Se è vero che la storia del cinema è segnata da capolavori mancati, opere dalla portata gigantesca la cui realizzazione è collassata sotto il peso della loro ambizione, l’anti-film che sovrasta il panorama dei grandi incompiuti dal suo trono è stato per più di mezzo secolo Dune. Indiscussa pietra miliare nella storia della fantascienza, la saga di Frank Herbert costituisce un vertice raramente eguagliato in almeno un paio dei filoni più iconici del genere, la space opera e il planetary romance, e più in generale di tutta la science fiction cosiddetta soft – cioè principalmente incentrata sulle scienze sociali (psicologia, antropologia o sociologia) e definita in opposizione alla sua controparte hard, sbilanciata invece verso le scienze naturali (fisica, chimica, cosmologia) – che abbraccia la produzione di autori anche molto distanti tra loro, come Ray Bradbury, Jack Vance, Robert Silverberg, J. G. Ballard e Ursula K. Le Guin, ma a cui possiamo ricondurre anche molte opere di Robert A. Heinlein, Theodore Sturgeon, Philip K. Dick e Samuel R. Delany.
L’universo letterario di Herbert trae origine da un ciclo di storie originariamente apparse su rivista intorno alla metà degli anni Sessanta e poi sviluppate nei vent’anni successivi in una esalogia di romanzi (l’ultimo, La rifondazione di Dune, risale al 1985) che esplorano il millenario declino di un futuro impero interstellare, minacciato dagli intrighi politici delle diverse entità che lo compongono, e delle parallele spinte centrifughe di un’umanità che si diffonde tra le stelle della nostra galassia e oltre. Ma Dune è soprattutto un’opera filosofica, che dedica ampio spazio non solo ai meccanismi di conquista e preservazione del potere, con pagine e brani che potrebbero essere tratti da un saggio di dottrina politica, ma riflessioni altrettanto ampie sull’ecologia, sul linguaggio e sull’uso della religione come strumento di controllo (cfr. Martini, 2019).
I tentativi di adattare per il cinema un’opera così stratificata sul piano dei contenuti, oltre che labirintica (e qui pensiamo soprattutto al primo romanzo) nella trama e nelle sottotrame in cui sono invischiati decine di personaggi, non potevano che essere prevedibilmente accompagnati da un prammatico scetticismo, e per quasi due decenni il rutilante universo futuro immaginato da Herbert si è confermato effettivamente non filmabile. Poi, nel 1984, abbiamo avuto il controverso esito del Dune di David Lynch. E oggi, trentasette anni più tardi, è arrivato il turno di Denis Villeneuve.
Alle origini del mito
Ma facciamo un passo indietro e risaliamo alla genesi letteraria di un impero che è divenuto parte integrante del nostro immaginario, non solo fantascientifico. La storia di Dune è fin dal primo momento la storia di un successo costellata di piccoli e grandi rifiuti e di fallimenti sempre piuttosto memorabili. Il romanzo di Frank Herbert fu rigettato da tutti gli editori del settore prima di incontrare sulla sua strada l’editor della Chilton Books di Philadelphia, Sterling Lanier, che si stava prodigando in quegli anni a estendere il bacino d’utenza della sua casa editrice specializzata in manualistica per auto. Nel 1965, poco dopo averlo pubblicato a puntate sulle pagine della rivista Analog, Herbert diede così alle stampe un romanzo destinato a cambiare la storia del nostro immaginario. Purtroppo, nonostante i riscontri ricevuti nei principali premi del campo (alla sua uscita Dune si aggiudicò sia lo Hugo che il Nebula), il libro vendette male a causa del suo prezzo di copertina, decisamente fuori mercato per gli standard dell’epoca. Lanier fu licenziato e Dune sembrò destinato all’oblio, sennonché le successive ristampe in economica riuscirono ad assicurargli una seconda vita: sulla spinta anche dei riconoscimenti ottenuti, il romanzo cominciò a imporsi al di fuori della cerchia degli appassionati, venendo tradotto in decine di lingue e arrivando col tempo a vendere oltre venti milioni di copie nel mondo, numeri che ne fanno ancora il libro di fantascienza di maggior successo nella storia.
Frank Herbert in un ritratto firmato krissm75.
Come se questo non bastasse, l’influenza dell’universo di Herbert arrivò presto a risuonare con un’ampiezza che difficilmente il suo autore avrebbe osato sperare: dalla saga cinematografica di Star Wars al mondo dei giochi di ruolo con Warhammer 40K e quello dei manga e degli anime, basti pensare a Nausicaä della Valle del Vento di Hayao Miyazaki, senza tralasciare il campo letterario, dove il suo influsso echeggia con forza tanto nella trilogia marziana di Kim Stanley Robinson quanto in numerosi altri cicli di ampio respiro (non ultime le saghe di successo planetario Le Cronache del Ghiaccio e del Fuoco di George R. R. Martin e La Ruota del Tempo di Robert Jordan), i semi di Dune hanno prodotto un elenco crescente di opere che si rifanno al suo background, alla sua ispirazione o ai suoi insegnamenti, attingendo alle molteplici sfaccettature della sua poliedrica complessità.
