L’alieno è per antonomasia molto strano. È assai diverso, come ci ha raccontato la fantascienza, che ne ha fabbricati di ogni genere. Il suo ampio catalogo include omini verdi, mostri con gli occhi d’insetto, l’implacabile xenomorfo, il tenero esserino con il grande testone noto come E.T., l’orrendo parassita senza nome, ovvero la Cosa, i lunghi e lattiginosi visitatori proposti dallo spielberghiano Incontri ravvicinati del terzo tipo (1977), l’informe Blob (1958) e via di questo passo, componendo un elenco infinito. Se ne contano a migliaia, descritti da romanzi, fumetti e film. È a partire dalle illustrazioni dei primi romanzi di fantascienza di fine Ottocento che l’immaginazione si è data da fare per rappresentarli più o meno umanoidi, più o meno mostruosi.
Talvolta, la regola fa posto all’eccezione e compaiono dei non terrestri con sembianze umane perfette, come quello proveniente da Klaatu avvistato in Ultimatum alla Terra (Robert Wise, 1951), oppure l’androgino con il volto di David Bowie in L’uomo che cadde sulla Terra, (Nicolas Roeg, 1975) e Laura, l’aliena ultra sexy protagonista di Under the Skin (Jonathan Glazer, 2013). Quali che siano le loro sembianze, le loro apparenze, appartengono per natura all’ordine tutto terrestre del freak.
In un repertorio così vasto ed eterogeneo farsi notare è impresa pressoché impossibile per tutti, tranne che per il regista che le sfide più estreme le ha sempre cercate e vinte: Werner Herzog. È infatti difficile immaginare un alieno più emarginato, più umano di quello protagonista del suo lungometraggio L’ignoto spazio profondo (2005) che ritorna in una nuova edizione in dvd.
Magnificamente interpretato da Brad Dourif, il matto balbuziente Billy Bibbit di Qualcuno volò sul nido del cuculo, questo visitatore del nostro pianeta ha tanto l’aria del barbone, del povero senza casa, ignorato dai più, condannato alla solitudine e al rimpianto, spiritato nel confidarci le vicende sfortunate sue e dei suoi. Non c’è tassonomia dell’extraterrestre che lo contenga: è un’eccezione.
L’ignoto spazio profondo è costruito come il più classico dei mockumentary, ricorrendo a un cospicuo materiale di repertorio, in massima parte proveniente dai filmati girati durante la missione dello Space Shuttle STS-34 nel 1989. Ancora una volta Herzog, operando su materiali altrui, riesce a incastonarli alla perfezione in una propria costruzione, come farà in maniera esemplare e definitiva con il coevo Grizzly Man. Di quelle riprese, Herzog ne ha letteralmente estratto la dimensione poetica dell’avventura, della sfida, del superamento delle frontiere e dei limiti dell’essere umano che si inoltra nell’ignoto a bordo di un suo fragile manufatto (la navicella spaziale). Ci penserà anni dopo la scrittrice e giornalista Mary Roach a mostrarci gli astronauti senza veli, la loro angusta e talvolta imbarazzante convivenza nello spazio.
La storia, una science fiction fantasy, come si dichiara in apertura, è suddivisa in dieci capitoli. Seppure idealmente terzo capitolo di una trilogia fantascientifica composta da Fata Morgana (1971) e Apocalisse nel deserto (1992), il film è l’unico che realmente fa ricorso, anche se in totale libertà, a tópoi propri della sci-fi: il viaggio interplanetario e l’alieno.
In realtà, è stato lo stesso Herzog a certificare l’ideale continuità tra le tre opere: “Non si tratta di una vera e propria trilogia, ma si possono individuare dei collegamenti tra i tre film. […] Diciamo che ciò che accomuna i tre film sono il totale disprezzo delle regole di regia, la sensazione di irrevocabilità del giorno del giudizio, il linguaggio visivo, la gestione del testo. Un insieme di elementi permeati dallo stesso spirito” (Paganelli, 2008). È noto che per Herzog la sceneggiatura è uno strumento per codardi, e qui dimostra quanto francamente se ne infischi. L’alieno ci racconta del suo arrivo in compagnia di altri membri della sua razza. Sono arrivati dal pianeta morente Wild Blue Yonder (il nome del corpo celeste è il titolo originale del film), un mondo d’acqua dal cielo ghiacciato. Nella ricerca di una nuova casa spaziale, approdano sulla Terra.
