Nella prima parte del suo memoriale Edward Snowden si presenta con la massima semplicità: è il bambino cresciuto smanettando con i dispositivi, distruggendo la sua prima consolle da gioco, temendo la reazione del padre. Come molti della sua generazione impara a usare i computer nel modo migliore: senza manuali e senza maestri, sbagliando e riprovando, lasciandosi guidare solo dalla curiosità.
Errore di sistema insiste molto sui dettagli tecnici e sui primi approcci tecnologici per sottolineare un fondamentale cambiamento nel modo di conoscere e di comunicare introdotto dalla condivisione social e da computer ipersemplificati come gli smartphone. Un cambiamento accelerato anche dagli attentati del 9/11: un momento di forti slanci patriottici che ha spinto cervelli tecnici come quello di Snowden a diventare soldati digitali. E suo malgrado, Snowden è diventato un eroe nel modo più inaspettato rispetto all’intento iniziale di servire gli Stati Uniti e vendicare le torri gemelle: ha finito col fornire un servizio all’umanità intera provando come la NSA (National Security Agency ovvero l’agenzia governativa americana a guardia delle informazioni che transitano sulle reti comunicative) sia arrivata a calare una rete a strascico sulle trasmissioni digitali pubbliche e private di tutto il mondo al di sopra di qualsiasi legge e senza che l’opinione pubblica ne fosse informata.
Grazie a whistleblower come Edward Snowden oggi sappiamo che, teoricamente, lo scambio di informazioni che passa per le infrastrutture gestite da aziende americane potrebbe essere acquisito e accumulato in determinati centri di potere caratterizzati da inquietanti commistioni tra interessi pubblici e privati. Ecco perché oggi gli americani sono così attenti quando si parla di infrastrutture 5G costruite dai cinesi.
Com’era verde la mia internet
Snowden ripete spesso la parola “nerd” e racconta con nostalgia il primo cyberspazio basato più sulla collaborazione che non sulle apparenze o sulla monetizzazione di ogni connessione. L’anonimato e l’uso di pseudonimi (non esistevano ancora gli influencer o il divismo delle web star) “garantiva l’equilibrio nei rapporti” perché “in assenza di nomi veri, le persone che dicevano di odiarti non erano persone vere”.
“Tutti indossavamo delle maschere, eppure questa cultura dell’anonimato attraverso la polionimia produceva più verità che falsità, perché aveva un carattere creativo e cooperativo, più che commerciale e competitivo. […] Il fatto che Internet, in origine, permettesse di dissociarsi da se stessi, incoraggiava me e quelli della mia generazione a cambiare le nostre opinioni, anche quelle che avevamo sostenuto con più convinzione, invece di continuare a difenderle quando venivano messe in discussione. La possibilità di reinventarsi ci permetteva di non chiuderci sulle nostre posizioni per paura di arrecare danni alla reputazione”.
Ma l’internet e l’anonimato digitale sono apparsi quasi subito ai governi come una sovversione dell’ordine costituito, un territorio selvaggio da addomesticare. Con il saggio Giro di vite contro gli hacker Bruce Sterling (2004) ha descritto l’underground informatico negli anni Ottanta e Novanta mettendo in evidenza le prime reazioni delle forze dell’ordine e dei decisori politici. Oggi invece le reti sono diventate del tutto organiche al gioco politico e al commercio elettronico.
“È così che è iniziato il capitalismo di sorveglianza […] La gente, attirata dalla maggiore facilità d’uso, ha preferito abbandonare i propri siti personali a favore di pagine Facebook o account Gmail, dei quali, però, erano proprietari solo nominalmente”.
I progressi della tecnologia sul piano dell’usabilità hanno un lato oscuro che si chiama capitalismo della sorveglianza (cfr. Zuboff, 2019) che appesantisce lo spontaneismo delle collaborazioni un tempo finalizzate solo all’accrescimento conoscitivo. In fondo quella che Snowden definisce la “tirannide della tecnologia” si basa proprio su un deficit di conoscenza:
“Rifiutarsi di capire il meccanismo base dei dispositivi da cui dipendiamo, e la loro modalità di manutenzione, equivale ad accettare passivamente questo tipo di tirannia e le sue regole: se i tuoi dispositivi funzionano, funzioni anche tu, se i tuoi dispositivi smettono di funzionare, smetti di funzionare anche tu”.
Questo è il terreno di coltura ideale per lo sviluppo di uno spazio del controllo privo di separazioni pubblico/privato visto che da una parte i sorvegliati collaborano al loro stesso controllo e dall’altra i sorveglianti si avvantaggiano del disinteresse dell’opinione pubblica rispetto a queste tematiche.
I pericoli della commistione pubblico/privato
Il digital divide colpisce tanto gli elettori quanto gli eletti. E così il settore pubblico deve chiedere aiuto a quello privato incoraggiando un’inquietante dinamica:
“Il lavoro dell’intelligence americana è svolto tanto da dipendenti statali quanto da impiegati privati. I direttori dell’Intelligence Community chiedono al Congresso i soldi per assumere collaboratori esterni provenienti da compagnie private, i membri del Congresso approvano il finanziamento, dopodiché questi direttori e questi membri, una volta in pensione, vengono ricompensati con posizioni di rilievo all’interno di quelle stesse compagnie che hanno contribuito ad arricchire. In America è questo il metodo più legale e conveniente per trasferire i soldi pubblici nel settore privato”.