Della presunta incompatibilità della prescienza lineare con la celluloide
I rapporti di Dune con il cinema non potevano essere meno travagliati della sua storia editoriale. Il primo regista accostato a una possibile trasposizione, David Lean, artefice dei kolossal storici Lawrence d’Arabia e La più grande storia mai raccontata nonché de Il dottor Živago, declinò cordialmente l’invito. Successivamente Ridley Scott, reduce dal successo di Alien, ricevette l’incarico di valutarne un adattamento per la casa di produzione di Dino De Laurentiis: questa volta durò un po’ più a lungo, visto che il regista inglese vi si dedicò per circa un anno, ma alla fine il trauma della morte del fratello Frank e il bisogno di applicarsi a un’impresa da tradurre presto in qualcosa di concreto lo spinsero ad abbandonare il progetto per tuffarsi, per la fortuna di tutti gli amanti di cinema e per gli appassionati di fantascienza, nell’adattamento di un romanzo di Philip K. Dick che sarebbe diventato Blade Runner.
Dune secondo Jodorowsky ….
Nel mezzo, intorno alla metà degli anni Settanta, c’era stato il tentativo più ambizioso e stravagante di tutti: nel 1974 il produttore francese Michel Seydoux, forte del successo ottenuto con El Topo e La montagna sacra, che aveva distribuito sul mercato europeo, convocò il regista cileno Alejandro Jodorowsky a Parigi e gli diede carta bianca per realizzare il suo prossimo progetto. Senza pensarci troppo, Jodorowsky rispose che avrebbe voluto adattare Dune, un libro che non aveva nemmeno ancora letto ma di cui aveva sentito parlare in toni entusiastici da un amico. Per tutta risposta, Seydoux acquisì i diritti del romanzo e affittò un castello nella campagna francese, in cui il regista si ritirò per due mesi per gettare le basi di una sceneggiatura. Già in questa prima fase lo sforzo produttivo fu immane: Jodorowsky poté contare sulla collaborazione di Mœbius per studiare le diverse inquadrature, scena per scena, con centinaia di sketch che confluirono in un voluminoso, e ormai leggendario, storyboard; con il lavoro fin lì compiuto, provò quindi a coinvolgere Douglas Trumbull, il maggiore esperto di effetti speciali dell’epoca, mente tecnica dietro la grandiosa visione cosmica di 2001: Odissea nello spazio e in seguito artefice degli effetti di altre pellicole rimaste nella storia come Incontri ravvicinati del terzo tipo, Blade Runner e The Tree of Life.
Tra i due non scattò alcuna sintonia e Jodorowsky ripiegò sull’effettista di una produzione minore che col tempo avrebbe guadagnato un certo seguito: Dan O’Bannon, che si era appena occupato degli effetti visivi nel film d’esordio di John Carpenter, Dark Star. Da qui in avanti diventa sempre più difficile separare i fatti dal mito (e dalla mitomania), come emerge anche dalla visione di Jodorowsky’s Dune, il documentario di Frank Pavic dedicato a un’impresa che ancora adesso i protagonisti amano descrivere come il più grande film che non vide mai la luce: da una parte il casting, che annoverava tra gli altri i Pink Floyd e Mick Jagger, Orson Welles e Salvador Dalì (che giunse a pretendere centomila dollari di compenso all’ora per recitare assiso su un trono con water integrato), dall’altra il coinvolgimento di artisti di prima grandezza come appunto i Pink Floyd reduci dal successo mondiale di The Dark Side of the Moon per la colonna sonora, il britannico Chris Foss per la rappresentazione delle astronavi e lo svizzero H. R. Giger per la caratterizzazione estetica degli Harkonnen. In mezzo, avrebbero trovato posto alcune delle trovate più bizzarre possibili, inclusa una scena di massa in cui duemila comparse messe a disposizione dall’esercito algerino sarebbero state riprese nell’atto di evacuare… in termini fisiologici (cfr. Gargantini, 2021).
Alla fine, quello che risalta anche nel documentario di Pavic è quanto poco Jodorowsky fosse interessato a Dune, sicuramente meno di quanto non lo appassionava qualcosa che era appunto il “Dune di Jodorowsky” ed esisteva solo nella sua testa, un film della durata di dieci ore che si prefiggeva di “cambiare la mente dei giovani di tutto il mondo” e indurre esperienze psichedeliche paragonabili all’LSD. Fortemente voluto da un visionario senza freni e realizzato con il contributo di un esercito di “guerrieri spirituali”, questo film sarebbe stato un modo per spingere all’estremo le produzioni sperimentali e avanguardistiche che gli avevano procurato la fama negli anni precedenti. Quando il progetto inevitabilmente naufragò, non tutto il lavoro andò perduto: la collaborazione di Jodorowsky con Mœbius portò alla realizzazione di una pietra miliare del fumetto francese come L’Incal, mentre elementi scenografici e suggestioni confluirono in un altro fumetto, La Casta dei Meta-Baroni, che Jodorowsky sceneggiò per i disegni del maestro argentino Juan Giménez.
