Si sa, i dinosauri sono caratterizzati da un’aura fascinosa di mistero e imponenza che fa galoppare la nostra immaginazione. Tra di essi, il re dei rettili tiranni si presenta come l’icona pop più grande di tutti i tempi, un vero e proprio divo antidiluviano.
Un divo che ritorna, con tutta la sua compagine, in Jurassic World – Il regno distrutto, film il cui titolo echeggiante rende sicuramente omaggio a il mondo perduto (1997) e che riprende le tragiche vicende del parco a tema avvenute nel 2015. Sono infatti passati tre anni da quando il parco è di nuovo collassato, distrutto dai dinosauri scappati dai recinti/zone a loro dedicati per una quanto mai scontata negligenza umana ed eccessiva fiducia nelle forme di sicurezza.
Il progetto di mettere le creature preistoriche in vetrina e trasformarle in attrazioni per famiglie ha funzionato per alcuni anni, finché lo spaventoso ibrido creato in laboratorio denominato Indominus Rex (nomen omen) non è evaso dal suo exhibit nel quale era nato e cresciuto, seminando il panico su Isla Nublar, permettendo ai dinosauri sopravvissuti di colonizzare l’isola nella sua interezza.
Successivamente all’abbandono da parte degli umani del parco si scopre che il vulcano dormiente dell’isola si risveglia, mettendo così in pericolo i suoi giurassici abitanti. La vecchia responsabile del parco Claire Dearing (Bryce Dallas Howard) ormai ravveduta e ora a capo di una associazione di tutela dei dinosauri, insieme all’ex addestratore di raptor Owen Grady (Chris Pratt), che vuole recuperare la sua preferita, Blue, l’ultima Velociraptor rimasta in vita, decidono di tornare sull’isola per salvare i dinosauri e dunque evitare una nuova estinzione delle creature preistoriche. Arrivati sull’isola mentre la lava avanza inesorabile, la loro spedizione si scopre essere di altra natura, e si ritrovano al centro di una cospirazione che potrebbe portare il nostro intero pianeta a una nuova situazione caotica.
Chris Pratt, nei panni di Owen Grady, l’ex comportamentista animale di Jurassic World che scopre in Blue qualità empatiche straordinarie.
Stavolta, l’esemplare di Tyrannosaurus Rex, che nel precedente film viene rivelato essere lo stesso della prima pellicola del 1993, ha avuto una presenza liminale, solo simbolica, segno forse di un cambio d’epoca, di una diversa concezione di mostrazione. Non a caso la protagonista chimerica della Industrial Light & Magic ibridamente costruita da animatronic e silhouette digitale è la Velociraptor Blue, una creatura che rispecchia la contemporaneità: snella, veloce, intelligente, leader, empatica. Su di lei sono puntati gli occhi degli spettatori e degli altri protagonisti della pellicola, sia essi positivi che negativi. Essi la desiderano, chi per un motivo chi per un altro. Da una parte v’è la ricerca della libertà, che richiama indubbiamente la nostra esigenza intrinseca al ritorno a una animalità anti-convenzionale, perpetuata da Owen e compagni, che agiscono per salvaguardare i dinosauri dall’egoismo umano e dal disastro ambientale di Isla Nublar, in procinto di saltare in aria per via del risveglio del vulcano dell’isola.
Qui si vuol recuperare la vera eredità del John Hammond di Richard Attenborough de Il mondo perduto (1997), ancora in vita ma allettato, assolutamente diverso dal suo corrispettivo (e defunto) del libro di Michael Crichton. Il John Hammond cinematografico, imprenditore miliardario, lasciò il posto all’ambientalista filantropo che, nella chiusa della pellicola del 1997 asserì:
“A queste creature, necessita l’assenza dell’uomo, non l’aiuto per sopravvivere. Se solo riusciremo a farci da parte, a confidare nella natura, allora la vita troverà il modo”.
Da qui partono i protagonisti, che dunque aspirano a quel luogo, quell’eden incontaminato che viene concretamente messo a disposizione da Lord Benjamin Lockwood (James Cromwell), ex collega di Hammond, anch’egli appassionato di genetica con un oscuro segreto, che lo portò ad allontanarsi dal suo vecchio amico.
Dall’altra parte c’è il desiderio di sfruttare e vendere le creature da parte dell’imprenditore e reggente del patrimonio Lockwood, Eli Mills (Rafe Spall) e nei riguardi di Blue, di razionalizzare l’emotività, vero fattore irriproducibile in provetta, per ridurla a mero tassello mancante per il completamento del soldato giurassico perfetto. L’Indoraptor, l’ultimo abominio di quella genetica scellerata di stampo militarista, invece, è un vero strumento di morte, una macchina da guerra organica risultante da un ibridismo genetico tra Raptor e il defunto Indominus Rex, che agisce secondo uno schema comportamentistico di pavloviana memoria, seguendo un puntatore laser e un suono provenienti da un fucile militare per assalire il suo obiettivo.