Snowden è molto bravo nello spiegare con semplicità il funzionamento e le logiche della sorveglianza di massa. Sottolinea per esempio la fondamentale differenza tra dati e metadati e come la legge e la politica e l’opinione pubblica si concentrino sui primi (i contenuti) senza considerare il fatto che i secondi sono altrettanto decisivi nel collocare un individuo all’interno di una rete di contatti violando quindi la privacy di una quantità esponenziale di individui.
Lo scopo di un’agenzia di intelligence dovrebbe essere l’identificazione di un presunto terrorista e la previsione delle sue intenzioni al fine di scongiurare attentati. Invece ben presto l’attività spionistica americana si è trasformata nel mero accumulo di metadati riguardanti l’intorno dei contatti di singole persone interessanti così da ricostruire reti di relazioni e collegamenti potenzialmente utili in futuro. Questo è il punto del data mining al servizio della datacrazia: esistono centri di potere che scavano e conservano informazioni per poi eventualmente utilizzarle in un momento indefinito. Snowden ricorda che non è così cervellotico immaginare un ruolo distopico dell’informatica in caso di futuri totalitarismi. La cosa è già accaduta:
“Il censimento effettuato dalla Germania nazista nel 1939 […] fu messo in atto con l’aiuto della tecnologia informatica. L’obiettivo era quello di conteggiare la popolazione del Reich in modo da controllarla ed epurarla, se necessario, soprattutto per quanto riguardava gli ebrei. Per farlo, il Reich si affidò a Dehomag, la filiale tedesca dell’americana IBM, che possedeva il brevetto della tabulatrice per le schede perforate, una sorta di computer analogico che contava i fori delle schede. Ogni cittadino era rappresentato da una scheda, e certi fori sulla scheda rappresentavano determinate caratteristiche della sua identità. Le informazioni di quel censimento furono presto utilizzate per identificare e deportare gli ebrei dell’Europa nei campi della morte”.
Il vizio della privatezza
I dati forniti dal pubblico sono diventati il carburante di un’economia legata sempre meno al profitto immediato e sempre più alla scoperta di nuovi mercati da sfruttare basati su nuovi bisogni individuati nell’uso della tecnologia.
La direzione scelta dai big player del digitale è diventata quella di democratizzare la possibilità di vivere in rete (aumentando la vitalità dell’offerta e semplificando l’uso dei dispositivi) rendendo remunerativa la sorveglianza di massa. Il capitalismo della sorveglianza rinvigorisce continuamente un sistema che produce “cultura della sorveglianza” (cfr. Lyon, 2018).
Le reazioni scomposte e prive di prospettiva del rappresentante politico medio non fanno che rendere difficile porre credibili argini giuridici spianando ulteriormente la strada per la datacrazia (cfr. Ciccone, 2019). È come una corrida: il torero (big player hi-tech) dirige il gioco agitando il capote (pubblico sempre più dipendente dai dispositivi e impossibilitato a negoziare) e toreando il toro (politici, meglio se populisti) che scalpita e lancia cornate a caso. Del resto le persone comuni ritengono di non avere nulla da nascondere e sono poco sensibili al dibattito sulla privacy o comunque non riescono a coglierne la prospettiva. La deriva ci potrebbe portare dritti dalle parti di The Circle (cfr. Eggers, 2014) dove si narra la fine del concetto di privacy spazzato via da una complessa costruzione sociale edificata sui presunti benefici della condivisione social. Lo scopo finale del Cerchio sarebbe l’impianto di un chip in chiunque al fine di alzare esponenzialmente il livello della raccolta dati. Uno scenario da Black Mirror: tutti costantemente connessi, rintracciabili e intercettabili.
Computer troppo umani
Permanent Record è il titolo originale del libro di Snowden: con quel “permanente” si evidenzia l’irreversibilità della schedatura digitale. A dispetto del fatto che le tracce lasciate su siti web e social media sono apparentemente effimere e temporanee. Proprio perché invece potenzialmente eterne, le tracce digitali possono avere effetti a lungo termine imprevedibili. In un futuro caratterizzato da bolle di informazione sempre più personalizzate potremmo ad esempio immaginare l’individuo rinchiuso in una gabbia di scelte definite da algoritmi che impongono certi percorsi rendendone invisibili (o difficilmente visibili) altri. Il titolo italiano Errore di sistema sottolinea invece una caratteristica della mentalità hacker sempre attenta a cogliere comportamenti anomali nell’uso delle macchine o nel funzionamento di un sistema. Perché le macchine non sbagliano mai, sono gli esseri umani che le programmano male o che creano sistemi con le premesse sbagliate.
- Arianna Ciccone, Odio e disinformazione: il problema non è l’anonimato e schedare 30 milioni di italiani non è la soluzione, Valigiablu.it, 6 novembre 2019.
- Dave Eggers, Il cerchio, Mondadori, Milano, 2014.
- David Lyon, The Culture of Surveillance: Watching As a Way of Life, Polity, Cambridge, 2018.
- Bruce Sterling, Giro di vite contro gli hacker. Legge e disordine sulla frontiera elettronica, Mondadori, Milano, 2004.
- Shoshana Zuboff, Il capitalismo della sorveglianza. Il futuro dell’umanità nell’era dei nuovi poteri, Luiss University Press, Milano, 2019.