Teoria e pratica del Sentiero Dorato
Chi invece riuscì a portare a compimento il progetto fu Dino De Laurentiis, che dopo l’abbandono di Scott ingaggiò un altro autore di talento che in quegli anni cominciava a maturare una visione artistica personale e inconfondibile. Tuttavia nel 1984 David Lynch aveva all’attivo ancora solo due film e si lasciò forse ingolosire dalle sirene di una mega-produzione, così, dopo aver rifiutato di dirigere Il ritorno dello Jedi, terzo capitolo dell’originale trilogia di Star Wars, che non avrebbe sicuramente lasciato molti margini di iniziativa alla sua creatività, si dedicò all’impresa che non era riuscita a Jodorowsky.
Il film che ne risultò fu un fallimento epocale, uno degli insuccessi più colossali che si ricordino. Lynch, che lavorò alla sceneggiatura con lo stesso Herbert, avrebbe voluto realizzare un film della durata di almeno tre ore, ma i produttori imposero una durata standard più adatta alle esigenze commerciali della distribuzione, e questo portò in prima istanza alla necessità di rigirare diverse scene per comprimere alcuni passaggi, e in seconda battuta a un extra-budget di diversi milioni.
Dune secondo David Lynch …
L’impresa venne a costare più di quaranta milioni di dollari e lo sforzo produttivo è evidente negli effetti, nei modelli meccanici dei vermi della sabbia realizzati da Carlo Rambaldi, nella sontuosità delle scenografie ricostruite presso gli Estudios Churubusco di Città del Messico e nel fasto dei costumi. Ma gli interventi della produzione si tradussero anche in una serie di momenti che risultano in una sovraesposizione di fatti che dovrebbero essere arcinoti ai personaggi: per citare un esempio dei tanti possibili, “Abbiamo annullato lo spazio, veniamo dal pianeta Ix”, battuta recitata dal navigatore della Gilda all’indirizzo dell’Imperatore in una delle primissime scene, non ha nessuna motivazione se non fornire – in maniera goffa e per di più inefficace – un minimo di contesto allo spettatore. Di contro, rispetto al materiale originale, Lynch opera anche alcune aggiunte incomprensibili perché del tutto inutili, come una estenuante scena di addestramento del Giovane Duca Paul Atreides che funge da introduzione del modulo estraniante come nuova arma messa a punto dagli Atreides (elemento del tutto estraneo allo spirito del romanzo), una riscrittura di alcuni personaggi fondamentali e cari ai lettori che ne tradisce del tutto l’essenza (è il caso di Duncan Idaho e Gurney Halleck, ma anche di Lady Jessica) e un frustrante sforzo di sintesi per condensare la seconda parte del romanzo in una manciata di scene che si susseguono senza alcuna progressione drammatica a preparare il finale.
Il film oscilla così in maniera altalenante tra una fedeltà estrema al materiale di partenza, che finisce per risultare persino disfunzionale in termini cinematografici nel caso delle voci fuori campo che traducono i pensieri dei singoli personaggi, e una certa libertà creativa che introduce alcune varianti piuttosto originali alla visione di Herbert: oltre agli insistenti rumori di fondo dell’ambiente e una rappresentazione dei villain talmente eccessiva da risultare quasi caricaturale (due dei marchi di fabbrica del regista di Missoula), i costumi goticheggianti degli emissari della Gilda, le fattezze delle Bene Gesserit, le architetture dalle sembianze organiche del palazzo ducale di Caladan, definiscono un’iconografia riconoscibilissima tuttora con la sua impressionante carica visiva. Il film riuscì a essere condensato in 137 minuti di pellicola, anche grazie alla voce fuori campo della Principessa Irulan che veicola ulteriori delucidazioni allo spettatore sui retroscena della faida tra Atreides e Harkonnen. Ma il risultato fu comunque una debacle al botteghino, dove Dune non rientrò nemmeno dei costi di produzione.