Questo mostro può essere utilizzato come forma rappresentativa dell’altra faccia della contemporaneità, l’oscuro estremo, il cinico e schizofrenico agire nella metropoli di simmeliana concezione che porta a un machiavellico agire per lo scopo, senza remore, senza sentimenti.
L’idea fantascientifica del supersoldato perpetuato segretamente dalle grandi potenze mondiali nel corso della storia del Novecento, si sposta e canalizza su una creatura costruita in laboratorio, i cui diritti non sono nemmeno pensabili e la cui coscienza è nulla. È altresì l’auspicio implicito di una umanità disumanizzata, animale, ma asservita alle regole e all’obbedienza, ridotta cognitivamente, magari con il consenso stesso degli individui tramite un processo di violenza simbolica, ad uno status di stimolo-risposta.
Entrambi questi rapaci giurassici, intimamente legati dalla clade dei tetanuri, si presentano contemporanei dell’uomo come fabbricazioni genetiche per ovvie esigenze narrative, ma gli intenti e lo scopo della realizzazione degli animali travalica sia l’oramai trascorso more teeths, più denti, ossia lo slogan evocato nella precedente pellicola, la sintesi delle modifiche genomiche effettuate nei laboratori del Dr. Wu (BD Wong) sugli animali, non solo semplicemente per riportarli alla vita dopo milioni di anni di assenza sul pianeta, ma anche per renderli più accattivanti per lo spettatore contemporaneo (cfr. Guy Debord, 2017) che vive l’esistenza come un evento perpetuo, citando Friedrich Nietzsche, sulla soglia dell’attimo, del sempre nuovo, sia l’arcaico intento di far conoscere e lucrare su un mondo perduto nella sua (im)perfetta natura, desumibile nella trama e nella logica che muoveva Jurassic Park (1993).
I due re a confronto. La natura espressa nelle sue due facce: Utopia (animalità e libertà) e disastro (abominio e mancanza di controllo).
La memoria genomica, rappresentata dal filamento di DNA, è altresì rappresentativa della nostra memoria e biografia storica che risulta fallace e bisognosa di strutture moderne di ri-mediazione, di elementi conoscibili che rientrino in quella sfera di senso e di comprensione data dai sistemi esperti, in questo caso, dalla scienza, ma volgendo comunque uno sguardo verso un futuro incerto. Ma le grandi cesure del progresso del Novecento, hanno minato la fiducia verso questi saperi esperti (cfr. Abruzzese, Borrelli, 2011), ragion per cui i processi costitutivi della nostra identità e del senso del mondo utilizzano conoscenze altre, altrettanto fallaci, cangianti.
È dunque giusto parlare del film come una profonda metafora identitaria, della riproposizione, da un lato, dell’idea di natura come utopia, un ritorno, un dolce viaggio a ritroso verso uno stato di pace, di piacere, di tranquillità, di salute, altresì l’insieme di trovate finalizzate alla riduzione della complessità e del disordine urbano e sociale, che si pone in contrasto alla freddezza e all’impersonalità della macchina, dunque un ritorno all’animalità, e dall’altro la natura come disastro, la rappresentazione del lato inumano della tecnica, ostile, e dunque dell’illusione del controllo, l’apocalisse scientista evocata in pellicole come Il pianeta delle scimmie di Pierre Boulle (1963) e The day after tomorrow di Emmerich (2004) (cfr. Vincenzo Bernabei, 2012).
Benvenuti a Jurassic World. Il Professor Ian Malcolm sul finale sottintende che il Mondo sia entrato in una nuova era e che uomini e dinosauri ora dovranno imparare a coesistere.
Life finds a way, l’oramai Mantra propugnato dal matematico causologo Ian Malcolm (Jeff Goldblum), si presta a una nuova lettura, un nuovo e potente significato: non si tratta più di una condanna etica verso coloro che giocano a fare Dio, ma un auspicio alla costruzione identitaria nuova nei contesti virtuali. I veri Dinosauri, dunque, siamo noi, persi in una pluralità di mondi che ci appartengono solo in parte, a cui non siamo accuratamente preparati. Quando due realtà siffatte, quella interiore e quella esteriore, si scontrano in maniera così brutale, il risultato è imprevedibile, è caotico. Il film lo rimarca a più riprese, dimostrando, a una lettura più attenta, di andare oltre il suo semplice essere blockbuster d’intrattenimento.
- Alberto Abruzzese, Davide Borrelli, L’industria culturale. Tracce e immagini di un privilegio, Carocci, Roma, 2011.
- Vincenzo Bernabei, Shared Identities, Ipermedium, S.M. Capua Vetere, 2012.
- Michael Crichton, Jurassic Park, Garzanti, Milano, 2005.
- Michael Crichton, Il mondo perduto, Garzanti, Milano, 2003.
- Guy Debord, La società dello spettacolo, Baldini&Castoldi, Milano, 2017.