Sulle prime i superstiti (quanti viaggi di colonie umane alla ricerca di nuovi West nello spazio ha raccontato la fantascienza? Innumerevoli.) sembrano aver fatto la scelta giusta, ma poi finiranno per essere emarginati. Al tempo stesso, anche il pianeta Terra ha i suoi guai: l’incauto esame dell’Ufo atterrato sulla Terra (il celeberrimo incidente di Roswell del due luglio 1947) ha dato il via alla diffusione di microbatteri sconosciuti e pericolosi, rendendo necessaria l’esplorazione dello spazio alla ricerca di un nuovo pianeta abitabile. La missione (raccontata con il ricorso ai filmati dello Shuttle) incrocia proprio il fantastico Wild Blue Yonder, la cui atmosfera è composta da elio liquido e il cielo è ghiacciato. Qui Herzog da un ennesimo saggio di visionarietà con le spettacolari riprese realizzate in Antartide, sotto la superficie ghiacciata sull’isola di Ross, restituendo appieno il senso di “wild blue”. La missione fallisce, gli astronauti ritornano, ma c’è una discrepanza tra il tempo vissuto dalla spedizione e quello trascorso sulla Terra. Rientrano “in realtà” ottocento anni dopo. Una science fiction fantasy, dove la dimensione più aliena però proviene da quella che è un’attività squisitamente umana: la musica. La colonna sonora realizzata dal violoncellista olandese Ernst Reijseger, noto soprattutto per la sua militanza nell’area dell’improvvisazione radicale europea, in collaborazione con il cantante senegalese Mola Sylla e con il coro sardo Concordu e Tenore de Orosei, suscita un senso di straniamento totale, arricchito anche da un paio di brani haendeliani e dall’elettronica di Jim O’Rourke. Assistiamo a un’odissea nello spazio intima e al tempo stesso surreale, sottolineata dal racconto dell’alieno e dalle riflessioni di matematici (tre scienziati della Nasa) che forniscono la base scientifica di questa avventura nel cosmo.
Un’incursione nel pianeta Palla
La recente edizione home video de L’ignoto spazio profondo si accompagna a un documentario girato da Rudolph Herzog (il figlio del regista) e Christian Weisenborn: La palla è bastarda (Der Ball ist ein Sauhund). Si tratta di un documentario del 1999, dedicato all’allenatore di calcio Rudi Gutendorf e alla loro amicizia. Werner Herzog da co-protagonista conversa, ricorda con lui e ascolta le sue storie. Gutendorf, ex giocatore del Coblenza, è un autentico giramondo che ha lavorato in ben ventinove Paesi diversi per un totale di cinquantanove panchine (erano meno all’epoca del documentario). Herzog lo conobbe ai tempi di un’altra impresa folle: quella della realizzazione di Aguirre, furore di Dio nella foresta peruviana nel 1971. All’epoca Gutendorf allenava una squadra della prima divisione peruviana a Lima e si recò sul selvaggio set a vedere le riprese. Herzog a sua volta, da appassionato di calcio, andò a vedere gli allenamenti della squadra che il connazionale allenava e vi partecipò come egli stesso racconta con esiti disastrosi. Nella scena iniziale, Herzog sottolinea con veemenza che Gutendorf era dannatamente pazzo. E iniziò così una delle sue più forti amicizie, sincera, schietta. Forse perché giocando a calcio si è “costretti a riannodare il legame con una memoria animale” (Dimitrijević, 2000) che è dentro di noi.
Alla fine ci si chiede: chi è il vero alieno?
- Vladimir Dimitrijević, La vita è un pallone rotondo, Adelphi, Milano, 2000.
- Paganelli, Segni di vita. Werner Herzog e il cinema, Editrice Il Castoro, Milano, 2008.