Lynch da allora ha rifiutato ostinatamente di tornare a occuparsi del film, sia nelle interviste sia davanti alla proposta della Universal di curare un montaggio alternativo, più vicino al suo intento originale. Malgrado questo, il suo Dune, interpretato da Kyle MacLachlan (Paul Atreides), Sean Young (Chani), Virginia Madsen (la principessa Irulan), Patrick Steward (Gurney Halleck), Max von Sydow (Liet Kynes) e Sting (Feyd-Rautha), arricchito da una pregevole colonna sonora affidata a Toto e a Brian Eno, con il tempo è stato rivalutato da molti appassionati. Del romanzo nel 2000 la rete via cavo SciFi Channel produsse anche una serie TV in tre episodi, della durata complessiva di 273 minuti, diretta da John Harrison, interpretata tra gli altri da William Hurt (Duca Leto Atreides) e Giancarlo Giannini (Imperatore Shaddam IV), girata interamente in uno studio di posa a Praga e musicata da Graeme Revell, con l’apporto non trascurabile del premio Oscar Vittorio Storaro alla fotografia. Dune – Il destino dell’universo, questo il titolo dell’adattamento, ebbe nel 2003 anche un seguito, I figli di Dune, ma mentiremmo se ne parlassimo in termini di produzioni memorabili.
Gli universi di Frank Herbert
Per quanto siano numerose le opere fantascientifiche sorrette da un’ambizione straordinaria, pochi titoli eguagliano lo slancio di Dune quando si tratta di mettere insieme contenuti e stile, al punto che fin dalla loro uscita i romanzi del ciclo hanno finito per mettere in ombra il resto della produzione del suo autore, che pure conta diversi altri lavori di primo piano, dai romanzi della Consenzienza (Stella innamorata, Esperimento Dosadi) al ciclo di Pandora (Progetto coscienza e i seguiti scritti a quattro mani con Bill Ransom), a diversi titoli sparsi, tra i quali menzioniamo almeno L’alveare di Hellstrom e Gli occhi di Heisenberg. Attraverso la sua lunga e prolifica carriera, Herbert ha esplorato e approfondito i temi del linguaggio e della sua influenza sulla percezione e comprensione della realtà, dell’evoluzione e della pressione selettiva dell’ambiente, del potenziale dell’umanità, della leadership e delle figure messianiche, dell’ecologia e della teoria dei sistemi, delle logiche del potere e degli strumenti di controllo. Tutte tematiche che ritroviamo anche in Dune, già a partire dal monumentale romanzo che apre il ciclo. Herbert ebbe l’idea per il pianeta desertico eponimo nel 1959, mentre era al lavoro su un articolo che avrebbe dovuto trattare un programma del Dipartimento dell’Agricoltura statunitense per stabilizzare le sabbie delle spiagge dell’Oregon introducendo piante dall’Europa. Si trovava a Florence, sulla costa del Pacifico, e fu qui che per la prima volta si accese la scintilla per una possibile ambientazione che avrebbe portato al mondo di Dune (cfr. Notarianni, 2021).
Dune secondo Denis Villeneuve.
All’epoca si guadagnava (poco e male) da vivere come giornalista freelance, e aveva alle spalle una breve esperienza a Washington come speechwriter per un senatore repubblicano. Politicamente, Herbert è uno degli scrittori più difficili da inquadrare che ci abbia regalato la fantascienza, e in un campo che ci ha dato Robert A. Heinlein e Cordwainer Smith – tra innumerevoli altri – non è poco. Fortemente critico verso l’Unione Sovietica, si oppose all’intervento americano in Vietnam, e benché fosse un lontano parente del senatore Joseph McCarthy ne criticò i metodi come lesivi delle libertà dei cittadini. Scettico verso tutti i governi, oggi lo definiremmo un antistatalista, ma fu essenzialmente un “prodotto della cultura libertaria della West Coast, indipendente e diffidente verso l’autorità centrale” (Kunzru, 2015).
Nella dinastia degli antagonisti di Dune, gli spietati Harkonnen, condensò una serie di caratteristiche riconducibili sia alla spregiudicatezza capitalistica (la ricchezza utilizzata per corrompere e comprare mercenari e favori da rivolgere contro la storica casata rivale degli Atreides) che alla matrice slava dell’Unione Sovietica (il nome del Barone è Vladimir), insieme a ulteriori discutibili elementi come l’edonismo sfrenato che li porta a essere quasi tutti obesi, bisognosi di meccanismi antigravitazionali per conservare una mobilità decente, e la propensione a una crudeltà senza freni. Il Barone viene descritto anche come un sadico omosessuale e, come se non bastasse, il principale consigliere del suo entourage, il Mentat degenere Piter de Vries, viene caratterizzato come effemminato. La definizione degli Atreides e dei loro alleati Fremen è al contrario improntata ai valori di una lealtà cavalleresca, del coraggio in azione, dell’equità nel governo dei popoli, di una certa frugalità, se non proprio spartana (a cui comunque arrivano i Fremen, che non sprecano nemmeno l’acqua dei corpi dei loro morti), almeno di decoro per il Duca Leto.
