1977.
- Claude Lévi-Strauss, Tristi Tropici, Il Saggiatore, Milano, 2011.
- Marcel Proust, Jean Santeuil, Theoria, Santarcangelo di Romagna (RN), 2018.
- Julie Reshe, Negative Psychoanalysis for the Living Dead: Philosophical Pessimism and the Death Drive, Palgrave Macmillan, Londra, 2023
- Elémire Zolla, Eclissi dell’intellettuale, Bompiani, Milano, 1959.
- Elémire Zolla, Volgarità e Dolore, Bompiani, Milano, 1962.