È sempre più arduo orientarsi tra le figure dell’immaginario che affollano la nostra mente o premono ai suoi confini alla ricerca di uno spazio dove trovar casa. Una vera giungla abitata da frotte di personaggi d’ogni sorta dove è facile confondersi, smarrirsi e non avere punti di riferimento. Neppure quelli frequentati da sempre ne sono al riparo. Si prenda Tarzan, personaggio tra i più noti, amati, studiati e rivisitati. Uno che nella giungla a dir poco ci sguazza e che parrebbe non necessitare di ulteriori presentazioni. Oggi il signore della giungla appare meno arzillo che in passato, come ci ha mostrato la sua più recente e deludente apparizione sul grande schermo, The Legend of Tarzan (2016) di David Yates, anche se le risacche dell’immaginario riservano sempre sorprese. Fatto sta che a ripescarlo in tempo di esplosione demografica dei super eroi è Raffaele De Falco, che in Tarzan, prova a mettere ordine tra le varie incarnazioni del personaggio e a rendere i dovuti onori a Edgar Rice Burroughs, colui che l’ha concepito nel dicembre 1911.
Le radici di un Mito novecentesco
A dirla tutta, ce n’è ben più d’uno di padri del signore della giungla, un mucchio di dei, di creatori che nel tempo hanno fatto del giovane Greystocke una delle icone più rappresentative del Novecento. È il tratto che ne fa un autentico eroe seriale, come pochi altri e multimediale ante litteram, considerato che il suo farsi mito della modernità consta di una serie di passaggi di stato: dalle pagine scritte dei pulp ai libri, dal cinema al fumetto, alla radio alla televisione e l’animazione. Insomma, raccontava il vero quel Tarzan re-immaginato da Philip José Farmer nel suo focoso Lord Tyger quando schiettamente dichiarava “Mia madre è una scimmia, mio padre è Dio” (Farmer, 2013), laddove la divinità è il molteplice che nel caso di Tarzan si manifesta nei panni di disegnatori, sceneggiatori, registi e attori e altri scrittori (non solo Farmer, del cui operato è grave però aver fatto appena un minimo cenno) che hanno narrato altre sue avventure. De Falco ricostruisce meticolosamente il codice genetico che ci ha consegnato nel XXI secolo un personaggio tuttora in mutazione, iniziando da quel lontano ottobre del 1912 quando apparve a puntate, sulle pagine del pulp The All-Story la prima storia del ciclo di Tarzan of the Apes. Verrà raccolto in volume nel 1914 e in tutto Burroughs gli dedicherà ventisei romanzi. All’epoca aveva trentasei anni e non era ancora del tutto convinto di poter intraprendere la carriera di scrittore. All’inizio del 1912, aveva anche iniziato a pubblicare su The All-Story le prime storie di John Carter di Marte, il primo vero grande personaggio dell’allora imberbe sci-fi. Alla vita di Burroughs è riservato obbligatoriamente il dettagliatissimo capitolo introduttivo.
Dal 1972 al 1977, DC Comics pubblica diverse storie di Tarzan sotto la direzione di Joe Kubert. Scrive De Falco: “Il suo Tarzan si contraddistingue per lo stile ricco di tratteggi, molto dettagliato, iperdinamico e aggressivo, in una luce espressionista capace di dare al re della giungla un grande wild appeal”.
Ne seguono di altrettanto minuziosi, iniziando da quello dedicato agli illustratori che per primi hanno espresso una visione dell’eroe, proseguendo con gli sconfinamenti dalla pagina scritta al cinema, che propone un prezioso capitoletto dedicato al film mai realizzato su sceneggiatura di Gene Roddenberry, il signore dell’Enterprise, oltre a un capitolo principale. Seguono un capitolo dedicato alle trasmissioni radiofoniche con protagonista Tarzan un altro focalizzato su telefilm e cartoni animati e ben quattro sui fumetti che gli sono stati dedicati. Di grande interesse poi il capitolo articolato in due parti sulle vicende italiane del signore della giungla. Il volume è corredato da una rigogliosa presenza di schede, dati, cronologie e una gran messe di illustrazioni. Tutto a comprovarne lo status di mito tuttora vivo. Sin dalla sua prima apparizione, Tarzan si è collocato su una soglia dell’immaginario, non certo oscura e terrorizzante come saranno, per esempio, i Grandi Antichi lovecraftiani, ma in un punto/cerniera umbratile, violento e altrettanto perturbante dove si scontrano civiltà e tecnologia da un lato e corporeità, ancestralità e non-umano dall’altro. Il dittico natura/cultura, oggi spinoso più di ieri, squisitamente postmoderno, si potrebbe dire.
Il dna tipico dell’eroe
Tornando ai legami famigliari, alle sue radici mitologiche, Tarzan ha anche qualche nonno, ovviamente. In primo luogo il Libro della giungla (1894) di Rudyard Kipling, a cui Burroughs si è ispirato per sua stessa ammissione. Andando assai più indietro nel tempo, ci sono Romolo e Remo, prezioso precedente che gli consentì all’alba del Novecento di ridar vita al mito incarnandolo in un eroe aggiornato con i tempi, considerato che si tratta di un nobile inglese nel continente africano, territorio che proprio i sudditi di Sua Maestà avevano mappato, cartografato, esplorato e saccheggiato in grande stile. Anche in questo caso, Burroughs ammise in un’intervista di aver fatto tesoro di quanto narrò nel suo memoriale In Darkest Africa il giornalista Henry M. Stanley che nel 1870 esplorò l’Africa centrale alla ricerca di David Livingstone. D’altronde più ricco è il compost di immaginario che ha nutrito l’eroe maggiore sarà la resilienza di questi alle mode, agli stili e alle logiche di consumo. Il corpo di Tarzan è lì sfacciatamente a dimostrarlo. Provate voi a passare centonove anni in una giungla.
- Philip José Farmer, Lord Tyger, Mondadori, Milano, 2013.