Benché nella problematica dimensione della caratterizzazione di cui si è detto, potrebbe sembrare una contrapposizione manichea, ma in realtà il personaggio di Paul, erede di Casa Atreides nonché, a insaputa del padre, strumento di un piano millenario ordito dall’ordine religioso del Bene Gesserit con la complicità di sua madre Lady Jessica, mostra presto dei segni di complessità che spezzano questo schematico equilibrio. All’inizio del primo libro, lo troviamo ossessionato da un sogno ricorrente che sembra prefigurargli il suo futuro su un pianeta desertico: si vede in una caverna, al cospetto di una ragazza dagli occhi azzurri. Dopo poche pagine, il Giovane Duca viene già sottoposto all’ordalia del gom jabbar, volto a sondarne le potenzialità come possibile Kwisatz Haderach, la figura messianica al cui concepimento le reverende madri del Bene Gesserit si dedicano con pazienza leggendaria secolo dopo secolo, attraverso un rigidissimo programma di incroci tra i membri delle principali casate nobiliari dell’Impero. Di fatto, la condizione di predestinato comincia a gravare sulle sue spalle appena mettiamo piede nel mondo di Herbert, e l’atteggiamento di Paul contribuisce a renderla una prospettiva ben poco allettante.
Sullo sfondo, si dipana progressivamente lo scenario di un sofisticato sistema neofeudale, in cui l’Imperatore Padiscià Shaddam IV preserva il suo potere solo grazie all’antica strategia del divide et impera, fomentando la rivalità tra le Grandi Case del Landsraad, come appunto nella faida tra Atreides e Harkonnen. Altri soggetti coinvolti nel complesso gioco di pesi e contrappesi che regola le sorti dell’Impero sono la Gilda Spaziale, i cui navigatori garantiscono i trasporti tra i pianeti, la CHOAM, organizzazione che presiede allo sviluppo commerciale, e gli ordini segreti come il già citato Bene Gesserit o il Bene Tleilax, che rifornisce le Case di tecnologie e servizi strategici.
In questo mondo, sia le armi atomiche che le intelligenze artificiali sono state bandite a seguito del Jihad Butleriano, un conflitto spesso menzionato nei romanzi originali del ciclo e successivamente trattato in maniera più approfondita (ma anche non del tutto fedele alle premesse) nei vari sequel e preludi in cui il figlio di Herbert, Brian, e lo scrittore Kevin J. Anderson hanno ripreso il materiale lasciato incompiuto dopo la sua morte. Il risultato è un universo futuro se non proprio a bassa tecnologia, almeno dal sapore vagamente retrofuturistico, in cui congegni e macchinari anche sofisticati (è il caso delle mietitrici che estraggono la Spezia dalle sabbie di Dune o degli ornitotteri che ne solcano i cieli, degli scudi usati per proteggersi dalle armi da fuoco o degli schermi da cui i protagonisti assimilano le informazioni) sono ammessi – con un’intuizione folgorante – solo a patto che non richiedano l’uso di software.
Il pianeta della Spezia
Il fulcro di tutte queste forze in contrapposizione tra loro è rappresentato da Arrakis, ovvero Dune, il pianeta desertico popolato dai giganteschi vermi delle sabbie, dalle cui distese si estrae la più preziosa delle sostanze dell’universo: il Melange, anche noto come Spezia, fondamentale per consentire ai navigatori della Gilda di piegare il tempo e lo spazio e muovere merci e persone da un sistema stellare all’altro, ma importantissimo anche per le Bene Gesserit, che ne fanno uso nell’ambito dei loro rituali. Paul Atreides sarebbe destinato al condizionamento da Mentat per sviluppare le sue capacità strategiche e trasformarsi in un calcolatore umano, se non fosse che il tradimento operato da Lady Jessica alle disposizioni del Bene Gesserit lo mette presto nella scomoda posizione di poter ambire al ruolo del Kwisatz Haderach: il prodotto finale del piano di selezione genetica delle reverende madri a cui sarà dischiuso l’accesso a tutta la conoscenza dei suoi antenati, arrivando a esercitare un potere di preveggenza senza limiti. Quando l’Imperatore affida agli Atreides la gestione di Arrakis, l’esposizione alla Spezia, presente ovunque tra le sabbie del pianeta, accelera il “risveglio” di Paul, che inizia ad avvertire il peso del suo ruolo tra i futuri possibili verso cui potrebbe svilupparsi la Storia. I Fremen, l’antico popolo del deserto che abita Dune, per effetto di una leggenda appresa millenni prima da una Missionaria Protectiva del Bene Gesserit e tramandata di generazione in generazione, riconoscono in lui il messia che attendono da sempre, e Paul, che in fuga dagli Harkonnen assume il nome Fremen di Muad’dib, vive un conflitto interiore tra quella che sarebbe la sua aspirazione ad applicare gli insegnamenti paterni e i futuri in cui conduce i Fremen in una sanguinosa crociata contro il vecchio, stantio ordinamento imperiale.
Il centro morale dell’opera
Come è stato fatto notare, i Fremen, che uniscono tratti dei nomadi beduini a un misticismo zen, sono il centro morale dell’opera (cfr. Kunzru, 2015), che molto presto sgombra il campo dal possibile equivoco di un ruolo civilizzatore per Paul Muad’dib e sua madre, unici superstiti della loro famiglia: la funzione dei colonizzatori è riservata esclusivamente agli Harkonnen, che per ottant’anni hanno sfruttato senza pietà le risorse di Arrakis e adesso covano un sogno di sterminio dei suoi popoli; al contrario, l’erede degli Atreides si unisce ai loro costumi e rinuncia pressoché a tutti i vantaggi della sua precedente vita nobiliare, tranne al sigillo che gli permetterà di portare a termine la sua vendetta. Nel frattempo, partecipa alla cultura dei Fremen, apprende e fa propri i loro rituali, e di fatto si guadagna attraverso l’inclusione e l’integrazione la dimensione di guida profetica e di condottiero per il popolo del deserto. L’ammirazione di Paul per i Fremen è d’altro canto ribadita a ogni occasione, come nelle citazioni che aprono i capitoli. Uno dei detti di Muad’dib tramandati dalla Principessa Irulan recita “Dovrebbe esistere una scienza dell’infelicità. La gente ha bisogno di tempi difficili e di oppressione per sviluppare i propri muscoli psichici” (Herbert 2019).
Sono diversi i paralleli che possiamo individuare con la realtà: Arrakis, con le sue scorte di Spezia, può assumere di volta in volta la valenza dell’Afghanistan con le sue coltivazioni d’oppio, o del Medio Oriente con le sue riserve petrolifere, e in effetti qualcuno ha osservato la somiglianza dei vermi delle sabbie con gli oleodotti che solcano le distese desertiche, come pure dei Fremen con i Tuareg (Santangelo 2015), ma potremmo risalire ancora più indietro e sovrapporre la figura del Muad’dib a quella di T. E. Lawrence e la Spezia alle droghe psichedeliche che proprio negli anni Sessanta cominciavano a sperimentare una crescente diffusione.
È questa capacità camaleontica della saga di Herbert di innescare nella mente del lettore risonanze con la storia e con l’attualità, che probabilmente costituisce una delle ragioni del suo fascino e del suo successo duraturo.
Ritorno su Arrakis
E arriviamo finalmente ai giorni nostri. Dalle brevi note sulla vastità dello scenario di Dune raccolte nei paragrafi precedenti non è difficile comprendere lo scetticismo che da oltre mezzo secolo accompagna qualsiasi tentativo di trasposizione sul grande schermo. Eppure, fin dalla notizia trapelata nel 2016 della trattiva tra la Legendary Entertainment e Denis Villeneuve per una possibile regia del film appena messo in lavorazione, l’aspettativa non ha fatto che salire. Merito del recente exploit fantascientifico dell’autore canadese, già forte di un solidissimo background in cui aveva saputo coniugare visione autoriale e produzioni di successo (a partire dallo sconvolgente La donna che canta, e ancor più con la suspense di Prisoners e l’action thriller di Sicario), ma proprio a cavallo tra il 2016 e il 2017 capace di imporsi nel nostro genere, dopo l’enigmatica incursione di Enemy, con due capolavori assoluti come Arrival e Blade Runner 2049. Tra i protagonisti della recente ondata che ha rinvigorito il nostro immaginario, non poteva esserci probabilmente nome migliore del suo per tentare l’impresa. A differenza di un altro grande talento della sua generazione come Christopher Nolan, Villeneuve è un autore che si distingue per il suo mimetismo: forse, tra i grandi registi in circolazione, nessuno è in grado di esercitare il dono dell’invisibilità meglio di lui.
Affinità e sensibilità: il mix vincente
La sua regia è sempre discreta, si adatta alla perfezione al materiale cinematografico che di volta in volta deve maneggiare. E per un film come Dune, che muove da un corpo letterario già ricchissimo nonché amatissimo dai fan, un tocco meno leggero avrebbe probabilmente sbilanciato l’esito finale in maniera rovinosa.
L’accoglienza della critica e il riscontro del pubblico hanno premiato la bontà del suo approccio: nel momento in cui scriviamo, la pellicola, già presentata in anteprima mondiale all’ultima Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia e arrivata nei cinema all’alba della quarta ondata pandemica e in contemporanea con il rilascio sulla piattaforma HBO Max (dopo che la release era già slittata due volte dal debutto originariamente previsto per il novembre 2020), ha superato i 300 milioni di dollari d’incasso, ottenendo il via libera dalla Legendary Pictures per il sequel, attualmente previsto per l’autunno 2023 (Pagan, 2021). Un risultato tutt’altro che scontato, benché fosse già stata annunciata una serie prequel per HBO incentrata sul Bene Gesserit e che dovrebbe intitolarsi Dune: The Sisterhood, con il coinvolgimento nella produzione di Villeneuve e di almeno uno degli sceneggiatori del film, Jon Spaihts (cfr. Novarese, 2021), e nonostante proprio il regista avesse rivelato in più occasioni che la sua visione del progetto prevedeva almeno tre film per coprire l’intera parabola narrativa di Paul Muad’dib (Holub, 2021).
Non sappiamo se Villeneuve arriverà mai a dirigere anche un Messia di Dune, ma di certo avrà la sua occasione per concludere la storia del primo volume della saga, visto che il Dune giunto nelle sale si arresta, non senza qualche frizione con i codici cinematografici a cui siamo abituati, a metà del romanzo omonimo. Ci sentiremmo di dire che i difetti si fermano qua, perché per il resto il film è una trasposizione fedele, oltre che un atto d’amore, nei confronti dell’opera di Herbert, dei suoi personaggi, dei suoi mondi e anche, cosa che era legittimamente più difficile aspettarsi, della sua dimensione filosofica e delle articolate dinamiche che, anche al di là degli intrighi di palazzo, intessono in filigrana la complessità che nel tempo ne ha consolidato la fama.
Tutte le strade partono da Kwisatz Haderach
Se già Blade Runner 2049, come è stato fatto notare, era stato anche il prodotto di un’operazione di fanservice di alta classe (cfr. Halter, 2017), con il suo Dune Villeneuve si situa in un difficile punto di equilibrio all’intersezione tra l’universo di Herbert e l’immaginario iconografico influenzato da Lynch. In un montaggio di Matt Skuta reperibile su YouTube, fin dalle sequenze del trailer è possibile tracciare paralleli con le inquadrature del film del 1984. E anche laddove il tono si discosta maggiormente da quello eccessivo e a tratti parodistico scelto da Lynch, per esempio nella rappresentazione degli Harkonnen, si riscontrano degli elementi di contatto che non si possono far risalire semplicemente a una fonte comune: i bagni oleosi in cui si immerge il Barone Harkonnen di Villeneuve devono molto a Lynch, che già aveva pensato di sottolineare attraverso i richiami a un approccio predatorio all’ecosistema, le docce di petrolio, i fumi inquinanti delle installazioni industriali di Giedi Primo, la natura ipercapitalista degli antagonisti.
La caratterizzazione titanica di Stellan Skarsgård non ha per il resto niente a che vedere con quella fuori dalle righe di Kenneth McMillan, e gli Harkonnen di Villeneuve (non solo il Barone, ma anche suo nipote Rabban/Dave Bautista) risultano fin dalla prima apparizione non solo infidi e subdoli, ma anche concretamente temibili, riuscendo a incarnare una minaccia reale per gli Atreides.
Tra questi ultimi, non solo Gurney Halleck e Thufir Hawat ricevono una più credibile rappresentazione per merito rispettivamente di Josh Brolin e Stephen McKinley Henderson, ma anche lo stesso Duca Leto (Oscar Isaacs) e Duncan Idaho (Jason Momoa) hanno la possibilità di sviluppare in maniera nettamente più compiuta i rispettivi ruoli, fino a un’uscita di scena che, soprattutto nel caso di Leto, rende piena giustizia alla tragicità del personaggio. Una menzione a parte meritano poi Lady Jessica (Rebecca Ferguson), forte di una presenza scenica a tratti soverchiante e capace davvero di trasmettere il contegno regale e la pericolosità di una “strega” Bene Gesserit, e Paul Atreides (Timothée Chalamet), che incarna alla perfezione i turbamenti del giovane erede che si scopre veicolo di una forza più grande di lui. A completare il cast delle prime linee citiamo ancora lo Stilgar di Javier Bardem, capotribù Fremen che incarna efficacemente l’essenza di un popolo abituato alle privazioni e alla convivenza con un ambiente più che ostile, all’occorrenza letale; la dottoressa Liet-Kynes, interpretata da Sharon Duncan-Brewster, efficace anello di collegamento tra Arrakis e l’Impero, nel ruolo che fu di Max von Sydow (l’alterazione di genere rispetto al romanzo non compromette un personaggio che è per lo più un canale di informazioni per gli Atreides e gli spettatori) e che qui onora con un congedo degno di essere ricordato; e per finire Chani, felicemente resa dall’astro nascente Zendaya, a cui sarà certamente riservato maggior spazio nel secondo atto, in cui vedremo inoltre all’opera l’Imperatore, la principessa Irulan e la sorella di Paul, Alia, per i quali non è stato ancora rivelato il casting.
In Dune Villeneuve, che ha collaborato alla sceneggiatura con Spaihts e Eric Roth, ricrea con un’attenzione quasi filologica architetture, stili, costumi, in modo da diversificare le ambientazioni e renderle parti integranti di un universo credibile. Meritano senz’altro una menzione d’onore gli ornitotteri, ma anche le navi della Gilda che ricordano l’estetica aliena e indecifrabile degli eptapodi di Arrival, così come i fregi e i bassorilievi che interrompono l’essenzialità marziale del palazzo di Arrakeen e che richiamano le forme del verme delle sabbie Shai-Hulud, l’unico vero signore di Dune.
Il rispetto per il materiale di partenza gli permette di rendere adeguatamente anche un elemento dal rischio potenziale piuttosto elevato nel passaggio dalla carta alla pellicola come la Voce, la capacità Bene Gesserit di manipolare la volontà delle persone attraverso una specifica intonazione, e anche laddove si prende dei rischi (il già citato cambiamento di genere di Liet-Kynes) questa deferenza gli permette di non sconfinare mai nel tradimento o nell’appropriazione indebita. Il film s’interrompe in un momento della storia che non permette un vero e proprio climax, ma se per i pregi possiamo sbilanciarci fin da subito, una valutazione ponderata dei suoi difetti potrà essere fatta solo alla luce del sequel annunciato, che permetterà a Villeneuve di completare la trasformazione di Paul nel Kwisatz Haderach e dare un seguito alle sue visioni di guerre e massacri.
Al momento, anche grazie alla fotografia di Greig Fraser e alle musiche composte da Hans Zimmer, l’obiettivo di coniugare epica e avventura, misticismo e filosofia, risulta perfettamente riuscito, al punto da poter affermare che un’opera ritenuta a lungo non filmabile si ritrova finalmente trasposta in un film all’altezza della sua fama. E, come se non bastasse, siamo solo all’inizio.
- Gabriele Gargantini, Il “Dune” che non esiste, Il Post, 24 settembre 2021.
- Ed Halter, Blade Runner 2049, 4Columns, 13 ottobre 2017.
- Frank Herbert, Esperimenti e catastrofi, Mondadori, Milano, 2020.
- Frank Herbert, Gli occhi di Heisenberg, Mondadori, Milano, 2015.
- Frank Herbert, Il Messia di Dune (Dune# 2), Fanucci, Roma, 2015.
- Frank Herbert, I figli di Dune (Dune# 3), Fanucci, Roma, 2015.
- Frank Herbert, L’imperatore-Dio di Dune (Dune# 4), Fanucci, Roma, 2012.
- Frank Herbert, Gli eretici di Dune (Dune# 5), Fanucci, Roma, 2016.
- Frank Herbert, La rifondazione di Dune Fanucci (Dune# 6), Fanucci, Roma, 2016.
- Frank Herbert, Stella innamorata, La Tribuna, Piacenza, 1972.
- Frank Herbert e Bill Ransom, Pandora e altri mondi, Mondadori, Milano, 2014.
- Christian Holub, Denis Villeneuve wants to make “at least three” Dune movies, Entertainment Weekly, 27 ottobre 2021.
- Hari Kunzru, Dune, 50 years on: how a science fiction novel changed the world, The Guardian, 3 luglio 2015.
- George R. R. Martin, Il trono di spade. Libro primo delle Cronache del ghiaccio e del fuoco, Mondadori, Milano, 2016.
- Eliseo Martini, Rileggendo Dune trent’anni dopo. Un viaggio iniziatico in sei volumi, Carmilla on Line, 12 gennaio 2019.
- John Notarianni, How an Oregon battle between human and nature inspired Frank Herbert’s ‘Dune’, OPB, 23 ottobre 2021.
- Simone Novarese, Dune: The Sisterhood, Denis Villeneuve parla della serie TV prequel, BadTaste.it, 13 settembre 202.
- Beatrice Pagan, Dune 2 ottiene il via libera: Legendary conferma la produzione del sequel, MoviePlayer.it, 26 ottobre 2021.
- Kim Stanley Robinson, Il rosso di Marte, Fanucci, Roma, 2016.
- Kim Stanley Robinson, Il verde di Marte, Fanucci, Roma, 2016.
- Kim Stanley Robinson, Il blu di Marte, Fanucci, Roma, 2017.
- Salvatore Santangelo, L’inquietante attualità di “Dune”, Huffington Post, 5 novembre 2015.
- Alejandro Jodorowsky e Moebius, L’Incal. L’integrale, Mondadori, Milano, 2019.
- Alejandro Jodorowsky e Juan Giménez, La Casta dei Meta-Baroni. L’integrale, Magic Press, Roma, 2012.
- Hayao Miyazaki, Nausicaä della Valle del Vento, Lucky Red, 2016 (home video).
- Ridley Scott, Alien, 20th Century Fox – Disney, 2011.
- Ridley Scott, Blade Runner, Warner Bros, 2011.
- Denis Villeneuve, Arrival, Sony, 2017.
- Denis Villeneuve, Blade Runner 2049, Sony, 2018.